lunedì 19 giugno 2023

Fare Teatro

 di Michele Coccia.







UNA LUNGA STORIA RACCONTATA IN BREVE

     Uno sguardo sul nostro passato


Sabrina è in sala da pranzo che sta svolgendo i compiti di scuola. 

SABRINA: Mamma, posso fare una telefonata a Cristiano?

MADRE: Sabrì, nun ce sta’ tanto, la bolletta dell’altra vorta era piuttosto salata.

SABRINA: Ce sto solo du’ minuti.

MADRE: I minuti tua li conosco benissimo, nun finiscono mai. 

A casa di Cristiano.

MADRE DI CRISTIANO: Cristià, rispondi al telefono?!

CRISTIANO: Uffa!… sempre a me me tocca risponne. Pronto!

SABRINA: Cristià, so’ Sabrina.

CRISTIANO: Ciao, Sabrì!

MADRE DI CRISTIANO: Cristià, chi è al telefono?

CRISTIANO: È una compagna mia de scola. 

SABRINA: Cristià, che dormivi?

CRISTIANO: No, stavo a vede’ la televisione.

SABRINA: La storia l’hai studiata?

CRISTIANO: Quale storia?

SABRINA: Quella sugli uomini primitivi.

CRISTIANO: È vero!… so’ pure un sacco de paggine.

SABRINA: … È una storia facile, basta che la leggi una volta che già la sai.

CRISTIANO: Sì, però la devi pure legge’.

SABRINA: Cristià, voi che te la racconno in du’ parole?

CRISTIANO: Magari!

SABRINA: Questa storia dice che l’uomo è comparso sulla terra due milioni di anni fa. Prima c’erano le foreste, i dinosauri, gli animali che viveveno nell’acqua, gli uccelli che volavano senza le piume…

CRISTIANO: E che erano missili?

SABRINA: Erano uccelli che al posto delle piume avevano una membrana.

CRISTIANO: Erano una spece d’aquiloni?

SABRINA: Sì, ma battevano pure l’ali.
CRISTIANO: E prima de ‘sto Jurassik Park, che c’era?

SABRINA: C’erano gli esseri unicellulari.

MADRE: Sabrì, ce so’ li piatti da lava’! Io scenno giù a prenne er pane. Quanno ritorno nun te vojo trova’ ar telefono, intesi?   

SABRINA: Uffa!… manco più ‘na telefonata se pò fa’. Cristià, era mi’ madre che me dava er pilotto. Dove stavamo?

CRISTIANO: All’esseri unicellulari.

SABRINA: Il primo omo che è comparso sulla terra caminava come la scimmia, perché posava a terra pure le mani. Insomma era un ominide, ovvero una via de mezzo tra l’uomo e la scimmia, proprio come te.

CRISTIANO: Ma davero?

SABRINA: Ce so’ voluti parecchi anni prima che questi ominidi si reggessero in piedi. Erano di statura bassa ed avevano un cranio piuttosto piccolo.

CRISTIANO: Sabrì, se t’avessero visto, sai che t’avrebbero detto? ”Anvedi quella regazzina quant’è capocciona!”

SABRINA: Ragazzino ce sarai te, io c’ho undici anni!

CRISTIANO: Sabrì, nun te facevo così vecchia.

SABRINA: Che fai… sfotti?

CRISTIANO: Sabrì, continua la storia che è mejo.

SABRINA: Dopo l’ominidi è comparso l’homo Erectus. 

CRISTIANO: Sabrì, tiette sur generale, me sta annando a foco il cervello. 

SABRINA: Cristià, “erectus” è una parola latina che vuol dire che sta dritto.

CRISTIANO: Ner senzo che nun caminava più a quattro zampe?

SABRINA: Proprio così! Era un uomo inteligente che se sapeva costruì pure l’utensili de pietra.
          
CRISTIANO: Sai che sghiscio  magnà dentro una scodella der genere, solo che dovevano esse dolori quanno volava quarche piatto. E l’armi… pure di pietra?

SABRINA: Per forza, il ferro nun era stato ancora scoperto. E dopo l’homo Erectus è venuto  l’homo di Neanderthal e più tardi l’homo Sapiens che era mejio del primo e del secondo, perchè se sapeva costruì l’armi de metallo, le trappole… ed era pure un artista perchè se sapeva pure truccà.

CRISTIANO: Te l’immaggini un omo primitivo che se mette il rimmel? 

SABRINA: Che rimmel d’Eggitto!… tutto ar più se pittava la faccia, le braccia, il corpo…

CRISTIANO: Come l’indiani?

SABRINA: Proprio come l’indiani. Se sapeva cura’ le ferite, le malattie… e faceva pure i sacrifizi agli dei pe’garantisse la caccia e il raccolto. E per stare più tranquilli, si erano costruite le capanne sopra le palafitte. Prima magiavano quello che rimediavano con la caccia e con la pesca, poi s’ereno stufati d’annà sempre in giro e se so’ messi a coltiva’ la terra e alleva’ il bestiame.

CRISTIANO: Così, da cacciatori e da pescatori, so’ diventati cafoni.

SABRINA: Cafoni sì, ma sapienti!

CRISTIANO: Scommetto che hanno inventato pure l’aratro.

SABRINA: L’aratro no, ma il linguaggio sì.

CRISTIANO: Così, nun solo se poteveno offenne co’ li gesti, ma pure con le parole.  

SABRINA: E quando le terre vicino al villaggio diventavano improduttive, perchè ci seminavano sempre la stessa robba, andavano a conquistare altri territori. Il primo territorio di conquista è stato la Mesopotamia, perché era una terra molto fertile. Il primo popolo conquistatore è stato quello Sumero,   proprio quello che t’ha inventa to l’aratro.

Si sente aprire la porta di casa.

SABRINA: Cristià, è tornata mi’ madre! Ciao, se vedemo domani a scola! 

MADRE: Nun me dirai che sei stata fino a mò ar telefono!

SABRINA: Mà, era una compagna mia de scola che voleva sape’ a che pagina stavano l’esercizi di matematica.

MADRE: Nun c’è gnente da fa’, ce devo mette un ber lucchetto, così nun me c’arabbio più! (…..dalla cucina) Sabbrììì, ce sò li piatti da lavà???!!!!




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lunedì 12 giugno 2023

I misteri del Baltico

 di Stefano Lazzari.





Susan Mondschein si svegliò di soprassalto e gettò un’occhiata alla radiosveglia sul comodino alla sua destra. 
Le cinque meno dieci. 
Ricadde sul cuscino con un singulto soffocato e gettò uno sguardo verso Manfred, ancora placidamente addormentato accanto a lei. 
Fortunatamente suo marito aveva il sonno pesante, e anche stavolta era riuscita a non svegliarlo… da quasi un anno andava avanti questa storia del sogno ricorrente, e lei, ben decisa inizialmente a non dar troppa importanza ai vagabondaggi onirici del suo spirito, si sentiva ora vacillare sempre più nel suo proposito, man mano che il sogno aveva iniziato a tracimare nel tessuto ordinario della veglia. 
Aveva ancora senso continuare a tenersi tutto dentro, ora che il percorso onirico sembrava averla intrappolata in un segmento stagnante, sinistramente ripetitivo, e senza apparente riferimento col vissuto ordinario?
Succedeva questo: Susan guardava dall’alto una campagna sconosciuta, luccicante e odorosa di pioggia appena caduta da un cielo grigio uniforme… e lei era come sospesa sotto il tetto di una grande villa, ma non si sentiva solida, corporea come al solito: no, si percepiva gelatinosa, quasi liquida, una gocciolona che sarebbe potuta cadere da un momento all’altro o forse no, chissà per quanto ancora tenacemente abbarbicata all’estremità di quel tetto di campagna… e la terra al di sotto di lei non le appariva per nulla solida, al contrario le rimandava l’inquietante immagine di un infinito buco nero, pronto ad inghiottirla dentro un innominabile nulla…
Soltanto nelle ultime settimane, dalla fine dell’estate all’inizio dell’autunno, Susan aveva trovato il modo di colmare quell’orrido nulla durante la veglia: attività incessante e frenetica in ospedale – faceva l’infermiera – piena di straordinari, poiché ci fosse sempre un tutto che colmasse il nulla. 
Naturalmente a nessuna delle sue colleghe era sfuggito il suo disagio, e a Susan non rimase che nascondersi dietro la sua nevralgia del trigemino, pur vera e fastidiosa, per giustificare le sue traiettorie inquiete, frenetiche e colme di sbirciate all’orologio: perché il tempo, contrariamente a quanto succedeva alle sue colleghe, per lei passava troppo in fretta…
Il suo iniziale proposito di tenersi tutto dentro le stava cadendo di dosso, come una pelle ormai avvizzita. 
Pur non essendo uno strizzacervelli, Manfred Engelmann era un medico, era suo marito e la conosceva da più di vent’anni; di più, lo intrigavano le sfide apparentemente senza coordinate: chi meglio di lui?...
Le sfuggì un debole sorriso, intanto che si guardava allo specchio per gli ultimi ritocchi prima di uscire. 
Aveva cercato, nevralgia del trigemino a parte, di smerciare a se stessa e poi al resto del mondo, la risibile balla dei quarant’anni ormai prossimi quale origine di un malessere che di anagrafico e ormonale non aveva proprio un bel niente. 
Dunque, ormai aveva deciso: avrebbe raccontato tutto a Manfred, lui gli strumenti per la diagnosi li aveva di sicuro, la terapia sarebbe venuta di conseguenza. 
Un atto di imperdonabile presunzione, questo era stato da parte sua, voler combattere quella battaglia da sola: che poi nemmeno tale poteva essere definita, casomai un perfido agguato dello spirito al quale lei, ormai l’aveva capito, non sarebbe più sfuggita senza un aiuto determinante…


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sabato 3 giugno 2023

Il coro degli angeli

 di Anna Agostini.







L’ospedale dove mi trovo costretta da oltre due mesi dispone di larghi spazi da adibire a degenze ed ambulatori, servizi di diagnostica, pronto soccorso e molto altro; è dotato di un numero impressionante di posti letto ed accoglie ininterrottamente pazienti dei più svariati settori: dal materno-infantile al neonatale; dal pediatrico all’oncologico, al cardiovascolare (e certo ne ho dimenticato qualcuno). Oggi comunque è ricordato prevalentemente come una delle strutture più efficienti del Nord Italia per contrastare il dilagare dell’epidemia conosciuta col nome di Covid 19.
Per ragioni di privacy non ne citerò il nome né la città di appartenenza, che è anche la mia, e per gli stessi motivi non rivelerò esattamente chi sono limitandomi a rappresentarvi che la mia famiglia materna, che fa Rota di cognome, era imparentata, pensate, niente di meno che con un duca longobardo discendente dal più famoso Rotari, la cui dinastia si sarebbe distinta nel corso dei secoli per aver dato i natali a uomini d’armi, giudici e cavalieri.
Ma questa è sicuramente una leggenda, ce ne sarebbero tutti i presupposti.
Mi chiamo Floriana, ho appena trentacinque anni e sono affetta anch’io, come in questo periodo moltissime persone del mio paese, da Covid galoppante.
Come saprete, il morbo in questione si manifesta in una prima fase con sintomi moderati sicché all’inizio della malattia non accusavo che frequenti mal di testa, una febbre consistente che non mi abbandonava mai e che mi procurava un senso di debolezza perenne e un leggero mal di gola. Dopo meno di una settimana però il morbo non tardò a manifestarsi in tutta la sua virulenza portandomi presto a subire gravi difficoltà nella respirazione. Ciò mi procurò un ricovero d’urgenza nella struttura ospedaliera di cui vi parlavo e mi arreca oggi la concreta possibilità di essere trasferita all’interno della sua unità di terapia intensiva: quella più temuta. 
Tale morbo, come potete immaginare, oltre a procurarmi danni irreversibili ai polmoni, ha diminuito progressivamente le mie scorte di energia, già minate nell’ultimo periodo da una serie di eventi negativi  di vario genere: la morte di mia sorella appena qualche anno fa; l’abbandono del mio ultimo compagno per sua dichiarata incompatibilità di carattere con il mio, quasi in contemporanea al decesso di Ornella; e, da ultimo, praticamente a ridosso del mio avvenuto contagio, la scomparsa di mio padre e poi di mia madre - baluardi residui della famiglia - a causa sempre del maledetto Covid 19.
Per la verità il medico ospedaliero, il valente prof. F. di cui ormai sono diventata amica, d’accordo con il personale infermieristico presso cui ero e sono in cura, fa del suo meglio per rendere la mia dolorosa degenza quanto più confortevole possibile cercando di favorire in molti modi una risposta collaborativa da parte mia. 
La sua abilità è consistita nel far leva sul mio morale completamente a terra attraverso una forte capacità dissuasiva al pessimismo e soprattutto con la decisione di mettermi a disposizione una psicoterapeuta per due pomeriggi a settimana che mi aiutasse in tal senso. 
Quest’ultima concessione, che potrebbe sembrare a prima vista inconsueta, è avvenuta in ragione delle responsabilità che tutti gli operatori dello staff medico si assunsero sul mio conto, conseguenti alla circostanza che ero rimasta completamente sola e gravata da un triplice lutto familiare, come avevano documentato il mio asciutto stato di famiglia e le accorate parole della mia vicina grazie alla quale, nel momento cruciale della crisi, ero stata affidata alla ambulanza che mi avrebbe poi deposta nelle loro mani.
C’è chi parla molto male del servizio sanitario pubblico ma, per quel che mi riguarda, devo dire in tutta onestà di non essere d’accordo con costoro o, almeno, che nel mio caso non è stato così. 
Ho sperimentato e sto sperimentando, infatti, da parte di quasi tutto il team medico una sorta di attaccamento nei miei confronti che travalica ampiamente il dovuto e che, sia pure attraverso la fitta rete dei distanziamenti che tutti ormai ben conosciamo (camici, guanti, mascherine, occhiali protettivi e quant’altro) fa trapelare una notevole spinta al contatto umano e la volontà incontrovertibile di sprigionare quello spirito di empatia che dovrebbe accomunare sempre il personale curante con i degenti.
Se voi sapeste, infatti, quanto bisogno ci sia di conforto nel mondo e nella solitudine dei malati! 
Se voi poteste soltanto immaginare che cosa terribile possa essere lo stare tutto il giorno inchiodati su un letto bianco con l’occupazione prevalente, per non dire unica, di poter respirare e con la sola positiva prospettiva di scampare (forse) alla necessità di essere sottoposti agli interventi di quella apparecchiatura dolorosissima collegata “al tubo endotracheale che viene fatto passare attraverso la gola per raggiungere i polmoni” (ripeto esattamente le parole che ho sentito pronunciare da chi è stato testimone diretto o indiretto degli effetti di quel maledetto ventilatore da taluni definito “l’anticamera della morte”).
Ora vi starete chiedendo come e soprattutto perché trovi la voglia e la forza di scrivere da questo letto di lacrime, ma la risposta è presto data: non sono io che lo faccio direttamente né certo lo potrei sia per oggettiva impossibilità fisica sia per non contravvenire alle ferree regole del reparto che impongono silenzio assoluto e, come sapete, vietano il più possibile contatti esterni d’ogni sorta.
La verità è che c’è qualcun altro che lo fa per me. 
Vi ho già detto della psicoterapeuta e dunque è a lei che sottopongo senza alcun ordine i pensieri, via via che mi si presentano alla mente, nelle ore – sempre più rare, peraltro - di mia maggiore consapevolezza e lucidità ed è sempre lei che da remoto registra e ordina scrupolosamente in un file, almeno secondo quanto mi va assicurando, le parole che riesco a pronunciare con un filo di voce appena.
Solange si chiama la professionista, abbastanza giovane e anche carina, direi. Decidemmo, fin dall’inizio della sua presenza virtuale nella mia vita di malata, di ricordare e fissare insieme ogni preoccupazione o pensiero che considerassi degni di nota al solo e unico scopo di ottenere una significativa diminuzione della mia solitudine attraverso la condivisione con il mondo esterno di ciò che più mi turbava. 


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