martedì 28 dicembre 2021

Intervista ad Angelo Cravero

Intervista ad Angelo Cravero, autore del romanzo “Il Diario del Viaggiatore”, edito nella Collana Narrativa della Midgard Editrice.






Buongiorno, quali sono le tematiche principali del tuo romanzo?

Nel mio libro descrivo delle cose fondamentali per me, voglio mostrare quanto siano importanti l'amore e l’amicizia.
Il protagonista cerca nell'altro sesso la combinazione armonica, sente che senza la compagna le cose non sono le stesse e che è importante averla vicina.
Nell'amicizia le cose sono un po’ diverse, ogni persona la vive in modo diverso. Penso comunque sia un sentimento molto importante, trovare un amico equivale a trovare un tesoro.
In tutto il romanzo appaiono questi sentimenti, l’amore  e l’amicizia. Anche nelle situazioni più difficili e controverse i protagonisti trovano sempre un angolo in cui rintanarsi e l’amicizia fra di loro rinsalda i rapporti.
Condividere, vuol dire dividere, se doni a qualcuno con amore il tuo animo sicuramente sarai reputato un amico.



Nel romanzo è descritto un lungo viaggio. Ami particolarmente viaggiare?

Non amo viaggiare così tanto. Preferisco viaggiare leggendo dei libri, mi affascina di più. Posso visitare qualsiasi luogo, descrivere ogni aspetto delle situazioni che immagino. Preferisco stare a casa a scrivere al computer e lasciare la mia fantasia spaziare.



Ci sono degli scrittori o delle scrittrici che ami particolarmente e che possono averti ispirato nella scrittura di questa opera?

Uno dei miei scrittori più amati è Ken Follett, con lui ho scoperto l'Inghilterra, dall'anno mille all'anno millenovecento, ho imparato tantissimo. I suoi libri sono stati di ispirazione per le mie opere. Wilbur Smith è un altro autore che mi ha aperto la mente, insieme a Stephen King.
Trovo che la lettura sia molto importante e può cambiarti il modo di vivere.
Sono un grande lettore, leggo la media di venti libri al mese, mi tengo molto aggiornato.
Un bel libro è un'ebrezza che ti sfiora i sensi, un'armonia di parole, ti dà una sensazione di pace.



 
(Il volume è ordinabile sul sito della Midgard, su IBS, Mondadoristore, Amazon, Unilibro, nelle librerie indipendenti e nelle librerie Feltrinelli in tutto il territorio nazionale).



venerdì 17 dicembre 2021

Intervista a Diana Duca

Intervista a Diana Duca, autrice del libro “L’albero immaginario”, edito nella Collana Fiabe della Midgard Editrice.






Buongiorno Diana, tu sei una delle autrici de "L’albero immaginario", ci vuoi parlare di come è nata l’opera? 

Sì, il progetto nasce dall’idea di una delle partecipanti al laboratorio “Cambiare in 15 minuti”. Maria Grazia dice: mi è molto interessato e servito il lavoro di crescita personale. Ora mi piacerebbe qualcosa di collettivo. Bene, le rispondo: scrivi le regole e proponi. Maria Grazia ha scritto in paio di possibili scenari e ha lanciato la sfida. Chi l’ha colta ha scelto le regole più intriganti. Con alcuni dubbi e parecchi timori abbiamo portato avanti l’impegno preso. Non posso svelare tutti i dettagli ma dico che per scoprire l’opera abbiamo dovuto riunirci in un secondo momento


Quali sono le tematiche più importanti del vostro racconto?

I temi sono quelli già affrontati nel percorso “Cambiare in 15 minuti” e cioè il cambiamento, la fiducia, il gruppo, le relazioni sociali, le potenzialità umane nascoste.


Come è stata la collaborazione fra di voi e con le illustratrici del libro?

Collaborazione ottima. Le illustratrici sono giovani e tecnologiche, hanno trasformato le nostre idee in sogni a occhi aperti. La nostra esperienza le ha aiutate a rispettare i tempi che ci eravamo dati. Ci tenevamo a che fosse il regalo di Natale per i nostri nipotini.


Che scrittori o scrittrici vi hanno ispirato, se ci sono?

Forse ti deluderò, nessuno. L’albero immaginario è il risultato di creatività personale e di una energia di gruppo che esiste e che poche volte abbiamo presente. Affrontassimo le difficoltà della vita come abbiamo fatto con L’albero immaginario avremmo davvero vinto alla lotteria. Sicuramente ha giocato a nostro favore l’idea che non avevamo niente da perdere ma solo da guadagnare. Anche questo aspetto ci può tornare utile: le aspettative possono giocare brutti scherzi.


AA.VV., L'albero immaginario, Midgard Editrice 2021, p. 44
Gli autori: Maria Grazia Meloni, Diana Duca, Morena Cherubini Chiodi, Maurizio Simonetti.
La voce narrante: Valeria Cacace.
Illustrazioni di: Beatrice Giuliani, Miriam Felcher.


(Il volume è ordinabile sul sito della Midgard, su IBS, Mondadoristore, Amazon, Unilibro, nelle librerie indipendenti e nelle librerie Feltrinelli in tutto il territorio nazionale).





lunedì 6 dicembre 2021

Thor e la riconquista del martello

 di Marco Alimandi.






CAPITOLO III - Alvíssmál 

Si è scelto di tradurre ed analizzare quattro strofe tratte dall’Alvíssmál (i.e. “Racconto di Alvíss”, poema della Sæmundar-Edda (i.e. Edda poetica) che narra di una discussione fra l’Ase Þórr ed il nano Alvíss sulle differenze di vedute proprie dei nove mondi retti dall’asse cosmico Yggdrasill) in quanto esse mostrano le differenze radicali nel modo di intendere da parte degli abitanti di tutti e nove i regni quei fenomeni naturali che sono propri di quest’ultimi. Queste differenze sono visibili nell’etimologia dei nomi con cui questi fenomeni vengono identificati rispettivamente dagli uomini, dagli Æsir, dai Vanir, dai giganti, dagli elfi e dai nani. Dall’etimologia è infatti possibile scorgere come i fenomeni naturali vengano percepiti dagli abitanti dei nove regni e come la stessa loro percezione del vivere e del tutto sia assolutamente diseguale e spesso antitetica.
Traspare soprattutto una disparità abissale fra la percezione umana del tutto e quella che ne hanno gli Æsir e su questa ci soffermeremo. È questa una disparità che mette in luce l’assoluta supremazia della sfrenata dinamicità propria del modo che hanno gli Aesir di concepire la realtà, modo che se posto a confronto con quello degli uomini ne rivela la calma e la limitatezza a cui questi sono costretti dalla caducità della loro vita su Miðgarðr.
Basti pensare al caso della bonaccia (i.e. logn) che per gli uomini è detta Calma (i.e. logn) mentre è dagli Æsir detta Inerzia (i.e. lægi) o a quello dell’Oceano, distesa d’acqua che nell’immaginario dell’uomo è da sempre epitome di pericolo, di movimento e di tempesta ma che per gli Æsir invece non è altro che un Mare calmo (i.e. sílægja).


III.1 Traduzione e commento.

Strofe 21

Þórr kvað[1]:
"Segðu[2] mér þat[3], Alvíss, - öll of rök fira[4]
vörumk[5], dvergr, at vitir[6] - :
hvé þat logn heitir, er liggja skal[7],
heimi hverjum[8] í?"

 
III.1 Traduzione e commento.

Strofe 21

Þórr disse:
Dimmi tu questo, Alvíss, dacché ogni cosa degli uomini,
o nano, io presumo tu conosca:
come si chiama quella bonaccia, che ad adagiarsi va,
in ciascun regno?

 
III.1 Traduzione e commento.

Strofe 22

Alvíss kvað:
"Logn heitir með mönnum[9], en lægi með goðum, 
kalla[10] vindslot vanir, ofhlý[11] jötnar,
alfar dagsefa, kalla dvergar dags veru[12]."L
 
III.1 Traduzione e commento.

Strofe 22

Alvíss disse:
Calma è detta dagli uomini, ed Inerzia dagli Dei,
i Vanir la chiamano Crollo del vento, i giganti Placidità,
gli elfi Sollievo del giorno, i nani la chiamano Rifugio del giorno.


Estratto dal saggio "Þórr e la riconquista del martello.Traduzione e analisi filologica di due brani dell'Edda Poetica" di Marco Alimandi, Midgard Editrice 2021.



Ordinabile anche nelle librerie Feltrinelli, su IBS, Mondadoristore e Amazon.



sabato 27 novembre 2021

Intervista a Marco Alimandi

Intervista a Marco Alimandi, autore del saggio “Þórr e la riconquista del martello”, edito nella Collana Eddica della Midgard Editrice.






Buongiorno, parlaci di questa opera, come nasce?

Il voler realizzare una sorta di edizione critica della Þrymskviða era un'idea che mi frullava nella testa sin dal mio primo anno di Università; all'epoca intendevo farne la mia tesi di laurea ma per svariate ragioni abbandonai il progetto. 
Rimasi però piacevolmente sorpreso quando, per il corso di Filologia germanica, la professoressa del Zotto assegnò come fonte per lo studio della lingua scandinàva proprio la Þrymskviða. Decisi quindi di rispolverare quel vecchio progetto di edizione critica con uno scopo, lo ammetto, molto prosaico: superare al meglio l'esame di Filologia germanica.
In seguito, essendo amico di Fabrizio Bandini e conoscendo la sua passione per la mitologia germanica, decisi di proporre alla Midgard Editrice la realizzazione di quest'opera sulla base della suddetta edizione critica; lo scopo, stavolta, era quello di fornire un supporto per tutti coloro - studenti e non - che fossero intenzionati ad approcciarsi allo studio dei testi germanico-scandinàvi. Per favorire i lettori estranei al mondo universitario, ho cercato di smussare l'impostazione accademica dell'opera mantenendo però un tono simil-professionale in quelle sezioni dove era strettamente necessario.



Come mai hai scelto fra i carmi eddici l’Alvíssmál e la Þrymskviða?

Come già detto in precedenza, la scelta della Þrymskviða si lega a questioni di studio universitario ma anche al fatto che il suo testo risulta essere abbastanza semplice e lineare da essere facilmente compreso - alla stregua del metro poetico, il fornyrðislag, con cui il suddetto carme è impostato.
Per quanto concerne la sezione dell’Alvíssmál che ho editato e tradotto, la scelta è stata dettata soprattutto dal contenuto dell'opera. Nelle quattro strofe analizzate in quest'opera viene mostrata la percezione del fisico, del reale degli Dèi e degli uomini, due visioni in aperta opposizione concettuale e etimologica. 
Nonostante gli uomini siano figli degli Dèi, con questi ultimi condividono poco o nulla del loro potere, eppure sarà proprio la stirpe degli uomini ad affrontare - vuoi al fianco degli Dèi, vuoi al fianco delle forze del caos ordinatore - il giorno del crepuscolo per una nuova rinascita.



Sei un appassionato della cultura nordica, da quanto tempo è che ti dedichi allo studio di questa tradizione?

Una domanda complicata. 
Se con "studio" si intende una pratica scientifica volta all'approfondimento filologico e codicologico delle testimonianze manoscritte del mondo germanico giunte sino a noi, la risposta è: da quando ho appreso gli strumenti per farlo, ossia da qualche annetto a questa parte con i miei studi universitari.
Se con "studio" si intende una ricerca personale e una lettura "casuale" dei testi, la risposta è: da quando ero piccolo. Ricordo che da bambino mio padre mi raccontava leggende delle Alpi - fra queste vi era quella dei Fanes e della loro regina, Dolasilla. Dal mondo ladino di Karl F. Wolff, autore della raccolta dei suddetti racconti alpini, mi spostai sull'universo germanico-scandinàvo, leggiucchiando qua e là sezioni di saghe e parti della Snorra Edda e della stessa Edda poetica, e poi sul canto germanico-continentale dei Nibelunghi. Più in là, al liceo, iniziai sistematicamente a leggere il Beowulf e il resto dell'epica anglosassone, incominciando ad approcciarmi non solo al contenuto dei testi che leggevo ma anche alla loro lingua. Ne nacque così un percorso dapprima individuale ma che presto sfociò in quello universitario di cui accennavo all'inizio.
Nonostante io senta più prossima la tradizione germanico-continentale dell'Hildebrandslied e del canto dei Nibelunghi, ritengo che la tradizione germanico-scandinàva, sorella della prima, sia imprescindibile per chiunque voglia approcciarsi al mondo "nordico" e pongo il nordico fra virgolette ché la diffusione di quanto si può dire "germanico" oltrepassò tempo fa la Norþweg, quella via del Nord di cui ci parlano gli anglosassoni, sino ad arrivare ben oltre i confini alpini della penisola italiana con gli Ostrogoti prima e i Longobardi poi.





martedì 23 novembre 2021

Polline

 di Andrea Cardellini.






LA CANTATA DELLE PIETRE

Un informe entità fatta di parti
di attimi rubati alla continuità
sta tirando la somma degli importi.

La tua cifra è marginale, stinta, fioca.
Ipnotizzato ogni tuo reagire
mentre sbadigli certo di ruggire
e plaudi al pari d’una goffa foca.

La Cosa ci è ormai sfuggita di mano
scemano gli appigli
tutt’al più la vitrea scheggia dell’unghia
si sfiora invano
nel vuoto sterminato che ci avvinghia. 



EVOLUZIONE

Ho il sole negli occhi.
Mi alzo pieno di vita e poi piove.
Il mio corpo è disegnato a matita.
Momentaneo su una pozzanghera.
Ho tolto di mezzo tutte le prove.
Cancellato con una mano
quello che prima con l’altra ho scritto.
Così è fatta la mia volontà. Essere
all’infinito l’identica pioggia.
Lo stesso rebus. 
Ogni giorno daccapo
lo stesso conflitto.



IL PREZZO

È passato il tuo silenzio. Ne ho rimpianto.
Il battere telescrivente dei tuoi ambasciatori
ha lasciato nero il cielo ad un elianto.
Sei andato ancor prima d’arrivare.
Un accesso negato, senza password
all’abbraccio che tiravo a indovinare
cercando in ogni passo un varco nell’agghiaccio.
Poi sei giunto, fredda tramontana
a contrattare un prezzo per l’assenza.
Hai posato sul tavolo l’assegno
e di nuovo sei scomparso.
Chissà se c’è qualcosa 
la cima d’una corda
a cui dall’altro capo è legata quella sorte
che ci fa tornare a casa 
anche quando la coperta sembra corta.
Certo non importa ora.
Il sale scava ancora la ferita
e la mia fede in certi giorni pare
aver lasciato posto alla deriva.



COL SENNO DI MAI

Disteso in una lurida pozza
guardo le gocce 
cadere giù dal soffitto.
Lenta catena di noncuranza
frammenti di amanti
che cadono a capofitto.
“Faremo domani, che vuoi che sia
sono solo due gocce di ipocrisia.”

Del catino messo a raccolta
sopportazione? Paura? Vigliaccheria?
non basta più l’argine e un uragano
s’abbatte su noi come un toro.
Allora adesso perché stupirsi
di tutta quest’acqua
passata per un piccolo foro.


Estratto da "Polline" di Andrea Cardellini, Midgard Editrice 2021




venerdì 19 novembre 2021

Lo stridente piacere

di Eleonora Nucciarelli.

 





IL PIACERE NELLA CONCEZIONE FILOSOFICA


“Questa vita terrena , del resto, vi sembra da chiamar vita, se le si toglie il piacere?”

Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia (1)


Una ricerca ineludibile

Il più antico documento mitico del mondo greco risale a Esiodo il quale lega la genesi dell'Universo, la cosmogonia, all'origine degli Dèi: la teogonia. Secondo il racconto del poeta, dal caos avrebbero avuto origine terra e cielo e, successivamente, sarebbero nati tutti gli Dèi allo scopo di garantire l'armonia del mondo. Per lungo tempo i miti di Esiodo furono trasmessi oralmente dagli Aedi e dai Rapsodi, allo stesso modo i racconti concernenti Ulisse e la guerra di Troia confluirono nei poemi omerici (2), messi per iscritto intorno al VI secolo a.C. 

Nell’ambito delle prime scuole filosofiche, quella pitagorica si distingue per la condotta ascetica, ovvero per la rinuncia ai piaceri. Secondo i pitagorici la musica era in grado di esprimere in modo perfetto l'ordine matematico e l'armonia dell'universo; liberarsi da ogni condizionamento materiale condurrebbe dunque alla conciliazione di ogni contrasto e alla conquista dell’armonia. 

Nonostante Pitagora non abbia lasciato testimonianze scritte è possibile attribuirgli la dottrina della metempsicosi secondo la quale dopo la morte l'anima trasmigrerebbe da un corpo all'altro, reincarnandosi. Pitagora era venerato dai suoi allievi al punto che le sue affermazioni vennero ritenute verità assolute, come testimonia la formula ipse dixit (3), con cui veniva citato. 

Con Democrito e l’atomismo (4) giungiamo all’elaborazione di un’etica che prevede una riflessione sui piaceri dell'anima, dunque sull’interiorità della persona: “La felicità non consiste negli armenti e neppure nell’oro; l’anima è la dimora della nostra sorte” (5). 

Con i sofisti la riflessione filosofica si stacca dall' ambito cosmologico e si dipana nell’indagine del mondo umano. Secondo Protagora il bene non è assoluto ma variabile e si traduce in un'ottica utilitaristica in cui il vivere bene ad ampio raggio presuppone la cura della totalità della personalità in relazione agli altri e al mondo. 

Con Socrate e il sapere di non sapere, la ricerca si sposta nell’esortazione “Conosci te stesso” posta sul frontone del tempio di Delfi. La filosofia di Socrate nasce dalla riflessione sulla condizione umana che ha come fine la felicità, ma si traduce nel paradosso secondo il quale chi si fa trascinare dagli istinti e dall’intemperanza non può di certo essere felice.  

Per esplicitare il pensiero di Platone mi servirò della celebre allegoria della caverna, che rappresenta uno dei miti più celebri della Repubblica (6). Nella narrazione, Socrate invita Glaucone a immaginare dei prigionieri incatenati in una caverna che scambiano delle ombre evanescenti per la sola realtà esistente; nella seconda parte Platone immagina che uno dei prigionieri venga liberato e possa volgere lo sguardo verso la luce trovandovi adattamento e nuove risposte ma, nel tornare nella caverna a liberare i suoi compagni, troverebbe difficoltà e diffidenza. Il mito della caverna può essere paragonato alla vita di Socrate, il quale venne ucciso quando tentò di indirizzare i suoi seguaci, incatenati nel mondo dell’opinione, sul suo stesso sentiero.

Nel Fedro e nel Simposio (7) Platone definisce l'amore, eros, come fonte continua di ricerca e appagamento che si esprime nel desiderio di bellezza. In particolare, nel mito della biga alata, l’auriga (la ragione) guida due cavalli: uno nobile (l’anima irascibile), l’altro di razza inferiore (l’anima concupiscibile), utilizzati per descrivere l’essere umano come insieme di forze in contrasto tra loro. Nonostante la dottrina di Platone trasfiguri l’amore per la bellezza fisica in ricerca della bellezza delle idee, l’aspetto dell’amore fisico compare nel discorso di Aristofane presente nel Simposio (8).

Il dibattito sull’autentica natura dell’uomo è dunque antico e complesso come lo è quello che lega felicità, virtù e piacere. 

Le filosofie ellenistiche si rifanno principalmente alla concezione eudaimonistica (9) di Socrate in cui la felicità coincide con il bene, dunque la vita felice con la vita virtuosa. La differenza sostanziale è insita nel modo in cui si declina tale legame in quanto differisce a seconda della scuola di pensiero. In particolare: i cinici (10) fanno coincidere la virtù con la negazione di ogni piacere, i cirenaici (11) elogiano i piaceri particolari come strumenti per tendere alla felicità in una concezione edonistica, gli stoici (12) ritengono la ragione principio guida dell’azione e della liberazione dalle passioni, mentre gli epicurei (13) esaltano il piacere in quiete. 

Il pensiero greco, fino ad Aristotele, tendeva ad accostare il concetto di felicità a quello di piacere, il filosofo di Stagira ribalta tale visione affermando che per raggiungere la felicità occorre comprendere innanzitutto cosa sia, per farla poi coincidere con la piena realizzazione di se stessi.

Aristotele respinge le gerarchie ontologiche e gnoseologiche di Platone: nel suo filosofare tutte le realtà hanno dignità e tutti i saperi hanno pari rilevanza. Per Aristotele, perciò esiste una scienza che studia i caratteri generali dell’essere, tale scienza prende il nome di metafisica. 

All’origine dell’atteggiamento filosofico, non è un mistero, vi è la meraviglia. Aristotele, nel secondo libro della Metafisica (14), intende la meraviglia come lo sguardo di chi si sofferma sulle cose, provando stupore. Nella sua filosofia il bene sommo è rappresentato dalla felicità la cui indagine è allacciata alla virtù (15). Alla vita secondo virtù è congiunto il piacere che accompagna e perfeziona qualsivoglia attività umana, alimentandola e motivandola. 

Sull’etica di Epicuro sappiamo che il fine della vita è rappresentato dalla felicità che coincide con il piacere, inteso come equilibrio interiore e soddisfacimento dei bisogni primari. Epicuro distingue due tipologie di piaceri: quello stabile, che si manifesta come atarassia e aponia e quello dinamico, che non porta alla felicità e si manifesta come gioia o euforia. Ne consegue che la vera saggezza consiste nel calcolo razionale dei piaceri e dei bisogni. Felicità, piacere e bene nella filosofia epicurea si configurano dunque come sinonimi.

Con la radicalità dell’orientamento scettico tutte le dottrine filosofiche vengono messe nel banco degli imputati. Gli scettici, infatti, scorgevano nell’abbandono di tutti i dogmi filosofici la cosiddetta “liberazione dai timori della mente”.

Ci troviamo sempre in Grecia dove Pirrone di Elide propone una visione della realtà libera da giudizi che garantisce l'assenza di turbamento. La sospensione del giudizio in Pirrone prevede impassibilità dinanzi alle situazioni della vita e il giusto distacco che consiste nell’imperturbabile serenità della mente.

Plotino, personalità di maggior spicco del neoplatonismo, riprendendo la riflessione sull'essere elabora una metafisica che contempla l'esistenza dell'Uno, radice della realtà e principio di tutto, cui la persona deve tendere a congiungersi. Il ritorno dell'anima all’Uno si compie attraverso arte, amore e filosofia che consente di cogliere l'Uno con l’intelletto fino all'estasi: l'unione mistica con Dio.


Estratto dal saggio "Lo stridente piacere" di Eleonora Nucciarelli, Midgard Editrice 2021


http://midgard.it/lostridente_piacere.htm

mercoledì 17 novembre 2021

Il mistero delle luci dall'oltretomba

 di Oscar Bigarini.







CAPITOLO I
Perugia, Estate 2023.

Erano sei.
Enrico, Rita, Simone, Margherita, Elisa e Paolo, costituivano un gruppo di amici universitari molto affiatato e coeso.
Si erano conosciuti nelle aule dell’ateneo perugino e avevano iniziato a frequentarsi anche fuori dalle lezioni per una pizza, un compleanno, una gita, una marachella.
Enrico Antonelli, perugino, era il più anziano del gruppo con i suoi ventiquattro anni, frequentava l’ultimo anno del corso di Laurea Magistrale di Ingegneria Meccanica all’Università di Perugia. 
Era un vero leader, il gruppo pendeva dalle sue labbra: ogni momento conviviale scaturiva da una sua idea, Enrico amava organizzare scherzi e giochi fantasiosi, a volte anche a sfondo macabro.
Rita Pedini, ventitré anni, la sua fidanzatina, era una bella biondina minuta e dai modi molto graziosi.
La giovane, di Città di Castello, si era trasferita a Perugia per frequentare il corso Universitario Magistrale di Filologia, Letteratura e Storia dell’ Antichità presso la Facoltà di Lettere e Filosofia.
Rita aveva conosciuto Enrico durante una visita all’ Ipogeo dei Volumni, si erano piaciuti all’istante e dopo una breve frequentazione si erano fidanzati.
Simone Di Pietro ed Elisa Marchetti, perugini, entrambi ventenni, erano i più giovani del gruppo. Simone frequentava il secondo anno della facoltà di Economia Aziendale, mentre Elisa il corso di Beni Culturali presso la Facoltà di Lettere e Filosofia.
Paolo Sala, ventuno anni, era iscritto al secondo anno di filosofia sempre presso la facoltà di Lettere e Filosofia, era un bel ragazzo, idealista e sognatore, con la testa sempre tra le nuvole. 
Perennemente distratto, combinava spesso dei piccoli pasticci, come dimenticarsi più volte le chiavi all’interno della propria abitazione di Corso Bersaglieri per poi chiamare i vigili del fuoco a riaprire la porta.
Il ragazzo, in particolare, amava molto la pittura del Medioevo e del Rinascimento italiano, della quale era un buon conoscitore. 
La famiglia di Paolo era originaria di Milano, si era spostata dal capoluogo lombardo a quello umbro nel 2000, il padre, dirigente Nestlé, era stato trasferito a Perugia per ricoprire un posto apicale nella fabbrica della Perugina, in questa città, nel 2010, era nato Paolo. 
Margherita Giorgini, di Castiglione del Lago, ventitreenne, stava per concludere il Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria dell’Ambiente e del Territorio, molto brava e studiosa aveva quasi terminato la tesi. 
Il gruppo faceva fatica a seguire le sue elucubrazioni scientifiche, la consideravano una vera “mente”, i colleghi del suo corso la interpellavano di sovente per risolvere esercizi particolarmente complicati di matematica e fisica.
Margherita, convinta ecologista, collaborava con varie associazioni ambientaliste per la pulizia e il decoro cittadino, era profondamente amareggiata per la dilagante maleducazione ed inciviltà di molti cittadini. 
Simone, Margherita, Elisa, Paolo, Rita ed Enrico, per i loro giochi amavano spesso frequentare luoghi pieni di mistero, anche tenebrosi, dove l’ignoto e l’oscurità facevano da sottofondo, per passare momenti di suspense e procurarsi scariche di adrenalina.
In questi posti, in genere cimiteri di campagna, chiese sconsacrate, castelli diroccati, vecchie fabbriche in disuso, si sfidavano in giochi carichi di tensione, per vedere chi tra loro era il primo a cedere alla paura e ritirarsi. 
Alcuni mesi prima avevano raggiunto di notte, in barca, l’isola Maggiore del lago Trasimeno, qui si erano addentrati nel castello Guglielmi, abbandonato da tempo, e vi avevano simulato una seduta spiritica.
Poi ad un improvviso sussulto, forse provocato da un gatto, avevano ceduto alla paura, e tornati di corsa alla barca, remando a più non posso, avevano raggiunto Tuoro. 
Un’altra volta avevano acceso dei fuochi dentro il castello di Zocco di Monte del lago per spaventare le auto di passaggio sulla strada adiacente.
Un anziano conducente di una Panda, spaventato, si era distratto alla guida ed era finito in un campo, fortunatamente senza conseguenze né per lui né per l’auto.
E così via, in estate erano numerose le serate e le notti che il gruppo passava con questo genere di passatempi particolari.

Estratto dal romanzo ""Il mistero delle luci dall'oltretomba" di Oscar Bigarini, Midgard Editrice 2021




lunedì 15 novembre 2021

Rossa e vecchia

 di Biagio di Carlo.






23:15

“Spero ti sia reso conto che la tua vita sta andando a puttane, seduto ad un bancone lercio di un bar lercio che continui a parlare al vento, al barista, che sta lì ad ascoltarti perché non può rifiutare i tuoi soldi. Puzzi e sei grasso, sei grasso e non t’importa. Fuori c’è troppa luce per ridursi così, almeno per chi ha un briciolo di amor proprio, ma tu hai perso tutto. Manca poco e ti lascio anche io.” 
Non pensavo di avere una coscienza, una di quelle voci dei film che ti guida tra mille peripezie lasciandoti illeso, forse non pensavo di meritarla oppure non la volevo nemmeno. Perché passi decenni perfezionando i tuoi fallimenti, sperando di conquistare un qualsiasi angolo nascosto, protetto dall’interesse altrui e finalmente libero di poter solo osservare, poi la tua stessa mente ti fotte e lo fa quando proprio non deve farlo, nel momento esatto in cui ero ad un passo dal toccare il fondo, quello che frasi del tipo “oltre non puoi andare” o “lì devi rialzarti e reagire” sono distanti anni luce dal descriverlo. 
È solo che cerchiamo tutti di essere estremamente buoni. Orribilmente buono, quando tocchi il fondo non ci trovi la sabbia del mare aperto, non puoi darti una spinta e tornare in superficie, ci trovi un materasso enorme, ricoperto di ogni tuo vizio, di ogni tuo difetto, insomma di tutto ciò che hai sempre desiderato ma che passava per immorale o scorretto o invidiabile. Su quel materasso ci affondi a peso morto, senza reagire. Senza opporre resistenza. Allarghi le braccia come a voler ricoprire più spazio possibile, fai lo stesso con le gambe, poi sbottoni tuoi jeans, chiudi gli occhi e godi di quel riposo immeritato e vergognoso. Pace, o meglio, rassegnazione, che poi è la stessa cosa. Questo è toccare il fondo, almeno raccontato dal vomito sui marciapiedi di barboni monogami presi a scoparsi il solito Johnny Walker; ed io ero ad un passo da poter raccontare al barista di quel materasso. Mi mancava tanto così, prima che decidessi di ascoltarmi e farmi incitare da una vocina incazzata che trapanava le mie orecchie. L’ho ignorata abbastanza, troppe volte si avvicinava ai miei pensieri quando ero in bilico e troppo volte ho deciso di buttarmi. Forse l’esagerata quantità d’alcol, forse l’affascinante atmosfera del bar completamente privo di fascino, forse altro, mi ha spinto a stare zitto e sturare gli accumuli di cerume che ho attaccati in faccia. Ho alzato lo sguardo dal bancone, caratterizzato dalla sagoma del mio mento sudaticcio, ho portato le mani all’altezza delle guance ed ho allontanato col gomito il bicchiere di birra calda.
È paradossale come iniziamo a riflettere nei posti meno opportuni, ho letto di un tale che ha scelto il nome di sua figlia sotto la doccia. Invece ad ispirare me era la maglietta del ragazzo al bancone che andava a destra e sinistra. Stava ferma, io andavo a destra e sinistra. 
“Prova o muori. Riesci e non morirai mai” c’era scritto . Ora, di frasi motivazionali ne ho lette tante, stupende, bellissime, incredibilmente motivazionali, di frasi necessarie al momento giuste, quella, era la prima. Fui fulminato, mi staccai di colpo dal bancone, buttai giù gli ultimi sorsi di piscio più che di birra, cercai eroicamente di non cadere e con le mani svegliai il mio viso indolenzito. Ero morto, quella fottuta maglietta aveva ragione, non ho mai provato, non ho mai avuto il coraggio di provare, molto più sicuro morire. Hai dei sogni? Cancellali, il motivo conduttore del mio passato è stato questo, me lo hanno iniettato, a volte lo facevo anche da solo. Perché se al mondo di oggi sommi la libertà di un ragazzino ottieni un’apocalisse e non va bene. È la nostra natura auto-sedarci, d’altronde nessuno vorrebbe vedersi estinguere, così mi imponevo di seguire dei canoni ben precisi, di restare nel limite creato per essere felici. Il limite era resistere. 
Nasci, cresci, studia, lavora, riproduci, muori. Il limite era resistere a questo schema.
Nasci e muori non puoi cancellarlo, ma già su cresci ho forti dubbi, poi parlare di limiti è parlare di come infrangerli, quindi di come creare caos e quindi di come uccidersi. Ma a questo nessuno ci ha pensato. 
Insomma, sono imploso. Non esploso. Quel filo da non superare mi stava stretto, ma non dovevo tagliarlo. “O Cosi o non sei un cazzo di nessuno. O così o dovrai donare un rene per sopravvivere un’ora in più” c’era scritto sulle magliette prima. Forse ho esagerato ma rende l’idea. Leggevo questo, non sapevo far altro che leggere questo. Non scavavo, non cercavo vie di fuga. Mi pisciavo sotto ed obbedivo. Ora sono qui, ridotto così. Con la vita di chi mi ha cresciuto e i sogni di chi mi ha distrutto. Ero intenzionato a diventare tutt’altro, convinto che sognare ad occhi aperti non possa fare così male. Qualcuno però mi ha strattonato e il velo magico che mi oscurava la vista cadde a pezzi. 
È la prima volta che penso al passato. È la prima volta che penso sinceramente al passato. Devi stare stretto in ogni abito del tuo presente per pensare a quanto fossero comodi i panni fuori moda di un tempo. 
Pensavo di avere mille scelte, che non dovessi aver paura di nessuno, che il sorriso dovessi procurarmelo da solo e che se fossi stato triste la colpa era solo e solamente mia. L’amore, il lavoro, i viaggi. Non vedevo l’ora. Scalpitavo. Cazzo, cresci. Tutte le teste adulte che mi circondavano sembravano così al loro posto, così incredibilmente realizzate, così stranamente adatte ad eseguire ed impartire ordini. Ed io, testa rincoglionita e piccola, succube e nient’altro. Felice ma succube. Felice perché stupida e ignorante, come era giusto crescere. Troppo poco esperta per capire che le teste adulte non facevano altro che recitare un copione, tramandato da generazione a generazione, senza subire mutamenti. 
Nasci, cresci, studia, lavora, riproduci, muori. Zitti, obbedite.

Estratto dal romanzo "Rossa e vecchia" di Biagio di Carlo, Midgard Editrice 2021.





venerdì 12 novembre 2021

L’amore negato

di Margherita Del Ninno.






Oscar Wilde diceva che l’unico modo di amare è amare.
Ho amato tutta la vita: un uomo, i miei genitori, le mie sorelle e 
fratelli, i miei figli, i miei nipoti, i miei suoceri, i miei colleghi. Ho 
amato. Solo amato, ma non sono stata amata. Mai.
Poi, un giorno, ho detto basta a me stessa, non ho pensato, o forse ho 
pensato poco, e che cosa ho fatto? Leopardi diceva che fino all’ultimo 
istante di vita si può cambiare il proprio destino ed io ho voluto 
cambiare la mia vita a 59 anni, oddio, cambiare è un eufemismo. 
Ho stravolto la mia vita. Purtroppo ho stravolto anche la vita della mia 
adorata famiglia, dei miei adorati figli, che forse non mi perdoneranno 
mai ciò che ho fatto.
Ho lasciato loro solo una lettera in cui crudelmente raccontavo tutto 
ciò che per anni avevo nascosto loro, agli altri e forse anche a me 
stessa.
Ho buttato alle spalle sofferenze indicibili, umiliazioni e forse anche 
gioie, ma effimere.
Di sera, ma soprattutto il sabato e la domenica, quando non lavoro, mi 
ritrovo sola, in una casa non mia, estranea, senza le mie cose intorno, 
mi chiedo se ho fatto bene.
A volte mi rispondo di sì. 
A volte la disperazione mi dice che ho fallito tutto nella vita e questa 
decisione è stata il clou. Il peggio è che indietro non si torna. 
Il tempo, questa parola che continua a scandire la mia vita. 
Il tempo passato, presente, futuro.
Il tempo che ancora mi resta.
La mia anima ha fretta.
Ho contato i miei anni ed ho scoperto che ho meno tempo per vivere 
da qui in poi rispetto a quello che ho vissuto fino ad ora. 
Mi sento come quella bambina che ha vinto un pacchetto di dolci: i 
primi li ha mangiati con avidità, ma quando ha compreso che ne erano 
rimasti pochi ha cominciato a gustarli intensamente.
Non ho più tempo per le riunioni interminabili dove vengono discussi 
statuti, regole, procedure e regolamenti interni, sapendo che nulla sarà 
raggiunto. 
Non ho più tempo per sostenere le persone assurde che, nonostante la 
loro età cronologica, non sono cresciute. 
Il mio tempo è troppo breve: voglio l’essenza, la mia anima ha fretta.
Non ho più molti dolci nel pacchetto.
Voglio vivere accanto a persone umane, molto umane, che sappiano 
ridere dei propri errori e che non siano gonfiate dai propri trionfi e che 
si assumano le proprie responsabilità. Così si difende la dignità umana 
e si va verso la verità e onestà.
È l’essenziale che fa valer la pena di vivere.
Voglio circondarmi da persone che sanno come toccare i cuori, di 
persone a cui i duri colpi della vita hanno insegnato a crescere con 
tocchi soavi dell’anima.
Sì, sono di fretta, ho fretta di vivere, con l’intensità che solo la 
maturità sa dare.
Non intendo sprecare nessuno dei dolci rimasti. Sono sicura che 
saranno squisiti, molto più di quelli che ho mangiato finora.
Il mio obiettivo è quello di raggiungere la fine soddisfatta ed in pace 
con i miei cari e la mia coscienza. 
Abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai 
solo una, come dice Mario de Andrade.
Di certo la mia vita sarebbe durata ancora poco nelle condizioni in 
cui vivevo, anzi, sopravvivevo. 
Di certo io ho amato, sinceramente, perché il vero amore deve sempre 
far male, perché è sempre doloroso amare, perché è sempre doloroso 
lasciare qualcuno che si ama.
Una volta, tanti anni fa, quando il nostro matrimonio mostrava le 
prime crepe, avevo convinto mio marito ad accettare di fare un 
percorso presso una dottoressa esperta di terapia della coppia .
Dopo quattro ore a parlare con entrambi, ma soprattutto con lui, la 
dottoressa si arrese. Sicuramente avevo già capito che sarebbe stata la 
prima e unica seduta, ci ha congedato con sollievo, dopo quattro ore, 
prendendo come onorario solo 80.000 lire, lasciandoci con quella che 
chiamò una “metafora”, quasi scusandosi.

Estratto dal racconto "L’amore negato" di Margherita Del Ninno (Midgard Editrice)





lunedì 8 novembre 2021

La luce oltre il limite

 di Nicola Cicchitelli.






Note e nostalgia




“Let me take you down
‘cause I’m going to Strawberry fields
nothing is real
and nothing to get hung about
strawberry fields forever
living is easy with eyes closed
misunderstanding all you see…”

(“Strawberry fields forever”, Lennon/McCartney)



È un pomeriggio assolato quando Mattia Bertoli si rifugia nell’angolo della camera dove i raggi penetrano regalando un tepore fuggevole. Sul divano il giovane è intento ad accarezzare, pizzicare, strigliare la chitarra sull’onda delle note mutevoli del suo cuore. I lunghi capelli circondano l’orecchino, le pupille nere intense si mostrano e si velano quando è assorto nel suonare Strawberry fields forever del suo idolo John Lennon. L’espressione concentrata, ma al contempo distesa e rilassata, custodisce la sua mente che spazia sognante. Immagina improvvisamente di trovarsi fuori, non sulla strada della vivace Bologna ma in un immenso campo di fragole, lui solo a suonare la chitarra. Nel bel mezzo della dolce quiete sopraggiunge una voce acuta sempre più insistente, è quella della moglie Ilaria Nunzi. È preso di soprassalto, si sveglia come da un lungo sonno. Gli dice di venire in cucina, devono parlare di questioni importanti. Che c’è di così impellente da dover interrompere il suo momento di pace. Ama profondamente Ilaria ma è infastidito da questa urgenza. Ilaria: “Ti ricordi che oggi hai l’appuntamento coll’architetto per l’ampliamento e la riorganizzazione della stanza!” “Ah, è vero, dimenticavo.” “Be’, allora spicciati che fra mezz’ora devi essere lì.” “Tutta questa fretta di fare il lavoro, peraltro dispendioso, non c’è l’ho, stiamo bene così.” “Quella disposizione per la stanza è temporanea se saremo in tre.” “Non ti allargare, vuoi rinunciare alla nostra intimità e alla passione?” Con tono perentorio e lo sguardo puntato su Mattia: “Ne abbiamo già parlato, ormai è un po’ che stiamo insieme, che c’è da aspettare?” “Tu la fai facile, ma guarda che cambia tutto, ci assorbirà completamente. È una grossa scommessa, poi di questi tempi...!” “Lo so, ma chi non “risica …” “Io voglio essere libero, almeno per adesso, avremo tempo, siamo giovani.” “Ma allora dei miei desideri non te ne frega niente!”, il suo volto si fa scuro. “Abbiamo preso un appuntamento, ci devi andare!” “Veramente l’hai fissato tu, io non ero d’accordo e non ci vado.” “Tu sei indeciso, pensi solo alla musica e non ti vuoi assumere le responsabilità.” “No, io ti amo, per questo mi basti tu! Ora lasciami andare, disdici l’appuntamento.” “No che non lo disdico, se tu non ci vai, ci vado da sola.” “Non lo fare, ti ripeto che sono contrario.” “No, tu non hai detto né sì, né no, giochi solo al rimando.” Il dialogo s’interrompe bruscamente, Ilaria col piede pronto a partire dall’architetto, Mattia col passo diretto verso la camera, la loro camera, a riprendere il sogno dove era stato interrotto così bruscamente.
Afferra la chitarra e con la sua mente vaga per i meandri dell’immaginazione. Le note di Strawberry fields forever lo prendono per mano e lo riportano indietro nel tempo a quando aveva dieci anni, l’ultimo periodo in cui usciva con i genitori. In autunno, poco dopo l’inizio della scuola, lo portavano al luna park e lui si perdeva tra le giostre. Le luci, i suoni, i profumi delle caldarroste, la vertigine dell’altezza, il brivido della velocità del Matteron lo ammaliavano. Si sente un bambino-ragazzo nel paese dei Balocchi, tutto era magico e a sua disposizione. Le note della canzone premono nella sua mente e l’addentrano nell’adolescenza del suo mito Lennon – ha visto film e letto libri su di lui. I ricordi del luna park si fondono con le immagini che ha apprezzato nelle pellicole e costruito nella sua mente leggendo molto sull’eroe dei Beatles. Strawberry fields era un parco dove John andava a rifugiarsi e svagarsi. Non vi crescevano fragole, ma al suo interno si ergeva il palazzo dell’orfanotrofio che al tempo era gestito dall’Esercito di Salvezza. Mattia osa immedesimarsi nel piccolo Lennon, il suo luna park non sono più le giostre degli anni 2000, ma quello che l’eroe dei Beatles amava al suo tempo. L’estate di quei primi anni ’50 a Strawberry Fields c’era una festa di beneficenza in cui l’Esercito di Salvezza raccoglieva soldi per le orfane. La mente di Bertoli si abbandona a queste immagini retrò, più incantate e romantiche della modernità: chioschetti straripanti di dolciumi, giochi in cui si vincevano cagnolini di gesso, caramelle e pesciolini in barattoli rossi. Immaginando questi ultimi, ritorna ai ricordi al luna park, anche lui li aveva vinti più volte e li adorava. Abbandonandosi a questi pensieri è felice e sognante. Ritorna, per un attimo magico, fanciullo. Vede le ragazze orfane, il loro sguardo innocente, il velo di tristezza negli occhi ma anche la spensieratezza dei giochi nel parco. Le sente vicine come parte di un passato a cui vuole aggrapparsi e non lasciare più. Si ricorda della piccola Caterina, una sua infatuazione preadolescenziale quando era possibile fantasticare e ogni sguardo era prezioso. Alla spensieratezza del sogno si unisce un forte senso di nostalgia, ormai si è allontanato da quel paradiso perduto. Rivede gli occhi teneri di Caterina, le sue rosse gote, il fluire dei capelli biondi che accarezzavano il suo viso. Gioco di sguardi, primi baci furtivi e casti. La canzone Strawberry fields forever sta per terminare, un velo di tristezza lo prende. Ripensa a quelle ragazze orfane che anche John incontrava con lo sguardo, alla tristezza della loro condizione. Immagina la sofferenza di dover vivere in un palazzo con delle regole e governate da persone diverse dai genitori. Non vuole abbandonare questo sogno, si aggrappa alle ultime note della canzone, stringe la chitarra come se fosse la sua amata. Ma Ilaria in questo periodo è diversa, è pressante con le sue richieste o meglio pretese. Questo presente fatto di impegno e responsabilità che cambiano la vita lo distoglie dal sogno. Non basta la musica, la chitarra. Rapidamente il giardino incantato della sua immaginazione lo abbandona, non prima di avergli imposto differenti vedute. Il parco di Strawberry Fields si allontana. Dapprima, come Lennon, vede le sbarre che lo separano dal nido delle ragazze orfane. I loro volti si fanno sempre più sfocati e lontani, una tristezza lo prende. Non scorge neanche più Caterina, gli manca terribilmente il suo sorriso e premuroso incoraggiamento. Ha finito di suonare e cantare la canzone e intorno a sé vede solo la camera che condivide con Ilaria, peggio la camera da allargare, la fonte dei dissidi. È il ritorno alla cruda realtà. Posa la chitarra, ma prima di riprendere la sua vita, si abbandona al divano e chiude gli occhi nella speranza di riafferrare il sogno che se n’è andato. Non vede niente, solo buio. A un tratto gli sembra di scorgere il parco di Strawberry Fields, no è solo il palazzo delle orfane. Spera di rivederle, niente da fare. Scorge invece la nebbia da cui emerge la lugubre costruzione gotica, quella dell’Esercito di Salvezza. Il colore scuro dei muri, le guglie spigolose e sinistre, non è più un sogno ma un incubo. A un certo punto sente una voce. Gli sembra quella di Caterina, no è una voce maschile col timbro della ragazza, gli dice “Addio Mattia, attento a non cadere!”


Estratto dal racconto "La luce oltre il limite" di Nicola Cicchitelli (Midgard Editrice)




martedì 26 ottobre 2021

Il futuro migliore

 di Giulio Rosani.






La colonna di fumo che saliva in cielo dalla piazza centrale della città poteva essere vista da miglia di distanza. Le pareti bianche dei templi riflettevano i raggi del sole di mezzogiorno in quella calda giornata estiva. Il suono delle campane sembrava vicino e distante allo stesso tempo, la loro cadenza scandiva il lento oscillare della fila di pellegrini diretti al Tempio Grande. Enormi falò bruciavano agli angoli della piazza, mentre stormi di piccioni volavano in cerchio sopra la folla, in attesa di un’opportunità per discendere e rubare scarti di cibo abbandonati a terra.
Il centro della piazza era dominato da una grande fontana, la cui acqua forniva un minimo refrigerio dall’intenso calore del sole e dei fuochi accesi nello spiazzo. Molte persone nella folla spingevano per avvicinarvisi, sia per dissetarsi che per lavare via il misto di sudore e cenere che restava loro appiccicato addosso. Su uno dei lati della piazza, una rissa minacciava di rovesciare una bancarella di frutta, facendo rotolare dal bancone una mela che finì tra i piedi della folla, calciata in giro per la piazza.
Dal suo podio a lato del Tempio, Armenius ne osservò la traiettoria, al contempo recitando il suo solito sermone sull’importanza di pentirsi dei propri peccati prima che fosse troppo tardi. La sua veste scarlatta era impregnata di sudore e gli restava appiccicata come una seconda pelle. Un movimento ed una faccia famigliare ai piedi della piattaforma quasi gli fecero perdere il filo della sua violenta retorica.
Finalmente la ragazza ha deciso di farsi viva, pensò.
Nonostante avesse avuto l’impressione di averla scorta nella folla già nei due giorni precedenti, rimase sorpreso nel vederla in prima fila; di solito si piazzava in fondo al gruppo di fedeli che lo ascoltava e cercava di attirare la sua attenzione durante le sue brevi pause. Averla direttamente sotto il suo podio a fissarlo così intensamente, era decisamente un’esperienza nuova. Decise che, finito il sermone, le avrebbe concesso udienza.
La piazza del Tempio Grande di Krath, detto il Sommo, dio del fuoco e ultimo dio superstite del Declino, era uno spettacolo imponente per le centinaia di pellegrini che la visitavano ogni giorno. I tre palazzi di marmo bianco, disposti a ferro di cavallo e alti cinque piani ciascuno, erano decorati con drappeggi rossi, raffiguranti una lancia fiammeggiante, che coprivano gran parte delle loro facciate. Il Tempio Grande era situato al centro, mentre in uno dei due edifici ai lati venivano ospitati le guardie e i Novizi e nell’altro il resto del clero. In aggiunta a questo, i fuochi e le decine di Sacerdoti che guidavano le preghiere dei fedeli testimoniavano ulteriormente la potenza e l’influenza del dio.
Per chi invece vi passava la maggior parte dei propri giorni a predicare, essa dava tutt’altra impressione. Il caldo ed il fumo dei falò erano una tortura per occhi e gola, ed a volte era difficile seguire il proprio discorso quando altre decine di Sacerdoti cercavano continuamente di sovrastare la voce dei loro colleghi. Il fatto poi che la maggior parte dei pellegrini siano donne schiamazzanti venute ad implorare il Sommo di dar loro un figlio maschio, di certo non aiuta, pensò Armenius.
Tirò un sospiro di sollievo quando si rese conto che il suo rimpiazzo stava salendo i gradini del podio. Come Sacerdote del Sommo gli era richiesta solo mezza giornata di prediche, al contrario dei Predicatori che dovevano passarla per intero a guidare la fila di pellegrini. Se c’era una cosa che lo spronava a dare il meglio in quelle ore soffocanti, era l’idea che una volta promosso a Saggio non avrebbe mai più dovuto vedere quella piazza maledetta.
“Ed è per questo che è importante non pensare solo al rito di filiazione! Il Sommo richiede ad ognuno di farsi carico dei propri peccati; di elencare ogni trasgressione, imprimerla su carta, cosicché i suoi fuochi possano poi eliminarne ogni traccia! Non tralasciate niente, poiché tutto ciò che il fuoco non brucia, non sarà perdonato! La fine del Declino è alle porte e solo gli onesti saranno ammessi al Suo cospetto!” esclamò, concludendo il suo sermone.
Fece due passi indietro, si tolse il grosso medaglione di bronzo che portava al collo e lo porse al suo rimpiazzo. Il nuovo Sacerdote, Darius, lo guardò interdetto alla menzione della presunta fine del Declino, ma non gli rivolse parola ed immediatamente incominciò la sua predica. I precetti del Sommo dicevano che la folla non doveva essere lasciata senza una guida sacra neanche per un istante.
Alla base della piattaforma un Novizio già lo aspettava con un panno umido per permettergli di pulirsi faccia e mani ed una caraffa piena di acqua e fette di limone. Il ragazzo lo guardava con un’espressione rapita. “Come sempre siete un’ispirazione per le masse, Sacerdote. Il modo in cui ne comandate l’attenzione è testimonianza del favore divino che vi è garantito. Quando finalmente anch’io verrò promosso Predicatore, potrò solo aspirare ad avere una frazione del vostro carisma” disse.
Armenius nascose un moto di stizza dietro al panno offerto e con cui si stava pulendo la faccia. Per ben due volte quella mattina aveva dovuto attirare l’attenzione del ragazzo per avere un sorso d’acqua tra una predica e l’altra. Un singolo intervallo nel suo sermone era già inscusabile, due erano motivo sufficiente perché il ragazzo venisse frustato severamente. Non credo tu vedrai mai quella promozione, pensò infatti.
“Preoccupati di servire al meglio i tuoi superiori e la tua promozione potrebbe non essere solo un sogno” gli disse aggiustandosi una ciocca grigia dalla fronte. Nonostante le sue sole trentasei estati, la sua rapida ascesa nei ranghi del tempio aveva risparmiato solo pochi dei suoi capelli rendendo il loro castano intenso un vago ricordo. Faceva finta di non preoccuparsene, ma spesso si sorprendeva a ispezionarsi in uno specchio o nel riflesso di una superficie d’acqua.
“Sì, Sacerdote!” disse il ragazzo sorridendo evidentemente ignaro del fatto che non aveva voluto incoraggiarlo. Armenius si versò un bicchiere e si godette il fresco scorrere del liquido giù per la gola ed il gusto acidulo dei limoni sulla lingua, poi gettò al ragazzo il contenitore vuoto.
“Adesso torna al tuo posto e fai in modo che il Sacerdote Darius non ti debba chiamare trenta volte per dissetarsi.”
Questa volta il ragazzo comprese il rimprovero e corse ad adempire ai suoi doveri. Il Sacerdote invece si diresse verso il lato sinistro della piazza dove era situato l’edifico che fungeva da abitazione e studio per i membri del clero. Sui gradini che portavano all’interno del palazzo rialzato, fece cenno ad una delle guardie di avvicinarsi.
“Il Novizio che mi ha servito questa mattina ha bisogno di un incoraggiamento a fare meglio il suo dovere” disse, fissando i propri occhi scuri sul ragazzo in questione.
“Sarà mio piacere guidarlo nella pratica” rispose la guardia seguendo il suo sguardo e accogliendo la chiara implicazione con un sorriso.
Armenius si diresse verso l’edificio e si fermò brevemente all’ombra dell’entrata, lasciandosi rinfrescare dalla lieve corrente d’aria prima di dirigersi verso la propria abitazione. Al contrario dell’esterno, dominato da marmo bianco e stoffe rosse, il pavimento e le pareti dell’interno erano fatti di pietra scura e ricoperti di tappeti ed arazzi di colore blu: colori che dovevano ricordare ai Sacerdoti che chiunque, persino chi serviva il Sommo, poteva essere condannato al gelo degli Inferi, lontano dalla luce e dal calore divino.
Su entrambi i lati del lungo corridoio in cui si trovava si affacciavano molte porte. Le abitazioni personali dei Sacerdoti occupavano la parte dell’edificio rivolta verso il centro della piazza; i loro studi invece davano sulle strade che portavano verso il resto della città. Più lontano dall’entrata alloggiava un Sacerdote, più alto era il suo favore all’interno del Tempio. L’uomo entrò in una delle porte al centro del corridoio, con un sospiro si tolse la pesante tunica da Predicatore e la ripose piegata nell’angolo, dove i servitori sapevano di dover raccogliere i suoi indumenti sporchi. 
La stanza era immersa nell’ombra, l’unica finestra era oscurata da uno dei drappeggi esposti sulla facciata che dava sulla piazza. La poca luce che riusciva ad entrare nella stanza tingeva di rosso l’intero spazio. L’uomo si diresse verso la bacinella di acqua fresca lasciata davanti al suo guardaroba e si spogliò dei vestiti sudati che ancora portava. Liberarsi dal sudore e dalla cenere accumulati per l’intera mattinata gli dava una sensazione che non smetteva mai di apprezzare.
Avrebbe voluto prendersi qualche ora di riposo, ma il viso della ragazza continuava a tormentarlo. Non era mai stata così determinata nel volerlo vedere e inoltre era curioso di sapere che fine aveva fatto nel corso dell’anno precedente. Nonostante lui avesse pagato degli uomini per tenerla d’occhio, lei aveva più volte fatto perdere le proprie tracce. Insospettito, lui li aveva mandati a chiederle spiegazioni. Da come lei lo aveva guardato, era abbastanza certo di cosa volesse parlare.



Estratto dal racconto "Il futuro migliore" di Giulio Rosani, dall'antologia "Hyperborea 5" (Midgard Editrice).