martedì 11 settembre 2018

Ferro su ferro

di Andrea Guizzardi



Il rientro in Polizia per Attilio nel marzo del 1993 fu molto malinconico e all’insegna delle grandi assenze. D’altronde, si era già immaginato, senza dover ricorrere a eccessivi sforzi di fantasia, che non avrebbe trovato nessuno intento a srotolargli il tappeto rosso al momento dell’ingresso in Questura.
Infatti il Questore era impegnato, il Vice Questore Vicario in ferie, il Vice Questore aggiunto in missione, i Commissari indaffarati a coordinare importanti operazioni investigative, gli Ispettori al seguito dei commissari e i Vice Ispettori a presidio di un quartiere a rischio con buona parte degli assistenti.
Ad accoglierlo c’erano soltanto il giovane piantone nella guardiola, un paio di amministrativi intenti a portare dentro e fuori dall’archivio alcuni carrelli stracolmi di fascicoli impolverati e oggetto di grande interesse per i roditori, nonché un funzionario vicino alla pensione, assegnato da qualche giorno all’ufficio ricezione denunce e immerso con totale disinteresse nella vicenda di un’anziana signora, a cui era stato sottratto per dispetto un vaso da parte del vicino di casa.
“Che splendido benvenuto; si vede che mi stavano proprio aspettando”. Immaginarsi il deserto come un luogo avventuroso e non privo di un certo fascino non è come attraversarlo nella realtà sotto il sole cocente e senza rifornimenti. La desolata solitudine raramente fa coppia con una sana giovialità.
Attilio fu riconosciuto dal giovane piantone, che, non appena lo vide arrivare, gli corse incontro per stringergli la mano e complimentarsi: ”Bravo lo stesso Guercioni. Lei ha pur sempre conquistato una medaglia di grande valore, dando lustro alla Polizia italiana nel mondo”.
Era un caso di candida e sana ingenuità o, invece, il piantone lo stava prendendo per i fondelli? Non volendo approfondire l’argomento, onde evitare di iniziare subito la nuova avventura con il piede sbagliato, Attilio cercò di non indagare troppo, limitandosi a dire: “Per sua fortuna la Questura sembra deserta e nessuno dei superiori la può sentire, ma non credo di essere in cima alle preferenze di chi comanda in questo luogo. Con ogni probabilità lei rappresenta una sparuta minoranza; sta di fatto che io ho avuto la mia chance e me la sono giocata male. Lei cerchi di essere più realista e sfrutti meglio di quanto non abbia fatto io le occasioni che le capiteranno”.
“Lei è troppo pessimista. La vita dà e la vita prende – diceva sempre la mia adorata nonna -, per cui vedrà che non tutto è da considerarsi perduto”, rispose il giovane piantone con un entusiasmo enfatico e quasi fastidioso.
“Sarà anche così, ma non ne sono molto convinto. Ho abbandonato per strada la mia ingenuità da molto tempo e gli ultimi mesi della mia vita non hanno fatto che confermarmi quanto sia sbagliato credere nelle storie a lieto fine e nella generale bontà degli altri esseri umani. Lei forse ci crede ancora?”
“Nelle favole ovviamente no, ma nella bontà nascosta in ogni animo umano sì”.
“Benissimo, buon per lei. Quando si è più giovani, c’è una maggiore predisposizione al pensiero positivo e ottimistico. Per uno come me, purtroppo, le cose sono un po’ diverse, ma è ormai inutile piangersi addosso”, disse Attilio, il quale, per defilarsi da quell’approccio eccessivamente mieloso, cercò di riportare la conversazione al reale motivo del suo arrivo in Questura e chiese: “Per tornare più sul concreto, mi potrebbe gentilmente indicare a quale stanza sono stato assegnato e se qualcuno mi ha lasciato dei compiti da svolgere?”.
Dopo che il piantone ebbe scartabellato tra i fogli sparsi sul tavolo della guardiania, spuntò sotto il telefono un pezzo di carta mezzo strappato e parzialmente stropicciato, alla vista del quale il giovane di guardia parve illuminarsi: ”Vada in fondo a sinistra superando la scala e prenda l’ultima porta sulla destra; lì troverà la sua stanza. Non si può sbagliare, perché di fronte c’è l’ingresso del bagno con le figure stilizzate dell’uomo e della donna”.
Dopo aver ringraziato il piantone per la precisa e puntuale indicazione e aver pensato che la collocazione nei pressi della ritirata fosse estremamente sintomatica del grado di considerazione di cui stava godendo, Attilio, giunto dinanzi alla porta, emise un sospiro di rassegnazione e varcò la soglia della stanza.
La camera era buia, polverosa, potenzialmente spaziosa, ma di fatto resa angusta dalle scaffalature ricolme di faldoni, che circondavano in modo opprimente una piccola scrivania in formica dal colore verdino pallido. Quest’ultima era segnata dalle incisioni simil rupestri realizzate da ignoti autori nel corso degli anni e concernenti in prevalenza argomenti di grande interesse generale, quali i tormenti dell’amore (Michela ti odio; Gennaro sei the best), il rutilante mondo della musica internazionale (W i Duran Duran e no a Claudio Villa; Nick Kamen sei un figo; Madonna è una gran donna; c’è solo Vasco) e le preferenze calcistiche (Maradona e Napoli buuuu, Milan tiè, Juve ladri e Inter fai schifo).
Sulla scrivania decorata da queste scritte – l’indubitabile eredità di una civiltà davvero impegnata - faceva bella mostra di sé un foglio bianco in formato A4 e vergato a biro, sul quale qualcuno premurosamente aveva lasciato ad Attilio un breve elenco delle cose da fare: “Inizi pure da dove vuole, il lavoro non le mancherà. Sono tutte pratiche chiuse che devono essere catalogate e poi sistemate in vista del loro definitivo trasferimento in archivio. Buon rientro Guercioni!”.
Incerto se interpretare il messaggio come un atto di incoraggiamento o come un’altra palese canzonatura, Guercioni decise di prendere da subito confidenza con il suo nuovo luogo di lavoro. Per questo motivo cercò l’interruttore della luce, sino a che lo trovò nascosto dietro uno scaffale; quando lo premette, dopo essersi incuneato vicino al muro, si avvide della presenza di un timido neon, che a intermittenza emanava una luce opaca e sporcata da sfumature di grigio polvere.
Nonostante il luogo infondesse un’abbondante dose di tetraggine e desse l’impressione di essere una di quelle stanze abbandonate da tempo da ogni forma di vita umana, Guercioni cercò di farsi coraggio. Almeno gli era stata risparmiata la collocazione nel sottoscala. Quest’ultima era stata infatti riservata a tale Paronzo, distintosi nel corso degli anni per una serie infinita di sciocchezze di vario genere, tali da avergli consentito di aggiudicarsi quell’ambitissimo luogo di lavoro per ampio distacco su tutti i possibili concorrenti.
Di positivo c’era che Attilio avrebbe potuto gestirsi in piena autonomia, scegliendo liberamente da dove cominciare e come procedere, perché nessuno si sarebbe preso la briga di effettuare chissà quali controlli. Di negativo c’era, invece, che le scarne istruzioni ricevute, unitamente all’amena sistemazione logistica, rappresentavano in modo sin troppo palese l’ennesima dimostrazione di quanto la sua persona fosse poco benaccetta in Questura: del resto, cos’altro avrebbe potuto attendersi di diverso un manesco secondo classificato all’Olimpiade, sconfitto da un signor nessuno, carente di autocontrollo e poco incline a fare squadra?


Estratto dal romanzo "Ferro su ferro" di Andrea Guizzardi, Midgard Editrice 2018

www.midgard.it/ferro_suferro.htm







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