sabato 28 dicembre 2019

La birra dell'imperatore

di Mara Virani





Miami, isola di Cocoplum

Due boccali di birra, uno vuoto e uno pieno, poggiavano su di un tavolino di cristallo. Erano di fattura antica e preziosa, acquistati in una recente asta di oggetti napoleonici. Due uomini, intenti a parlare di affari, erano comodamente seduti su un divano.
Di fronte a loro lo skyline di Miami si specchiava nelle placide acque dell'oceano.
Al culmine di una animata conversazione il più anziano dei due si alzò e si diresse verso la cassaforte che si trovava nella stanza. Camminava a fatica e si aiutava con un bastone. Alla stanchezza del suo corpo, tuttavia, si contrapponeva una lucidità mentale e una perspicacia tali da tenere ancora testa ai suoi giovani e rampanti nipoti. John B. Taylor inserì la combinazione con cura e solennità, come se stesse officiando un rito sacro. Ci fu uno scatto e l’anta della cassaforte si aprì. La persona che era con lui si alzò e si mosse in sua direzione. Appena gli fu accanto, prima che potesse reagire, estrasse dalla tasca una siringa ipodermica e gliela conficcò nel collo. Dopo poco Taylor cadde a terra. L’uomo si avvicinò alla cassaforte e dopo avervi guardato dentro, ebbe un moto di rabbia. Ciò che cercava non c'era. Dove poteva mai essere? Si mise a frugare tra le carte custodite all’interno, tra cui il testamento. Le lesse tutte con attenzione, poi si tolse i guanti e si allontanò dalla villa come se nulla fosse accaduto.


Milano, via Bigli

Matteo Guarini, consulente di arte antica, era visibilmente impaziente. Se ne stava in piedi, alla finestra, a guardare la strada sottostante. Di corporatura media, dai capelli castani e ondulati, girava e rigirava tra le mani un assegno: trentamila euro intestati a suo nome. Benché lo avesse da giorni, non aveva ancora voluto depositarlo in banca. Da poco aveva ricevuto un’inusuale proposta di lavoro di cui ignorava ancora i dettagli. Sapeva, tuttavia, che c’era di mezzo un’importante eredità. Il suo cliente, rimasto anonimo, lo aveva contattato tramite un intermediario e gli aveva imposto precise condizioni e clausole di riservatezza. Una volta assunto l’incarico, gli aveva corrisposto un lauto anticipo.
Al suono familiare del campanello volse nervosamente il capo. Chi aveva suonato alla porta? Dante, il cane da cui cercava di non separarsi mai, si svegliò dalla sua pennichella. Alzò pigramente il muso e mugugnò, guardandolo incuriosito. Di lì a poco i lineamenti del viso di Matteo parvero distendersi. Era il portinaio con in mano un pacco a lui indirizzato. Lo aprì. Vi trovò una scatola di legno e una lettera, con scritto “Strettamente confidenziale”, che aprì con un antico tagliacarte. La spiegò e iniziò a leggerla. 


Egregio Prof. Guarini,

La contatto su segnalazione di un caro amico che ha elogiato la sua competenza e discrezione. Mio nonno era uno stimato capitano d’industria ed era anche un grande collezionista d’arte. Purtroppo è morto recentemente in circostanze misteriose su cui la polizia sta ancora indagando. Nel testamento ha disposto che l’oggetto a lui più caro, una sciabola che appartenne a Napoleone, vada in eredità a chi, tra i suoi familiari, risolverà l’enigma che ha ideato per nasconderla. L’unico indizio lasciato è contenuto nel pacco a cui questa lettera si accompagna. Tutto ciò che sono riuscito sino ad ora a scoprire si trova accluso in copia. Confido nella sua bravura e resto in attesa di ricevere quanto prima il suo riscontro.
Cordiali saluti,

Aaron Taylor


Matteo la rilesse con attenzione e poi passò a esaminare il contenuto della scatola. Con suo stupore vide che si trattava di una bottiglia di birra. La impugnò e la rigirò più volte tra le mani, guardandola alla luce della finestra. Ad occhio e croce sembrava di recente fattura e l’etichetta era chiaramente contemporanea. Dov’era nascosto, dunque, l’arcano? Anche quella mattina era immerso tra i suoi pensieri. Erano già trascorsi alcuni giorni e non aveva ancora identificato un filone di ricerca che ritenesse valido.
“Porca miseria! Ma come ho fatto a non pensarci prima!” esclamò improvvisamente con una certa soddisfazione. “Il punto più buio è sempre sotto la fiamma della candela” rifletté tra sé e sé, come se fosse un mantra. Si diresse in cucina. Prese una pentola, la riempì d’acqua e la mise al fuoco. Iniziò, poi, ad armeggiare col frigorifero e con un certo rumore estrasse uno dei suoi piani per andare a riporlo sopra la pentola. Quelle sue insolite manovre avevano attirato l’attenzione della sua assistente e di Dante che lo osservavano curiosamente.
La sua collaboratrice era una giovane donna minuta e dai lineamenti gentili. Più che per la sua preparazione, l’aveva assunta per i suoi modi pacati. Matteo sorrise e appoggiò fieramente la bottiglia sopra la griglia. Poi si mise in attesa.
“Tra non molto il vapore dell’acqua inizierà a sciogliere la colla dell’etichetta. Livia…Ha per caso con sé delle pinzette?”
“Forse…” rispose prima di allontanarsi.
Charlie, un gattino bianco e rosso che il professore aveva salvato da una triste fine, era riuscito a salire sul piano di lavoro della cucina e curiosava qua e là, tenendosi lontano dal fuoco.
Livia tornò con ciò che il professore le aveva chiesto e con un articolo. Spesso consultava online la stampa locale di Miami per leggere i pezzi di una sua amica giornalista. 


Estratto dal racconto "La birra dell'imperatore" di Mara Virani, vincitrice del Premio Giallobirra 2015, edito nell'antologia Giallobirra 3, Midgard Editrice.


lunedì 16 dicembre 2019

La birra di Platone

di Maria Grazia Giuliani






Quella mattina di primavera una luce tenue, assonnata irradiava di luce Perugia, mentre un viavai di pendolari inondava le strade e le saracinesche dei negozi cigolavano, sollevandosi. Un vago odore di cappuccino rapiva le narici di chi transitava dinanzi ai bar. La dimora dei marchesi di Sorbello si stagliava nitida in un cielo chiaro. Sembrava un’impavida roccaforte eretta contro le miserie del mondo, lei che di miserie ne aveva viste tante nei suoi poco più di quattrocento anni di vita. Superba e conscia di contenere nel suo ventre tesori come quadri, porcellane, manoscritti e tessuti ricamati antichi e di pregevole fattura.
Sotto le sue volte affrescate, nella sala Carlo III, si compivano i preparativi: persone in divisa percorrevano a grandi passi l’interno prezioso del museo, altre in borghese discutevano indicando le teche in vetro disposte lungo le pareti.
Queste persone si spostavano, poi, nelle altre due sale adiacenti per ultimare gli stessi lavori.
Un uomo alto e snello, vestito con un elegantissimo abito blu, guardava fuori dalla finestra tormentandosi con due dita la folta barba grigia. Sembrava assorto, mentre fissava i tetti spioventi.
«Professore» lo chiamò una giovane donna dalla testa piccola e ben fatta, circondata da un’aureola di corti ricci color bronzo, come in un quadro dell’Annunciazione. Era la sua assistente.
«Maia?»
«Professore mi perdoni, hanno terminato l’allestimento della mostra» disse lei a bassa voce.
«Molto bene» sospirò rumorosamente. «Attendiamo l’arrivo del dottor Dominici per disporre i gioielli nelle teche.»
«La bottiglia di birra di Platone?»
«La bottiglia di birra?» Sorrise.
«La chiamano tutti così ormai.»
«Anche per quella attenderemo l’arrivo del dottor Dominici.»
«Speriamo che non sia in ritardo, alle diciotto si apriranno i cancelli ai visitatori.»
Il professore le regalò un ulteriore candido sorriso e si allontanò. Nella sala c’era ancora qualcuno che lucidava le teche, poi quasi tutti sparirono.
«Professore venga,» disse un uomo in tuta da lavoro «venga con me.»
Si fermarono sulla soglia della sala Ugolino.
«Tutto è pronto,» disse l’uomo «adesso proveremo gli allarmi per l’ultima volta.»
«Sì, credo proprio che sia necessario. Procediamo.»
Qualcuno si avvicinò alle teche, poi allungò una mano e la poggiò sul vetro.
Scattarono delle assordanti sirene che emisero il loro suono acuto accompagnato dal lampeggiare blu di due lampade interne alla sala e di una esterna posta sulla porta d’ingresso. Quattro telecamere interne a ogni sala e cinque esterne avrebbero ripreso gli spostamenti dei visitatori.
«Nessuno oserà toccare le teche» disse l’uomo.
«Ottimo lavoro. Ora potete andare. È arrivato Dominici?» fece il professore a voce alta.
«Non ancora» rispose Maia.
«Sempre in ritardo quell’uomo! Venite.»
Maia, due uomini e due donne lo seguirono attraverso un corridoio sino nei sotterranei. I due vigilanti si fermarono all’ingresso di una stanza. Il professore trasse dalla tasca una chiave e aprì. Gli studenti di Belle Arti che collaboravano al progetto e Maia, entrarono. La sala era angusta, con le pareti di pietra viva, umida e fredda. Sul lato destro c’era una cassaforte che il professore aprì.
«Perdonate il ritardo» disse entrando un uomo che si asciugò il capo calvo con un fazzoletto e la mano tremante.
«Finalmente dottor Dominici, l’attendevamo.»
«Il traffico, gli impegni. Scusate.»
Dominici era un uomo robusto e alto, con uno sguardo acuto in un viso tondo, sfrontato.
Il professore contrasse le mascelle mentre la voce scorreva ancora dolce tra le labbra serrate.
«Va bene, va bene, mettiamoci al lavoro.»
 Il dottore, eminente archeologo, bofonchiò ancora delle scuse mentre oscillava sulle gambe.
A un cenno del professore gli studenti estrassero dalla cassaforte alcuni scrigni e li aprirono.
«Meravigliosi, unici, magnifici» commentarono i presenti con le pupille dilatate.
Il dottore fece un passo avanti, trasse fuori un bracciale tempestato di diamanti, avvicinò il monocolo e l’osservò.
«Unico. Un esemplare unico. Lo zar Nicola Romanov lo regalò alla zarina Alessandra. Questa a sua volta lo regalò a quel cialtrone di Rasputin, credendo che stesse guarendo suo figlio dall’emofilia.»
Estrasse alcuni collier e anelli con pietre preziose grosse come fagioli.
«Sono di ottima fattura veneziana. Sono il frutto di razzie compiute da Gengis Khan quando invase il Nord Italia,» disse Dominici «ma adesso aprite la cassaforte che contiene il pezzo più importante della collezione.»

Le minute dita di Maia estrassero una cassa più piccola e la depositarono con cura sul tavolo.
«Ecco la birra di Platone, il grande filosofo.»
Aveva estratto una brocca di ceramica dal corpo allungato e l’apertura rotonda. L’ansa unica e alta si sollevava al di sopra dell’imboccatura. Sembrava che il tempo non l’avesse sfiorata: era appena sbeccata e l’ansa presentava un pezzetto in meno nel punto in cui si congiungeva alla pancia tonda e affilata. Era dipinta di nero alla base e all’estremità superiore, mentre il resto era ricoperto da un leggero colore rossastro su cui spiccavano guerrieri di colore nero. Era ricoperta da un tappo di vetro, all’interno era visibile una sorta di liquido marrone scuro.
«È un’olpe, veniva usata per versare il vino o la birra» disse Dominici.
«Come è arrivata a noi?»
«Probabilmente è stata scoperta in qualche scavo a Ercolano o Pompei.»
«Sarà stata venduta sottobanco a qualche collezionista per una cifra che non oso neppure immaginare» disse il Professore.
 «Se ne ignorava persino l’esistenza. Un anno fa il conte Brandi ce l’ha donata sostenendo di ignorare che i suoi avi la possedessero» concluse Dominici.
«Ma cos’è quel liquido all’interno? E come è giunto dopo tanti secoli sino a noi?»
«Bella domanda,» il dottore sorrise «in realtà la brocca era sigillata ermeticamente da un tappo di lava solidificata.»
«Capisco,» disse Maia «il contenuto non essendo a contatto con l’aria non è evaporato.»
«Brava.» Dominici fremeva nel suo completo blu scuro di ottima fattura.
«E dunque?»
«Attraverso un delicato processo è stato prelevato e analizzato: si tratta di birra. È stato poi versato in un contenitore di vetro sottovuoto per preservarlo e il contenitore inserito nella brocca.»
«E poi?»
«Poi la brocca è stata richiusa con un tappo di vetro. Tutto qui.»
«Attirerà molti visitatori» disse il professore.
«Dobbiamo ringraziare i marchesi Bourbon di Sorbello per averci concesso di organizzare questa mostra nel loro antico e rinomato palazzo accanto agli oggetti preziosi che appartengono a questo museo.»

Estratto dal racconto "La birra di Platone", vincitore del Premio Giallobirra 2014, pubblicato nell'antologia giallo-noir "Giallobirra Volume 3", Midgard Editrice 2018






lunedì 9 dicembre 2019

Tempi da lupi

di Giulio Volpi e Nardino Cesaretti






La strada attraversava a mezza costa quella zona di montagna e seguiva, adattandosi alla morfologia del terreno, lo stesso percorso di allora.
Curve molto strette e scomode costringevano spesso a rallentare e guidare con attenzione, solo qualche breve rettilineo permetteva un minimo di rilassamento consentendo l’osservazione del paesaggio, bello e selvaggio.
Il fondo stradale era asfaltato, unica differenza da quel lontano periodo quando c’era ancora la guerra ed il passaggio dei mezzi militari sollevava una polvere così fitta da impedire quasi completamente la vista.
Il fiume rimaneva sulla sinistra e scorreva molto più in basso rispetto al livello della carreggiata, quasi in fondo a un dirupo, e lei riusciva a scorgerlo solo in quei rari e brevi tratti dove la fitta vegetazione si interrompeva.
Cercava di riconoscere quei luoghi individuando qualche punto di riferimento: il paese ormai doveva essere vicino.
Di là dal fiume, in cima al colle più alto, le sembrò per un attimo di scorgere la vecchia torre seminascosta tra gli alberi, ma la presenza di alcune case che non ricordava ci fossero in quel tempo le fece perdere di nuovo l’orientamento finché, giunta in prossimità di un bivio, gli apparve il mulino.
Riconobbe quel posto: la strada bianca che partiva sulla destra era quella che portava ai Casali.
La vecchia costruzione, ormai in disuso e abbandonata, era ancora riconoscibile nonostante i fitti cespugli di rovo l’avvolgessero quasi completamente.
La grande ruota, costruita parte in legno e parte in ferro, era ancora visibile e così pure, una decina di metri più in là, ciò che rimaneva della saracinesca per il passaggio dell’acqua che veniva aperta solo quando si doveva macinare.
Dall’altra parte della strada, la fontana.
Brandelli di ricordi le affollarono d’improvviso la mente: quante volte era scesa fin lì per andare a prendere l’acqua! La casa dove abitava era lontana e questa incombenza toccava quasi sempre a lei.
La vasca era ancora quella: scavata sulla stessa roccia da cui sgorgava l’acqua, accompagnata allora da un coppo rovesciato, sostituito adesso da un meno romantico tubo di ferro con relativo rubinetto a farfalla.
Non poté fare a meno di fermare la macchina sullo spiazzo antistante anche se, poco distante, seduto su una grossa di pietra, c’era un tizio col cappello calato sugli occhi, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la sigaretta accesa tra le dita della mano abbandonata.
Sembrava mezzo addormentato.
Ai suoi piedi era accovacciato un grosso cane bianco con delle macchie grigie.
“C’è un albergo da queste parti?” domandò.
L’uomo alzò la testa di scatto; aveva la barba lunga e portava un paio di occhiali molto scuri.
Forse è cieco, pensò.
Lui se li aggiustò come per cercare di vederci meglio restando per un attimo imbambolato.
Subito dopo gettò la cicca a terra e la spense col tacco della scarpa.
“Può andare al Leon D’Oro” disse con voce interrotta da qualche colpo di tosse. “Lo trova poco più avanti… lungo la strada.”
“Non è di qui vero?” aggiunse poi mentre la donna si avvicinava alla sorgente.
“No, vengo da Roma” rispose frettolosamente Nella, e si mise a riempire una bottiglia di plastica dopo aver bevuto alcuni sorsi dal palmo della mano.
“È buona vero?  Questa è la fonte più vecchia della zona. Una volta, tanti anni fa, venivano tutti qui a prendere l’acqua, e qualcuno viene ancora, anche se adesso ci arriva direttamente a casa.”
Lei lo ringraziò e salutò risalendo in macchina.
Avrebbe scambiato volentieri qualche altra parola con quel tipo singolare ma preferì affrettarsi: era molto stanca dopo quel lungo viaggio. 

Estratto dal romanzo "Tempi da lupi" di Giulio Volpi e Nardino Cesaretti, Midgard Editrice 2019




lunedì 2 dicembre 2019

Il volto perduto

di Monica Pica





Era il 21 marzo 2001, festa di San Benedetto, primo giorno di primavera, anche se l’aria era ancora gelida a quell’ora della notte. Le Torri Gemelle erano ancora lì, al loro posto, Facebook non c’era, né WhatsApp o Instagram. Il mio cellulare aveva solo due funzioni, chiamata e sms e fu una vera svolta quando riuscii a comprarne uno di dimensioni più piccole rispetto a quello, enorme, che avevo acquistato di seconda mano nel ’99. Ero appena scesa dall’auto che avevo parcheggiato sotto casa, stavo frugando nella maxi borsa in cerca delle chiavi del portone.
“Prima o poi dovrò fare pulizia in questa borsa”, dicevo tra me e me.
Afferrai le chiavi che riconobbi al tatto nascoste sul fondo, quando mi apparve davanti lui. “Eccolo di nuovo”, pensai, e prima che potesse aprir bocca gli dissi «Senti, è tardi e fa freddo e sinceramente non ho voglia di parlare, anche perché credo che ci siamo detti tutto. Vai a casa».
Non rispose, stava lì, aveva perle di sudore che gli colavano dalla fronte, nonostante il freddo, i capelli arruffati. Continuava a fissarmi con quegli occhi rossi che mi raggelavano il sangue. Distolsi lo sguardo e infilai la chiave nella serratura, ma prima che riuscissi ad aprire mi disse «Aspetta … ti faccio vedere come si tratta una puttana».
Non so bene cosa sia successo dopo. Ricordo di essermi accasciata a terra, forse per istinto di auto protezione. Le orecchie mi fischiavano, i suoni erano grevi e lontani, tentai di urlare con quanto fiato avevo in gola, ma non usciva nessun suono, un dolore acuto e sordo iniziò a divorarmi il viso, sentivo i capelli scoppiettare come se stessero prendendo fuoco, ma non c’erano fiamme intorno a me e poi nulla più, solo quelle parole che mi risuonavano in testa “Ti faccio vedere come si tratta una puttana”. Tutto ciò che so della mia vita negli istanti e ore successive mi è stato restituito dai racconti di chi mi ha soccorso e assistito in ospedale.
Arrivò l’ambulanza e fui portata al reparto ustionati, accompagnata dai miei genitori che erano stati chiamati da un vicino giunto sul luogo poco dopo l’accaduto. Tolte le bende del primo soccorso, i medici diagnosticarono un’ustione da acido muriatico. La prima emergenza da affrontare fu l’occhio sinistro. Intervennero subito, ma non assicurarono un recupero completo della vista. Rimasi sedata per alcuni giorni, sopportare il dolore delle ustioni sarebbe stato intollerabile. In quell’innaturale dormiveglia continuavo a sentire il suono di quelle parole “Ti faccio vedere come si tratta una puttana”.
Quando tornai semicosciente avevo la bocca arsa, come se avessi attraversato il deserto a piedi, l’occhio sinistro era bendato e col destro riuscivo a malapena a distinguere luci ed ombre. Pian piano le immagini si fecero più nitide e i suoni più definiti. Sentivo la voce tremante di mia madre, continuava a soffiarsi il naso, stava piangendo. D’improvviso un dolore assordante mi attraversò la parte sinistra del volto. Urlai richiamando l’attenzione del medico e dell’infermiera che si avvicinò e iniziò a trafficare con la flebo per aumentare il flusso di antidolorifici.
«Sono morta?», sussurrai a mia madre. Non ebbi il tempo di ascoltare la sua risposta perché caddi di nuovo in un sonno senza sogni.

Estratto dal volume "Il volto perduto" di Monica Pica, Midgard Editrice 2019