lunedì 30 luglio 2018

Intervista ad Elisabetta Trottini


Intervista ad Elisabetta Trottini, quarta classificata al Premio Midgard Narrativa 2018 con il racconto “Al fiorire della Mimosa”, edito nella Collana Narrativa della Midgard Editrice nell’antologia “Hyperborea 2”.









Buongiorno, parlaci del tuo racconto, come nasce?


Il racconto nasce qualche anno fa, quando ho sentito particolarmente vicino il tema della diversità e il concorso è stato l’input per iniziare a scrivere. Nel racconto troviamo due sorelle streghe che devono fare i conti con un mondo dove è tornata di moda la caccia alle streghe, solo perché sono diverse dagli umani. Sono partita da qui per sviluppare questo tema: la storia insegna che solo grazie a culture diverse, innovazioni e filosofie si è potuti arrivare allo sviluppo delle grandi civiltà. Per diverso non intendo solo il colore della pelle, la religione o la lingua ma anche la disabilità, le diverse mentalità o vedute o semplicemente il diverso modo di comportarsi, l'aspetto fisico e caratteriale. È molto facile cadere nella paura, nel pregiudizio di ciò che non è uguale a noi ed è proprio quello che fanno gli uomini nel racconto, ma che forse anche noi faremo al loro posto.



Il racconto rientra nel genere Fantasy storico-distopico. Ami molto questo genere?


Sì mi piace molto, anche se non è l’unico genere che leggo. Infatti adoro il fantasy come “Harry Potter” di J. K. Rowling, i fiction storici come “La lunga vita di Marianna Ucria” di Dacia Maraini, i thriller come “La psichiatra” di W. Dorn, i saggi scientifici come “L’infinito” di A. Zichichi e “Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo” di S. W. Hawking e i classici come “Il ritratto di Dorian Gray” di O. Wild.

Mi sono invece appassionata ai distopici leggendo “Il mondo nuovo” di Huxley e poi la saga di “Matched” di Ally Condie.  Mi appassionano per gli spunti di riflessione: infatti questo genere pone spesso l’accento  su società e tempi diversi dove viene esasperato un aspetto negativo della nostra società, mettendoci in guardia da quello che potrebbe accadere.





Qual è il rapporto fra la scrittura e il resto della tua vita?


Scrivere è sempre stata la mia passione: da bambina scrivevo poesie o inventavo storie da raccontare alle mie amiche. Crescendo mi sono dedicata a scrivere racconti sempre più impegnativi come il primo romanzo “Anime di fuoco” (Midgard, 2014), iniziato a scrivere a 14 anni insieme alla coautrice. Scrivere ora è parte delle mie giornate, quasi fosse un piacevole bisogno. Mi piace scrivere soprattutto di sera dopo aver studiato, mi rilassa e mi permette di riflettere. Quando poi ho più tempo disponibile dedico anche mezza giornata a scrivere, correggere i romanzi non ancora pubblicati o leggere.





Quali scrittori ti piacciono e ti ispirano?


Non ho un autore preferito e raramente leggo tutti i libri di uno stesso scrittore. Gli autori che però hanno segnato di più la mia adolescenza sono stati principalmente tre: Licia Troisi, Hermann Hesse e Pirandello. Alle medie divoravo fantasy su fantasy ed ero innamorata delle storie di Licia Troisi. Poi però quando ho letto “Siddharta” di H. Hesse e “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello sono rimasta estasiata. Mi hanno dato una visione del mondo diversa da quella che avevo e mi hanno ispirata nella scrittura.



Progetti futuri?


Prima di tutto finire l’ultimo anno della Magistrale in Matematica e trovare un buon lavoro, senza però mai tralasciare la scrittura. In cantiere ho tanti libri, molti dei quali sono quasi pronti: un distopico con una società completamente controllata, due fantasy uno che tratterà di creature magiche mitologiche e un altro che avrà come protagonisti due ragazzi con doni speciali, un racconto drammatico sul bullismo, uno sulla violenza sulle donne e infine il continuo di “Anime di fuoco”. 

martedì 24 luglio 2018

Intervista a Rachele Tarpani

Intervista a Rachele Tarpani, quarta classificata al Premio Midgard Narrativa 2018 con il racconto “Reo”, edito nella Collana Narrativa della Midgard Editrice nell’antologia “Hyperborea 2”.




Buongiorno, parlaci del tuo racconto, come nasce?
Avevo l’idea in mente già da molto tempo, ma non avevo mai avuto modo di concretizzarla fino in fondo. Inizialmente avevo pensato di farne una long-fic a più capitoli o un romanzo vero e proprio, ma più scrivevo e più il messaggio principale che volevo mandare andava a perdersi nei problemi secondari dei personaggi. L’occasione di scrivere un racconto breve con un numero di pagine prestabilito mi ha dato l’opportunità di riflettere su quali avvenimenti della trama fossero davvero importanti e quali no, e sull’impronta che avrei voluto dare alla storia.
L’ispirazione per Reo mi è venuta leggendo i commenti che i normali utenti di Facebook pubblicavano sotto i post di noti giornali nazionali, soprattutto quelli di notizie di cronaca nera. Mi ha sempre colpito il modo in cui la massa, anche nei casi di un reato non ancora accertato, finisca sempre per inneggiare morte e fustigazioni al presunto “reo”, come se fossimo nel medioevo e fosse la folla a dover decidere che farne di un criminale.
La mia storia si basa su un unico assunto: “Sei colpevole fino a prova contraria”, una legge morale e penale che influenza irrimediabilmente la vita di ognuno dei personaggi, e che in sostanza è un rovesciamento della cosiddetta presunzione di non colpevolezza del mondo giuridico. Non sono esperta di legge, ma ho sempre trovato affascinante la facilità con cui siamo portati ad additare come colpevole qualcun altro in base solo ad un istinto, pur non avendone prove certe.
Nel caso della mia storia, però, a comandare non sono gli esseri umani ma le macchine. Questo dettaglio è importante e spiega anche perché gli abitanti della Far non si siano mai ribellati in secoli di Tecnomachia: tutti sono convinti che gli esseri umani sbaglino a priori (per il solo fatto di essere umani) ed il computer no. Il protagonista stesso avrà bisogno di un vero e proprio scossone nella propria vita per appurare che “errore e non errore” è diverso da “giusto e sbagliato”.


Il racconto rientra nel genere Fantasy storico-distopico. Ami molto questo genere?
Senza dubbio è tra i generi che più amo leggere, specie dopo la carrellata di saghe young e new adult pubblicate negli ultimi anni. Hunger Games, Divergent, Maze Runner e tutti gli altri hanno dato un grande contributo alla letteratura distopica per ragazzi, già in auge grazie a scrittori classici del calibro di Orwell e Bradbury. Anche il mondo orientale è stato di ispirazione, soprattutto con Koushun Takami ed il suo Battle Royale (di cui ho letto il manga).
Per quanto riguarda la scrittura, generalmente preferisco scrivere storie più urban-fantasy; ma quando l’idea per una distopia mi sembra azzeccata e vincente, mi cimento volentieri nell’impresa.


Qual è il rapporto fra la scrittura ed il resto della tua vita?
Per me scrivere è come respirare. Lo faccio dappertutto ed in qualsiasi situazione, anche durante le lezioni universitarie (e c’è chi può testimoniarlo). 
Sto fisicamente male se non prendo il computer e non scrivo almeno una frase, o non rileggo e correggo la bozza di un capitolo. Grazie alla scrittura ed alla lettura sono riuscita a superare indenne molti periodi difficili della mia vita, a raccontarmi e ad oltrepassare quei blocchi interiori che ho sempre avuto. Potremmo dire che sia la medicina contro tutti i mali della mia esistenza.
La gente che mi conosce mi descrive come una persona ponderata e calma davanti ai problemi, una che non si fa mai prendere dal panico e che riesce ad essere seria ed al contempo ad ironizzare anche quando tutto sta andando in malora. Il mio segreto è questo: un foglio di carta bianco ed una penna dove poter letteralmente vomitare la mia negatività. Se non scrivo, sono nervosa, intrattabile, mi infastidisce qualsiasi cosa. Datemi un foglio word ed una mezz’oretta di pace, e ritorno più calma di Gandhi e di Martin Luther King messi insieme.
Quando mi arrabbio seriamente, ho bisogno di uno sfogo. La scrittura è il mezzo più diplomatico che ho trovato per restare nei miei equilibri mentali e per non alterarmi inutilmente ogni volta che vedo che qualcosa non va (specie con altri esseri umani).
C’è chi va in palestra… Io sono pigra e preferisco allenare le dita.


Quali scrittori ti piacciono e ti ispirano?
Non ho uno scrittore preferito in assoluto. Come con la musica, non presto molta attenzione tanto all’autore o alla sua biografia, quanto all’opera stessa: se la trama mi ispira, io la leggo e la amo alla follia, anche se il resto delle opere dello scrittore è discutibile. E difficilmente leggo tutto di un solo autore.
Però, se devo citare i nomi di chi mi ha veramente ispirata come autrice, il primo della lista è Italo Calvino. Ha scritto forse il passo più bello che io abbia mai letto:
Posso dire che scrivo per comunicare, perché la scrittura è il modo in cui riesco a far passare delle cose attraverso di me, delle cose che magari vengono a me dalla cultura che mi circonda, dalla vita, dall’esperienza, dalla letteratura che mi ha preceduto, a cui do quel tanto di personale che hanno tutte le esperienze che passano attraverso una persona umana e poi tornano in circolazione.
È per questo che scrivo”. (Mondo scritto e non scritto, Italo Calvino)
Mi mette i brividi ogni volta che la leggo. È esattamente quello che faccio e che provo io. Se fosse stato ancora vivo, io ed Italo Calvino avremmo potuto essere grandi amici.
Un ringraziamento speciale va anche a due autrici fantasy tutte italiane che hanno segnato la mia infanzia in maniera irrimediabile: Moony Witcher con la sua serie “La bambina della sesta luna” e Licia Troisi con le “Cronache del Mondo Emerso”. Sono state le prime saghe fantasy di cui ricordi davvero qualcosa. Facevo le medie, allora, e le avevo letteralmente adorate entrambe. Posso dire che siano state loro a dare avvio alla mia passione per quel genere.

 
Progetti futuri?
Finire l’università e magari trovarmi un buon lavoro che mi dia uno stipendio sicuro sono la mia priorità, ma questo non frenerà di certo la mia vena artistica, anzi. Visto che amo pensare in grande… direi che mi piacerebbe pubblicare la quadrilogia urban-fantasy che sto attualmente scrivendo e di cui vado molto fiera.
Ne ho già scritti tre (di cui il secondo è attualmente in revisione) ed il quarto è quasi a metà. Per questa serie ho davvero tante idee, quindi per strafare ho in mente anche uno spin-off su qualche personaggio (anche quello in lavorazione).
Sogno un giorno di pubblicarli e di vedere il mio libro solista in una libreria, ed intanto mi diletto con qualche altro concorso. Mi piacerebbe anche fare una collaborazione con qualcuno in un’opera a più mani.
E mi piacerebbe andare in Giappone.
Grazie a Fabrizio Bandini ed a tutta la Midgard Editrice per l’enorme pazienza e per il lavoro fatto con il libro, ed un saluto a tutti gli scrittori, autori, appassionati.
Pace e amore!

www.midgard.it/hyperborea2.htm






lunedì 23 luglio 2018

Intervista a Lisa Bresciani


Intervista a Lisa Bresciani, seconda classificata al Premio Midgard Narrativa 2018 con il racconto “Libellula”, edito nella Collana Narrativa della Midgard Editrice nell’antologia “Hyperborea 2”.

 







Buongiorno, parlaci del tuo racconto, come nasce?
Ho iniziato a scrivere questo racconto durante gli anni delle superiori, quando il mio interesse per l’occulto si è fatto più forte. E la storia, come ogni altra che ho narrato, ha preso forma dalla mia penna in modo naturale e quasi involontario. Ovviamente, per dare vita alla protagonista, mi sono basata in parte anche sul mio temperamento e sulle mie passioni. Quando ho deciso di partecipare al concorso di quest’anno, ho voluto riprendere il racconto migliorandolo. 


Il racconto rientra nel genere Dark Fantasy. Ami molto questo genere?
Sì, ma non particolarmente. Sia nella lettura sia nella stesura dei miei libri, mi piace variare genere. Passo dal genere fantasy e i suoi sottogeneri, al thriller, e in certi casi anche al romanzo rosa. Rimangono comunque i miei preferiti i grandi classici dell’800’, romanzi scritti da autori come Dickens, le sorelle Bronte, Stoker, Shelley, Austen. Non a caso il mio libro del cuore è e rimarrà sempre Cime Tempestose. Mi piace a volte sognare e tornare un po’ bambina anche con i racconti di Beatrix Potter, Jill Barklem e Elisabetta Gnone. Un’altra mia grande passione sono tutti quei libri e articoli che trattano delle leggende celtiche, della stregoneria e della religione Wicca.


Qual è il rapporto fra la scrittura e il resto della tua vita?
Scrivo in diversi momenti e situazioni della mia vita. Solitamente, quando mi sento fragile e vulnerabile, mi sento ispirata e cerco protezione proprio nelle parole e nell’attività della scrittura. Invece, quando sono serena e senza pensieri, mi dedico di più alla lettura. Scrivo da quando sono bambina, e da piccola perlopiù poesie e riflessioni sulla vita e le persone. Crescendo ho trascurato la “vena poetica” e ora preferisco scrivere romanzi e racconti.



Quali scrittori ti piacciono e ti ispirano?
Come ho già spiegato prima, mi piace molto spaziare nella lettura, dunque non ho scrittori preferiti, ma posso solo affermare che certe volte mi ispirano molto le poesie e le vite di poeti come Giacomo Leopardi e Emily Dickinson, ma anche dello sfortunato e ormai quasi dimenticato poeta folle John Clare. Insomma, non so se si è capito, ma sono affascinata da tutti gli artisti, che per loro volere o meno, hanno trascorso una vita complicata, solitaria ma intrisa di sfumature romantiche.


 
Progetti futuri?
Al momento mi sto dedicando alla stesura di un racconto per ragazzi dagli 11/12 anni in su, comunque adatto anche per lettori adulti poiché i temi affrontati sono quelli della famiglia, dell’abbandono, della solidarietà, dell’empatia. Ho anche iniziato a scrivere, da qualche anno ormai, un thriller dalle sfumature paranormali, ambientato tra Edimburgo e le brughiere scozzesi. E infine, in autunno, uscirà il terzo libro, dal titolo Tempo di rinascita, di una saga fantasy, di cui sono coautrice insieme ad altre mie due care colleghe e amiche Perla Passagrilli e Roberta Marconi.

martedì 17 luglio 2018

La Guerra del Sale

di Fabrizio Bandini








Volgendo al termine l’anno del Signore 1539, Papa Paolo III Farnese decise un aumento della tassa del sale di tre quattrini la libbra, in tutto il territorio dello Stato Pontificio.

Si doveva combattere il turco infedele e il protestante traditore di Santa Romana Chiesa.

Servivano nuovi denari, insomma.

La richiesta di tale aumento provocò subito lo sdegno di numerosi Comuni, fieri delle loro antiche libertà, che continuavano a godere ancora in parte sotto il governo papale.

A Ravenna si ebbero tumulti e l’agro romano cominciò a ribollire.

Quando la notizia giunse a Perugia, la fiera e altera città umbra, turrita e guerriera come nessun’altra, facitrice di stirpi di bellicosi condottieri, un fremito di rabbia la percorse tutta.

Il Farnese, che aveva già abbattuto la centenaria e gloriosa Signoria dei Baglioni, stirpe fiera e ferocissima, bandendone dalla città i membri, ora, con questa pesante tassa, che negava i privilegi concessi a Perugia dai Pontefici Urbano VI, Martino V ed Eugenio IV, si preparava a sottometterla definitivamente.

Almeno questa era la sensazione che pervadeva la maggioranza dei perugini, dai nobili ai popolari, dai mercanti agli uomini d’arme.

Fu un attimo e la città si ribellò.

Fra il popolo si sparse la voce che la tassa veniva imposta non per la difesa della Fede contro il turco e il luterano, ma bensì per gli sperperi della curia romana, di Costanza, la figlia del Papa, e per i denari che il Farnese dava all’Imperatore Carlo V, per tenerselo amico, che oramai l’intera Italia e mezza Europa erano sotto il dominio di quel potente sovrano.

In quei freddi mesi del principio del 1540 era Capo dei Priori di Perugia Alfano Alfani, vegliardo saggio e posato.

Presagendo grandi rovine egli tentò inutilmente di convincere gli altri Priori e i più eminenti nobili della città a non opporsi al volere del Pontefice, che era una pura follia ribellarsi a lui in quei burrascosi frangenti.

Nessuno gli volle dare ascolto.

Tre ambasciatori della città, Marcantonio Bartolini, Sforza degli Oddi e Mariano dei Bizzocchetti e Narducci, gentiluomini distintissimi, furono inviati a Roma portando con sé una serrata e drammatica supplica scritta dal famoso letterato Luca Alberto Podiani.

Il Papa n’ebbe a male ed in un moto di rabbia ordinò agli ambasciatori di ubbidirgli, sennò avrebbe usato contro la città ribelle le chiavi di Pietro e la spada di Paolo.

Subito dopo arrivò in Perugia un ambasciatore della curia romana che intimava con tono fermo ai Priori l’accettazione dell’aumento della tassa del sale, pena la privazione dei privilegi, l’interdetto e la confisca dei beni.

Il povero Alfani, in difficoltà, assicurò al messaggero papale l’obbedienza della città, ingarbugliando ancor di più la faccenda.

Ma i perugini non la pensavano allo stesso modo.

La città fremeva di rabbia.

La rivolta dilagava già per le anguste vie, da Porta Sole alla Piazza Grande, da Colle Landone, dove sorgevano le severe torri e le magnifiche case dei Baglioni, sino a Porta S. Pietro.

Si preparavano spade, scudi, armature, armi d’ogni genere.

Qualche ardito già si lamentava che il Farnese era troppo lento nel muovere guerra e che ben presto avrebbe assaggiato il ferro dei perugini.

La stessa esaltazione che aveva incendiato Firenze dieci anni prima, al tempo del celebre assedio degli Imperiali, ora scorreva per Perugia, la città indomita e marziale, la città della battaglia dei sassi, di Braccio Fortebraccio, degli Oddi e dei Baglioni.

In ogni caso si volle decidere consultando la cittadinanza se accettare la tassa sul sale oppure no.

Il popolo fu riunito nelle cinque maggiori chiese delle principali Porte della città, S. Domenico per Porta S. Pietro, S. Francesco per Porta S. Susanna, S. Agostino per Porta S. Angelo, S. Fiorenzo per Porta Sole e S. Maria dei Servi per Porta Eburnea.

Gli animi ribollivano, oramai inaspriti, esasperati.

Nella gotica S. Maria dei Servi, tempio dove riposavano alcuni dei magnifici Baglioni, come il celeberrimo Braccio I, e molti illustri dottori della Sapienza, la votazione fu chiarissima.

Si propose che chi accettava la tassa del Farnese si radunasse nel coro.

La bella Chiesa si vuotò in un attimo.

Di fronte a questi eventi i Priori decisero di eleggere un Consiglio di venti gentiluomini, per trattare la difficile questione con il Papa.

Ma la cosa non piacque alla fazione più esagitata, che quei nomi parevano troppo moderati.

Così una folla infuriata irruppe a Palazzo e i Priori si videro costretti ad annullare tutto, temendo di essere gettati dalle finestre del venerando edificio, come era consuetudine in quegli anni burrascosi.

I perugini quindi furono di nuovo convocati nelle cinque chiese e si pervenne alla nomina dei Venticinque Difensori di Giustizia de la Città di Perugia, che dovevano trattare con il Farnese, senza indietreggiare di un pollice.

Fra loro vi era il fior fiore della nobiltà e alcuni popolani: Gentile Graziani, Lorenzo Baglioni, Bartolomeo Montevibiani, Benedetto Tucci e Ciancio Ceccarini per Porta S. Pietro; Pier Filippo Mattioli, Bernardino Montesperelli, Malatesta Ranieri, Niccolò Tei e Alberto Guidantoni per Porta Sole; Vincenzo della Penna, surrogato da Carlo Della Penna, Bartolomeo della Staffa, Cornelio degli Oddi Novelli, Mariano dei Bizocchetti e Narducci, e Cesare de’ Merciari per Porta S. Angelo; Francesco Maria degli Oddi, Giulio della Corgna, Tindaro Alfani, Girolamo Franchi e Bernardino Dionigi per Porta S. Susanna; Annibale Signorelli, Polidoro Baglioni, Marco Barigiani, surrogato da Marco Boncambi, Marcantonio Bartolini, e Borgia Sulpizi per Porta Eburnea.

Il 17 marzo 1540 arrivò la scomunica papale sulla città ribelle.

Le campane delle chiese suonarono a morto.

Era la guerra.

I Venticinque, insediatisi nella sala del collegio della Mercanzia, presero il controllo della situazione, esautorando gli stessi Priori nelle decisioni più importanti.

Furono approntate le milizie cittadine e segnati i turni di guardia per la città e per le mura possenti di travertino.

Paolo III, ben conscio del valore guerriero dei perugini, meditò a lungo sul da farsi, poi, in pieno concistoro, annunciò in mezzo ai cardinali di voler ridurre all’obbedienza quella città così ribelle con la forza delle armi.

Il Cardinal Iacobacci, Legato in Umbria, tentò un’ultima mediazione, raggiungendo Foligno.

Ma i Venticinque furono irremovibili, non fu permesso nemmeno a Luca Alberto Podiani di recarsi ad incontrarlo.

Le trattative fallirono ancor prima d’iniziare.

Venne aprile e comparvero nel territorio perugino le prime armate pontificie, guidate da Pier Luigi Farnese, figlio del Papa Paolo III, Duca di Castro e Gonfaloniere di Santa Chiesa.

Personaggio torvo, libidinoso e senza scrupoli, che s’era già macchiato di obbrobriosi crimini.

I perugini si affidarono al Cristo.

Il 5 aprile, di notte, fu issato sopra la porta del Duomo, che guarda la Piazza Grande, un grande Crocefisso.

Per tre sere, all’imbrunire, l’intera città si mosse in processione da S. Domenico, lentamente, pregando, fin sotto le scale del Duomo.

Avanzavano i magistrati, i nobili e le confraternite.

Mancavano del tutto i religiosi invece, visto che sulla città pendeva l’interdetto papale.

Davanti al grande Crocifisso s’inginocchiava in preghiera una folla, scalza, supplicante, che si percuoteva le spalle con i flagelli, in un’atmosfera densa e drammatica.

Pure i soldati della milizia passando per la Piazza Grande s’inginocchiavano e abbassavano le bandiere davanti al Crocefisso.

La terza notte, nella piazza illuminata dalle torce, davanti ad una folla straripante, in preghiera, il Cancelliere dei Priori Mario Podiani fece un commovente discorso e depose le chiavi della città ai piedi del Crocefisso.

La folla eruppe in un grido alto, per tre volte, –Misericordia! Misericordia! Misericordia!-.

L’armata papale intanto si stava radunando fra Foligno, Assisi e Bastia.

Ottomila italiani e ottocento tedeschi, guidati dai condottieri Pier Luigi Farnese, Alessandro Vitelli, Girolamo Orsini, Giambattista Savelli, Niccolò da Tolentino e Teobaldo Starnotti da Cerreto.

A cui s’aggiunsero, pochi giorni dopo, tremila spagnoli, inviati dal viceré di Napoli, Don Pedro de Toledo.

Un’armata imponente.

Perugia poteva opporgli solo le milizie cittadine, non molto numerose, e duemila fanti, per la maggior parte senesi.

L’armata del Farnese si muoveva con lentezza, senza fretta, con la calma di chi è ben cosciente della sua forza.

In quei giorni primaverili si ebbero solo alcune scaramucce far i due eserciti.

I Venticinque speravano nell’aiuto delle città vicine, come Spoleto, che aveva dato segno di ribellarsi al Papa, e addirittura nell’intervento dell’Imperatore Carlo V.

Ma ben presto arrivò la notizia che Spoleto recedeva dalla rivolta, per non inimicarsi il Pontefice, e Carlo V, invece, da Anversa mandò a dire che si doveva obbedire.

Ai Venticinque rimaneva una sola carta in mano: invitare il giovane e bellicoso condottiero Rodolfo II Baglioni, figlio del grande Malatesta IV Baglioni, ultimo Signore di Perugia, a rientrare in città, nella sua Perugia, e a guidare la difesa contro la potentissima armata del Papa.

Rodolfo si trovava in Toscana, al servizio di Cosimo de Medici.

Gli fu inviata rapidamente un’ambasceria.

Il giovane Baglioni rispose, riflessivo e cauto, che per un’impresa di tal fatta servivano denari, molti denari, armi, vettovaglie e tutto il resto.

Il condottiero si rendeva ben conto della sproporzione delle forze in campo e temeva di ritrovarsi alle strette, come il suo amato padre Malatesta all’assedio di Firenze.

I Venticinque e i Priori non si scoraggiarono, si diedero a cercare denari, ori, argenti, in maniera spasmodica, ed infine inviarono una nuova ambasceria a Rodolfo Baglioni.

Questi si dibatté di nuovo nel dubbio.

L’impresa sembrava disperata, resistere alle forze del Farnese quasi impossibile, forse se ne poteva cavare solo un onorevole accordo.

Ma poi gli balenò alla mente Perugia, la sua amata città, le torri e palazzi dei Baglioni, nel Colle Landone, la città dei suoi avi, di Pandolfo, Malatesta I, Braccio I, Guido, Rodolfo I, Gianpaolo e Malatesta IV, suo padre.

Ripensò alla Signoria dei suoi avi, quella Signoria che era sua, che gli spettava di diritto, quella Signoria che il Papa gli aveva tolto.

E allora si decise.

Sarebbe accorso a Perugia.

Sì.

Sarebbe tornato nella sua città, per difenderla.

Ottenuto il permesso da Cosimo, mosse dal fiorentino con le sue truppe, e si diresse verso Perugia.

A Cortona il giovane Baglioni ebbe un drammatico incontro con l’amata madre, Monaldesca.

Questa tentò in tutti i modi di convincere il figlio a desistere dall’impresa, che era una pura follia e che non c’era da guadagnarci nulla.

Il ventiduenne Baglioni scosse la testa, le disse che oramai aveva dato la sua parola, e, seppur commosso, tirò dritto.

Nelle sue vene scorreva il sangue di Casa Bagliona, indomito e feroce, celeberrimo in tutta Italia.

Il dado ormai era tratto.

Mandati avanti i suoi capitani, Girolamo della Bastia e Pantaleone del Menna, Rodolfo Baglioni entrò in Perugia, per Porta S. Susanna, fiero e marziale, con un magnifico seguito di fanti e cavalieri, la sera del 16 maggio, che era la Domenica di Pentecoste.

Giunto velocemente in Piazza Grande smontò da cavallo e solennemente s’inchinò davanti al Crocefisso, in silenziosa preghiera.

Il popolo di Perugia alla notizia accolse festante da tutti i vicoli e portò in trionfò il giovane condottiero a Palazzo dei Priori, fra urli di gioia, spari, fuochi, suoni di trombe e di campane.

L’allegria della gente non fu frenata neanche dalla spaventosa bufera che si abbatté poco dopo sulla città, con tuoni, grandine e fulmini.

Rodolfo Baglioni era tornato.

Questo bastava.

Il popolo era in delirio per lui.

Il Baglioni cenò a Palazzo dei Priori e quella notte dormì in Canonica, dove avevano soggiornato Papi e Cardinali e si erano tenuti Conclavi.

Nei giorni successivi Rodolfo perlustrò la città, passò in rivista le milizie, si diede a fortificare le mura presso l’Ospedale del Cambio, in Porta S. Pietro, e presso S. Cataldo, in Porta Eburnea.

Nel frattempo la potente armata del Papa si muoveva contro il Castello di Torgiano, alla confluenza fra il Chiascio e il Tevere, ben difesa dal valente capitano Andrea D’Arezzo e dal prode perugino Ascanio della Corgna, con due compagnie di fanti.

L’armata farnesiana di trovò davanti un ostacolo imprevisto.

Per giorni assaltarono il Castello, senza averne ragione.

I perugini si difendevano con un coraggio e con valore incredibile, infliggendo ai nemici numerose perdite.

Anche Pier Luigi Farnese rischiò di lasciarci la pelle.

Un giorno, mentre attraversava il fiume sul ponte di Rosciano, con la sua cavalleria, fu individuato dai fanti del Castello, che gli tirarono una bella archibugiata addosso.

La palla gli passò vicino e colpì la groppa del suo cavallo.

Visto che Torgiano non cedeva, i condottieri del Papa, riunitisi, decisero di lasciare Alessandro Vitelli all’assedio del Castello, con un buon numero di feroci spagnoli, mentre il grosso dell’esercito avrebbe proseguito verso Perugia.

Così fu fatto.

L’armata del Pontefice arrivò a Ponte S. Giovanni e qui ebbe un piccolo scontro con le forze perugine.

Poi si mise a girare il contado, intorno alla fiera città, devastandolo completamente, incendiando e bruciando tutto.

Dalle torri di Perugia si vedeva ogni giorno in lontananza alzarsi il fumo degli incendi.

Bruciavano case, palazzi, ville, castelli.

Il Farnese non aveva fretta, come un grosso gatto che gioca con il topo si contentava di assediare la città e di aspettare, lanciando di tanto in tanto rapide incursioni contro Perugia.

Come il giorno in cui, improvvisamente, l’esercito papale irruppe nel borgo di Fontenuovo e lì scoppio una feroce battaglia.

Rodolfo Baglioni gli inviò contro una schiera di trecento valorosi e posti dei cannoni in Porta Sole si mise a bersagliare i nemici con potenti colpi.

I farnesiani furono messi ben presto in rotta.

In Perugia intanto scoppiavano feroci liti e torvi malumori.

Rodolfo Baglioni, constatato che i denari e i viveri promessi erano ben poca cosa, si scagliava contro i Venticinque, urlando che lo avevano ingannato, che non avevano i mezzi neanche per iniziare una guerra, e minacciava di andarsene con i suoi soldati.

I Difensori lo pregarono di restare e così, dopo aver sbollito la rabbia, fece.

Ma il malumore del popolo perugino cresceva contro il governo dei Venticinque, molti cittadini li ingiuriavano e li minacciavano oramai apertamente, con sempre maggior veemenza.

Si parlava di scacciarli, di ucciderli, di tagliare loro la testa senza pietà.

L’aria di Perugia si era fatta densa, pesante, cupissima.

Le liti fra fazioni nella città non avevano tregua e su litigava su tutto.

Il 25 maggio Rodolfo fece convocare un consiglio generale, in cui si discusse sul da farsi.

Il venerando Luca Alberto Podiani fu il primo ad accennare alla possibilità di arrendersi, visto la difficoltà estrema in cui si trovava la città.

I più fecero finta di non averlo sentito.

Il 30 maggio arrivò la ferale notizia che Torgiano, dopo un’eroica resistenza, si era arresa alla truppe del Vitelli.

La notte di Perugia diventò ancora più oscura, se è possibile.

Il giorno successivo, il primo di giugno, fu convocato un nuovo consiglio generale.

Ivi si scontrarono il partito della guerra, che voleva resistere ad oltranza, finanziando la difesa con altri ventimila scudi, e il partito della resa, che proponeva d’inviare un’ambasceria a Papa Paolo III.

Anche il Baglioni consigliava la resa, di salvare almeno il salvabile, di evitare l’orrido saccheggio dei nemici, prima che fosse troppo tardi.

Dopo un feroce e accanito discutere si mise ai voti e vinse il partito della resa, con la proposta d’inviare Benedetto Montesperelli e Orazio della Corgna a Roma, a chiedere perdono al Pontefice.

Ma la confusione era tale in città che non se ne fece nulla.

Il Montesperelli e il Della Corgna non partirono mai.

Un’atmosfera terribile e frenetica ammorbava Perugia.

Due giorni dopo, il 3 giugno 1540, nel monastero di Monteluce, Rodolfo Baglioni firmò la resa della città con Girolamo Orsini, capitano dell’esercito pontificio, con cui aveva già avuto un abboccamento nei giorni precedenti, in S. Costanzo.

Venne pattuito che Rodolfo sarebbe partito con i suoi soldati in ordine di battaglia e con le bandiere spiegate; quanti volevano fuggire da Perugia portando con sé i loro beni potevano farlo entro tre giorni; che Pier Luigi Farnese sarebbe entrato in città con i suoi soldati italiani e l’avrebbe mantenuta nel medesimo assetto di prima della guerra; che non sarebbero entrati i soldati spagnoli e che sarebbe stata rispettata la vita e i beni dei cittadini e l’onore delle donne.

Era la resa migliore che si poteva ottenere.

I Venticinque, sentendosi compromessi, si diedero alla fuga, con le famiglie, i figli e i beni che potevano portare con sé, alla volta di Firenze, Siena ed Urbino.

Alcuni si erano dati alla macchia ancor prima della resa, vista la mala parata.

Rodolfo Baglioni abbandonò Perugia il 4 giugno, con le sue bandiere al vento e i suoi uomini d’arme.

Lasciava per sempre Colle Landone, le belle case e le severe torri dei suoi avi.

La Signoria dei Baglioni era tramontata definitivamente.

Il giorno seguente entrava nella città Pier Luigi Farnese, da Porta S. Antonio,  con i suoi capitani, il Savelli, l’Orsini e il Vitelli, con millecinquecento fanti e trecento cavalieri, che lanciavano urla sguaiate di vittoria.

I Priori, usciti in solenne processione dal Palazzo, per andare incontro al Farnese, furono ignominiosamente fatti tornare indietro e subito dopo ebbero l’ordine perentorio di tornare alle proprie case.

Veniva sciolta così, dopo due buoni secoli, quella veneranda istituzione.

Perugia era stata vinta e ora avrebbe dovuto sopportare le angherie e le prepotenze dei vincitori.

Alessandro Vitelli, rancoroso verso i perugini per passati scontri, fissava la città con odio e pretendeva il saccheggio, che il trattato stipulato a Monteluce fra il Baglioni e l’Orsini gli pareva troppo leggero.

Visto che il Farnese non gli dava retta meditò con i suoi accoliti di simulare nottetempo una rivolta baglionesca in città, in modo da avere il pretesto di scatenarsi in un selvaggio sacco.

Girolamo Orsini, il capitano più vicino ai Baglioni, lo venne però a sapere e lo riferì a Pier Luigi Farnese.

Così saltò il diabolico piano escogitato dal Vitelli.

Ma questi, sempre più incarognito, non mollò la presa.

Pretese dapprima la grande campana bronzea del Palazzo dei Priori, e visto che il Farnese non gli concedeva nemmen quella, si dovette accontentare di una delle lumiere di ferro dello stesso, che riportò come trofeo di guerra nel suo palazzo di Città di Castello.

Gli accordi presi da Rodolfo Baglioni nel monastero del Monteluce vennero da subito beatamente ignorati.

I soldatacci spagnoli furono fatti entrare in città, come i lanzichenecchi tedeschi, e ben alloggiati, tanto che le più belle ragazze di Perugia dovettero fuggire e nascondersi, per evitare turpi violenze.

I Venticinque furono dichiarati ribelli, esiliati, con le loro famiglie, confiscati tutti i loro beni, e demolite le loro case.

Due di loro, dopo esser stati catturati, vennero anche sommariamente giustiziati.

Si trattava di Carlo Graziani e di Borgia Sulpizi, la cui testa fu issata all’inferriata della fontana.

Orrido spettacolo.

I loro vicini e amici, invece, furono costretti a dare una mano a scarcare le loro case.

I magnifici Priori furono ben presto sostituiti dai Conservatori dell’Ecclesiastica Obbedienza, che davanti al Legato pontificio dovevano giurare obbedienza al Papa.

Paolo III tolse l’interdetto alla città ribelle, ma pretese che venticinque cittadini andassero ai suoi piedi, a Roma, ad implorare perdono, con le corde al collo, come buoi ben aggiogati.

Cosa che puntualmente fecero.

Ma la punizione di Perugia non era finita.

Il Papa, temendo una possibile riscossa dei Baglioni, mai domi, e nuove ribellioni di quella città marziale e riottosa, volle che vi fosse costruita una grandissima fortezza.

Il progetto spettò ad Antonio da Sangallo il giovane, famoso architetto dell’epoca.

Il 26 giugno 1540, dopo una non troppo lunga assenza, tornarono in città Pier Luigi Farnese ed Alessandro Vitelli, e arrivati a Colle Landone, nel bellissimo quartiere dei Baglioni, cominciarono a studiare dove costruire la grande rocca.

Due giorni dopo, il 28 di giugno, cominciò la demolizione della magnifica casa di Braccio Baglioni, con le sue torri, e della Sapienza Nuova.

I perugini dovettero non solo assistere all’orrida demolizione del bellissimo quartiere dei Baglioni, ma parteciparvi pure, attivamente, con picconi e badili.

Una tristezza cupissima avvolse tutta la città.

Vennero giù in poco tempo le magnifiche case e le torri dei Baglioni, di Braccio, di Rodolfo, di Gentile e di Malatesta, con la torre dell’orologio.

L’etrusca Porta Marzia, bella e antichissima, venne inglobata su di un lato della fortezza.

Il quartiere dei Baglioni e l’intero nobilissimo Colle Landone, furono totalmente devastati, con violenza brutale, via Bagliona e le altre belle strade sepolte sotto la possente fortezza.

Con loro sparirono la Sapienza Nuova e tredici antiche chiese, fra cui S. Ercolano di Sopra, S. Stefano e la bellissima S. Maria dei Servi.

Scomparvero le medievali e nobili piazze dei Baglioni e di S. Maria dei Servi, detta anche di Malatesta.

Vennero distrutti due monasteri, ventisei torri e più di cento case.

Il campanile di S. Domenico fu mozzato e per avere materiale da costruzione non si esitò a buttare giù anche la nobile ed antichissima Porta del Sole, di origine etrusca, all’imbocco di via dei Calderari.

In poco più di due anni la poderosa rocca era costruita.

La bella Perugia, con le sue armoniche costruzioni etrusche, romane, medievali e rinascimentali, ne usciva sfigurata, guastata per sempre.

Tanto era costato ribellarsi alla tassa del sale.







Racconto ispirato dalla Storia di Perugia di Luigi Bonazzi, dalla Storia di Perugia di Ottorino Guerrieri, da I Baglioni di Baloneus Astur e dalle cronache dell’epoca.

Immagine: particolare delle "Storie di San Ludovico da Tolosa e di Sant'Ercolano" di Benedetto Bonfigli

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sabato 14 luglio 2018

Intervista a Gianantonio Nuvolone


Intervista a Gianantonio Nuvolone, vincitore del Premio Midgard Narrativa 2018 con il racconto “Solamente un colpo di spada”, edito nella Collana Narrativa della Midgard Editrice nell’antologia “Hyperborea 2”.





Buongiorno, parlaci del tuo racconto, come nasce?
Volevo narrare la storia di un ragazzo che va alla cerca dell’avventura e che si ritrova in una situazione, pur in un vasto mondo così fantastico e incredibile, che avrebbe potuto suscitare dal suo animo sensazioni che mai prima aveva provato e, devo confessare, l’ispirazione è stata “istantanea”: questo è stato fondamentale per la costruzione di una vicenda di forte intensità come io la desideravo.
Più di ogni altra cosa, però, sono felice della conquista del primo posto in un concorso di Midgard, una casa editrice di qualità che dedica grandi cure e una sincera passione al genere Fantasy.



Il genere del racconto è prettamente Sword and Sorcery. Ami molto questo genere?
Sì, è un genere che mi ha dato molte emozioni, soprattutto nella sua variante più “weird” e con ciò intendo ovviamente riferirmi ai precursori dei primi decenni del secolo scorso del periodo dei “pulp” americani.
Nello Sword and Sorcery si incontrano poi personaggi affascinanti che conquistano il lettore – in maggior misura rispetto a altri generi della narrativa di fantasia - e assurgono a veri e propri culti che, come è ben noto, hanno nei loro esempi più eccellenti trasposizioni e continuazioni nelle forme del fumetto, del cinema, dei giochi di ruolo ecc., insomma più in generale si collocano in modo permanente all’interno di ciò che si suole chiamare “immaginario collettivo”.



Qual è il rapporto fra la scrittura e il resto della tua vita?
Io scrivo per diletto; quando ho l’ispirazione adeguata l’attività dello scrivere mi “distrae” e mi diverte, per il resto devo confessare che detesto i motivi autobiografici o anche solo “metamorfizzare” in veste letteraria i banali pretesti offerti dalla vita di tutti i giorni.
Preferisco inventare una storia originale che si svolga all’interno di uno spazio creato dall’immaginazione, poiché, a parer mio, la scrittura è anche liberarsi degli angusti limiti della colloquialità e della scempiaggine cronachistica, oltre che dalla prevedibilità delle cose che  fanno parte del solito nostro mondo.



Quali scrittori ti piacciono e ti ispirano?
Sicuramente, come per molti, in principio fu Lovecraft: lo stile, i temi e le visioni di Lovecraft sono stati determinanti per far crescere il mio amore per l’Horror, il Weird, il Fantasy e la Sci-Fi spingendomi a conoscere la vita e l’opera degli autori suoi contemporanei – alcuni dei quali, com’è noto, anche suoi corrispondenti epistolari – che erano compartecipi dello stesso “Zeitgeist” artistico.
Arrivarono così veri maestri, per esempio Howard, Smith, Bloch.
Gli autori che più mi ispirano sono vari e dipendono dal tipo di storia che mi accingo a scrivere che è sempre in forma di racconto, dato che io sono un idolatra della (Multi-)Forma del Racconto: per il Fantasy su tutti Clark Ashton Smith che io ammiro molto: mi piace il suo stile decadente e poetico, raffinato e incantatore; per l’Horror/Weird penso alla produzione più oscura di Bradbury, alle straordinarie raccolte di Richard Matheson, per me fautore dello stile più “moderno” nel genere, e al King più “ossessivo”.
Mi piace poi citare l’ottocentesco Villiers de l’Isle-Adam stimolante fomentatore di Humour Noir.


Progetti futuri?
Ho terminato da poco un racconto lungo che potrebbe un giorno aprire una raccolta personale di racconti inediti.
Vorrei proporre una serie di storie autonome che investighino nelle paure degli uomini e nelle imprevedibili varianti dell’Inconsueto.
È un proposito impegnativo, ma che a una persona che considera la scrittura “ludicamente in modo serio” può sembrare comunque alletante.
Tutto qui.
Grazie a Fabrizio Bandini e a Midgard editrice per l’opportunità offertami e un buon lavoro a tutti i collaboratori e agli autori di Midgard.



mercoledì 11 luglio 2018

Intervista a Diana Pavel


Intervista a Diana Pavel, autrice del libro “La banalità del quotidiano”, edito nella Collana Poesia della Midgard Editrice.






Buongiorno, parlaci della tua opera, come nasce? 

Buongiorno.
Parlare della mia opera sarà come fare un viaggio dentro a me stessa.
Ogni singola parola scritta rappresenta una parte del mio essere e della mia personalità sensibile che mi accompagna in ogni esperienza.
Ho iniziato a scrivere “La banalità del quotidiano” la scorsa estate, tra un esame universitario e l’altro.
Sentivo il bisogno di mettere nero su bianco i flussi di coscienza che mi impedivano di concentrarmi pienamente.
A scrivere mi ha portato la mia timidezza e la mia incapacità di comunicare sentimenti repressi.
È sempre stato un momento di sfogo nel quale mi rifugiavo per cercare una tranquillità emotiva.
La voglia di farmi capire ed essere capita mi ha spinta a desiderare che altre persone leggessero le mie parole, si immedesimassero in esse e ne traessero beneficio.


Il titolo ci parla della “banalità del quotidiano”. Cos’è per te?

“La banalità del quotidiano” è un titolo che sento mio.
Un pensiero fisso che mi ha tormentato per troppo tempo seguito da numerose domande sul perché di certe situazioni.
Quasi come se fosse una lotta continua verso il raggiungimento di una perfezione che sfocia nella banalità assoluta.
Una routine dalla quale non si può o, più semplicemente, non si vuole uscire perché è più facile vivere ogni giorno la stessa storia piuttosto che voltare pagina e affrontare una battaglia che porta al cambiamento.
Mi ha sempre spaventato l’idea di ricominciare da capo, di lasciarmi alle spalle ricordi passati e dirigermi verso orizzonti sconosciuti.
Nella mia raccolta parlo spesso di apatia descrivendola come una paralisi mentale, il non provare nessun genere di interesse verso se stessi e il mondo circostante.
Il vivere la vita come inetti, privi di voglia di guardare al futuro con speranza e fiducia.
Una perdita di coinvolgimento seguita dell’abbandono e dall’accettazione di ciò che si ha, pensando di meritare il peggio.


Qual è il rapporto fra la scrittura e il resto della tua vita?

La scrittura è parte attiva della mia vita, una conseguenza del mio vivere.
Leggendo i miei testi si può capire molto sulla mia personalità: non riesco a nascondermi quando scrivo.
Sento la necessità di mostrare i miei stati d’animo senza censure, in piena sincerità.
Una vita senza scrittura non avrebbe alcun senso per me e non riesco ad immaginarla perché, fino ad ora, è l’unico mezzo che conosco per esprimermi.
Le parole pronunciate ad alta voce mi hanno sempre spaventato più del dovuto, preferendo quindi descrivermi attraverso un grido muto.
A parer mio, parte tutto dal cuore. Fare poesia vuol dire non avere vergogna di mettersi a nudo per gli altri e, soprattutto, per se stessi.
È uno stile di vita intimo che può essere coraggiosamente condiviso.


Quali scrittori ti piacciono e ti ispirano?

Fin dalle superiori ho apprezzato la scrittura di Joyce trovandola coinvolgente in una maniera tale da impressionarmi, così ne ho tratto ispirazione. I suoi stream of consciousness mi hanno fatta riflettere e iniziare a scrivere.
Anche Virginia Woolf è stata un grande punto di riferimento per me, così come Alda Merini.
Seppur poco conosciuto, una mia fonte d’ispirazione è Vasco Brondi, il cantante del gruppo “Le Luci della centrale elettrica”, i suoi testi sono pieni di significato, a parer mio.


Progetti futuri?

Attualmente sto lavorando ad una nuova raccolta di poesie, oserei dire un sequel de “La banalità del quotidiano”.
E sto finendo un romanzo iniziato due anni fa e poi abbandonato.