mercoledì 30 ottobre 2019

Onar

di Marco Canonico





«Stai dicendo sul serio Kleide?».
«Sì, da quello che mi ricordo il sogno è finito bene, ma non ricordo cosa sia successo. È da mesi che ho gli incubi».
«Ma era veramente un bel sogno? Non potrebbe soltanto essere un caso, o meglio, un sogno meno brutto rispetto a un altro?».
«Sono sicura che il sogno fosse bello, anzi, è iniziato male ma poi è finito bene. È arrivato un tipo strano che...».
«Tutta la città di Anthos non fa bei sogni da mesi», la interruppe Amycus.
«Lo sai bene che il sindaco ha dichiarato lo stato di emergenza. Non riesco a capire come tu abbia potuto dormire bene stanotte».
«Se ti ricordi lui ha detto che aveva un piano».
«C’ero anch’io quando lo ha annunciato di fronte a tutti nella Grande Piazza. Ma ti rendi conto da sola che non è possibile fare nulla. Non si può intervenire sui sogni, è il nostro subconscio che ce li presenta la notte mentre dormiamo».
«Il sindaco dice che c’è qualcosa di strano, glie lo hanno riferito pure i suoi più fidati collaboratori e scienziati. Lui dice che questi sogni non sono i nostri, non ci appartengono, arrivano da qualcun altro».
 «Kleide... ti rendi conto di che follia? I sogni sono i nostri, non di qualcun altro. Te lo dico io, il sindaco, anche lui sfinito come noi da questi incubi, sta dando i numeri».
«Io sono sicura che in qualche modo interverrà. Amycus, abbiamo bisogno di riposare per bene, almeno una notte.
Io oggi ci sono riuscita ma in genere non riesco a fare più nulla la mattina: sono troppo stanca e la notte ho paura di dormire perché so che sicuramente ci sarà un nuovo incubo.
Dobbiamo almeno mettere un po’ di fiducia in quello che dice il sindaco. Almeno io, dopo stanotte, di fiducia ne ho. È chiaro che lui in qualche modo è intervenuto».
«Anche io sono stanco morto, però basta pensarci un attimo: non so cosa abbia in mente ma qualunque cosa lui faccia ritengo sia inutile. Il sindaco dice che c’è qualcosa o qualcuno che ci sta togliendo il riposar tranquilli: niente e nessuno può fare una cosa del genere. Non si può entrare nella testa delle persone mentre dormono e mandare incubi al posto di bei sogni».
«E il sogno che ho fatto stanotte? Come lo spieghi? È finito bene».
«È solo un caso».

Lo stesso giorno, nella Grande Piazza

La Grande Piazza era gremita di persone, tutte assonnate ma curiose di sentire cosa avesse da dire loro il sindaco, che aveva promesso un intervento.
«Miei concittadini, sono venuto a sapere che finalmente alcuni di noi sono riusciti a dormire in maniera accettabile la notte scorsa. Io, da parte mia, ho avuto i soliti incubi ma da quello che mi dite la situazione sembra in qualche modo cambiata. Lo statuto di emergenza imposto due mesi fa è stato necessario e sarà valido finché il problema non sarà del tutto eliminato. Ora, io e i miei collaboratori non vi abbiamo detto cosa avremmo tentato di fare, ma viste le notizie positive di oggi ritengo sia giusto comunicarvelo.
Ma non sarò io a spiegarvi il tutto, bensì il nostro uomo, che gentilmente, su mia richiesta ha acconsentito ad aiutarci».
Ci furono alcuni istanti di silenzio, rotti soltanto dal tossire di alcuni. Poi il sindaco si fece da parte e arrivò un uomo misterioso incappucciato che prese mal volentieri il microfono.
«Mi chiamo Onar, sono qui perché convocato dal vostro sindaco per risolvere un problema di cui si possono occupare solo persone come me. Ma in realtà, mi sembra doveroso dirvelo, non sono arrivato fin qui per fare un favore a voi cittadini di Anthos, ma a entrambi i regni di Ypnos e Nyx.
Io e i miei colleghi lavoriamo non su commissione ma rispondiamo a una sola autorità: Ampelos, re di Ypnos  e Orthosie, regina di Nyx».
Al solo sentire il nome dei grandi sovrani tutta la gente raccolta nella Grande Piazza sollevò dei mormorii di stupore.
«Silenzio per favore», disse Onar piuttosto annoiato.
«Prima finirò di parlare prima potrò mettermi all’opera. Come dicevo, mi mandano i vostri regnanti, perché hanno entrambi ricevuto una lettera dal vostro … sindaco – se così vi piace chiamarlo – dove si pregava loro di intervenire in qualche modo riguardo la faccenda dei brutti sogni.
La verità è che questi incubi non si verificano soltanto qui ma anche in altri paesi e città dei  nostri due regni.
Quindi …».
Un cittadino abbastanza avanti con l’età alzando il tono della voce si rivolse a Onar: «Taglia corto per favore, dicci quale incarico ti è stato affidato e cosa puoi fare per noi».
«Non osare più interrompermi vecchio, oppure quei mastini di cui hai tanto paura mentre dormi ti divoreranno per davvero. E stavolta non sarò lì a salvarti».
«Ma come fai a sapere cosa ho sognato e chi è …. ».
«Ho chiesto di non aggiungere altro e altro non aggiungerai. Ti è chiaro?».
Il vecchio ammutolì non osando controbattere di nuovo a quel misterioso uomo coperto dal cappuccio ed estremamente imperioso e sicuro di sé.
Inoltre c’era quella questione di come lui conoscesse i suoi incubi notturni.

Estratto dal racconto "Onar" di Marco Canonico, antologia fantasy "Hyperborea 3", Midgard Editrice 2019



martedì 22 ottobre 2019

Aiko dagli occhi di Perla

di Rachele Tarpani





In un’isola sperduta nel Grande Oceano Celeste sorgeva il piccolo paesino di Jinsè, un nascosto e lussureggiante angolo di paradiso verde e bruno immerso nell’azzurro sconfinato. I suoi abitanti erano persone pacifiche e umili, dediti all’agricoltura e al culto del Sommo Drago di Perla. Egli, secondo i saggi del posto, era primo tra tutte le creature, il protettore della loro terra, l’imperatore incontrastato di dell’Oceano.
Ogni giorno veniva bruciato incenso in suo onore, canti e litanie sulla sua bontà si diffondevano per tutta la vallata, e danze di gioia e parate venivano organizzate a ogni luna piena, accompagnate da offerte di oro e pietre preziose estratti dalle miniere circostanti.
In cambio di quei doni, il Sommo Drago assicurava a Jinsè prosperità e materie prime per sopravvivere, che giungevano in abbondanza direttamente dal mare alle sue coste. Il pesce non era mai mancato, i campi erano sempre stati fertili e il cibo aveva abbondato nelle tavole di tutti.
Almeno fino ad ora.
Negli ultimi dieci anni, infatti, la presenza della divinità si era mitigata fin quasi a scomparire, il raccolto era diventato meno prospero e le risorse riuscivano appena a ricoprire il fabbisogno del villaggio.
Nessuno degli abitanti riusciva a spiegare quell’improvviso allontanamento; ma, nonostante tutto, nessuno se ne lamentava.
La vita continuava serena, non vi erano nemici né pericoli esterni. E tutto grazie al Sommo Drago che garantiva la pace di quelle terre.
La preghiera che più di tutte si sentiva riecheggiare a Jinsè in suo onore era:

“Oh Drago, oh Drago dal dorso di perla.
A te ci raccomandiamo noi tutti, tuoi figli adoranti, affinché il mare e la terra siano sempre nostri amici benevoli”.

In quel momento, quelle stesse parole venivano mormorate dalla principessa di Jinsè, Aiko Ho, rintanata come un topolino nel tempio di giada, luogo di culto principale a pochi passi dal palazzo reale. Si trovava ormai da ore prostrata davanti alla statua di creta della divinità protettrice, con gli occhi chiusi e la fronte corrugata dalla preoccupazione.
Tra meno di dodici ore, avrebbe compiuto sedici anni e suo padre, il re Zhong Ho, avrebbe iniziato a scandagliare ogni angolo dell’isola alla ricerca di un marito degno del loro regale lignaggio. E lei non gradiva una simile prospettiva.
Affatto.
Lei voleva essere libera, indipendente.
Dalla morte dell’adorata madre, era cresciuta con la voce della nonna che le narrava storie di prodi combattenti alle prese con mostri mitologici, nemici mortali e gesta eroiche da portare a termine. All’inizio, la principessa si era sentita infervorata da tutti quei racconti; poi, crescendo un po’, aveva iniziato a notare che c’era un particolare tanto costante quanto fastidioso che ricorreva in tutte quelle vicende: a finire in pericolo, puntualmente e per qualsiasi cosa, anche la più futile, era sempre la fanciulla di turno. O era vittima di qualche maleficio o sortilegio, oppure si ritrovava prigioniera di qualche sciocca imboscata.
E, altrettanto puntualmente, toccava all’eroe salvarla prima che fosse troppo tardi.
«Perché la ragazza si è comportata come una sciocca?» si lamentava ogni volta Aiko, troppo grande per passarci sopra, ma ancora troppo piccola per comprendere la complessità del mondo. «Perché non combatte per la sua libertà e non trionfa lei stessa, invece di raccomandarsi ad altri?»
E la nonna ogni volta rispondeva a quella sua lamentela con la stessa bonaria risata. «Perché nessuna di loro è te, mia preziosa perla.»
E le sfiorava il viso con la mano. «Perché nessuna è coraggiosa e battagliera come Aiko Ho, la guerriera. Tu sei padrona del tuo destino.»
La ragazza era cresciuta con l’animo prorompente di una combattente: nella sua storia era lei l’eroina, quella che si salvava da sola; mica un uomo qualsiasi venuto da chissà dove a reclamarla. Tuttavia, arrivata ormai alla soglia dei sedici anni, si era resa ben presto conto che la realtà dei fatti era molto più dura della sua immaginazione e che, alla fine dei conti, lei non era affatto una guerriera.
Era semplicemente la futura sovrana dell’isola sperduta di Jinsè, un paesino remoto disperso in chissà quale angolo di mondo, dove non succedeva mai nulla. Tutto ruotava sulle solite tradizioni ormai ossidate dal tempo: il figlio o la figlia del reale compiva sedici anni, i pretendenti si facevano avanti e uno di loro dimostrava il proprio valore, prevaricando su tutti gli altri.
I due si sposavano e generavano un erede, e la storia si ripeteva. Costantemente, ogni volta.
Sempre. Solo. Così.
«Come vorrei che qualcosa impedisse a questo destino di compiersi, almeno con me. Come vorrei non essere più una principessa destinata a un’esistenza di noia e immobilità.»
Furono quelle le ultime parole che proferì, prima di gettare una moneta nella fonte sacra e prima ancora di essere scoperta da Yun Shu, suo coetaneo e servo fidato, che la trascinò letteralmente per un orecchio a palazzo.
Se avesse prestato più attenzione agli insegnamenti dei Saggi del tempio, avrebbe ricordato che ogni desiderio, anche il più insignificante, era in grado di scatenare delle conseguenze impreviste inimmaginabili.
Il colpo di coda di un pesce si trasformava in un maremoto che si abbatteva dall’altra parte dell’oceano.
E la sua corda aveva appena sferzato contro i fluttui del mare, creando un turbinio di onde destinato a infrangere ogni cosa.

Estratto dal racconto "Aiko dagli occhi di Perla" di Rachele Tarpani, nell'antologia fantasy "Hyperborea 3" (Midgard Editrice 2019).



venerdì 18 ottobre 2019

Rinascita

di Marco Bertoli





Mi chiamo Hephaistia. In un’epoca di palazzi dalle mura bianche di marmo e i tetti gialli d’oro fui gran sacerdotessa della dea Ashtart. Adesso sono un involucro di pelle rinsecchita che aspetta.
Lo scorrere del tempo non ha più senso per me. La mancanza di significato, tuttavia, non implica che non sia consapevole delle ragnatele che il suo fluire mi ha tessuto addosso. Tutt’altro! Come i granellini di sabbia di una clessidra ho contato uno per uno i giorni seguiti a quello in cui una lancia mi perforò il cuore. Sono centodiecimilaquindici!
Oltre tre secoli sono passati da quel tiepido pomeriggio di primavera, eppure ogni istante è inciso nella mia memoria con la freschezza di un fiore appena sbocciato. Le urla improvvise di allarme all’esterno del tempio. La banda di barbari vestiti di pellicce che si rovescia dentro il luogo sacro abbattendo le guardie. Selvaggi bramosi di vendetta su quelli che definiscono ‘abomini’ perché sacrificano alla divinità le loro inutili vite. La disperazione che devasta i visi delle ancelle che corrono verso la statua gigantesca della nostra Signora. Il terrore nei loro sguardi mentre mi si stringono attorno in cerca di uno scudo alla loro verginità. Il mio avvampare purpureo di energia arcana pronta a scatenarsi.
Le folgori di luce che scaglio contro i cavernicoli ne inceneriscono più di una dozzina, ma non sono sufficienti a trattenere lo slancio del branco. Il ribollire dell’odio nei loro toraci villosi è più forte della paura d’affrontare la potenza della mia magia. Una manciata di respiri e ci sono addosso, un semicerchio di bocche sbavanti di rabbia e aliti marci.
I mostri a due gambe, però, non anelano a forme muliebri da violare: la strage è il loro unico e turpe desiderio. Il mulinare di armi con le lame di selce scheggiata m’invade gli occhi. La puzza di sangue e di viscere sparse sul pavimento lucido mi affoga le narici. I lamenti di agonia delle giovinette macellate senza pietà mi feriscono l’anima. I ruggiti bestiali di trionfo mi stordiscono le orecchie...
Poi tutte le sensazioni si cristallizzano in una trafittura alla schiena che mi strazia la carne e squarcia il cervello. Nel raccapriccio di vedere sgorgare una fonte di liquido scarlatto nel centro del petto nudo. Nell’orrore di contemplare una punta di pietra grigiastra che emerge nel solco fra i seni. Un istante prima di precipitare in un abisso intessuto di nulla raccolgo il rimasuglio di fiato rimasto nei polmoni. Appellandomi alla misericordia della dea, mormoro un incantesimo per salvarmi: “Ashtart pitye, epi mwen pral mandeaparan lanmò fini an”.
Da allora sono una mummia incartapecorita, ricoperta di polvere e distesa sopra il lastricato di un tempio in rovina. Circondata da scheletri scomposti, attendo nell’oscurità l’arrivo di un corpo femminile in cui riversare il mio spirito. Soprattutto di una mente capace non solo di accettare la mia volontà, ma anche di resistere senza impazzire alla violenza del potere sovrumano che mi pervade. Per quanto abbastanza coraggiose, o sciocche, d’avventurarsi qua dentro, infatti, nessuna delle discendenti dei miei assassini si è dimostrata meritevole di accogliermi. I loro teschi frantumati si sono aggiunti alle ossa con cui intrattengo mute conversazioni.
Questa è stata la mia condizione sospesa fino a oggi.
Poco fa ho avvertito l’avvicinarsi di una coppia di donne. Sono ancora lontane, tuttavia riesco a percepire il lavorio delle loro coscienze. Mi concentro sulle vibrazioni cerebrali per scoprire chi siano.
Una ha superato la trentina d’anni. Mi appare una figura alta e muscolosa. Il torso è inguainato in un’armatura di cuoio e lamine di metallo, il ventre e le cosce sono difese da un gonnellino di trapunta di lana. Appartiene alla rude stirpe delle Amazzoni. Non mi occorre altro per capire che non è adatta ai miei scopi: forza bruta e arti occulte non vanno d’accordo.
L’altra è poco più che adolescente. Per un momento la sofferenza che le domina i pensieri m’impedisce di studiarla più a fondo, poi è un grido di esultanza a erompere dalle mie labbra morte: è perfetta!
Mai come adesso ho pregato Ashtart con tanta intensità.



Estratto del racconto "Rinascita" di Marco Bertoli, vincitore del Premio Midgard Narrativa 2019, antologia fantasy "Hyperborea 3", Midgard Editrice 2019

midgard.it/hyperborea3.htm



sabato 12 ottobre 2019

Intervista a Roberto Lazzari

Intervista a Roberto Lazzari, autore del romanzo “Enrico Marsicano e l’armonica teoria”, edito nella Collana Narrativa della Midgard Editrice.





Buongiorno, siamo arrivati al terzo romanzo di Enrico Marsicano. Parlaci un po’ della sua trama.

Buongiorno a voi. Visto che anche questo romanzo, come i due precedenti, ha una componente gialla e poliziesca, mi permetterò di rimanere un po’ sul vago. In ogni caso, dal momento che stiamo parlando del romanzo conclusivo della pentalogia Cassiopea, è chiaro che un po’ di punti oscuri e di intricati problemi, rimasti senza risposta nei due romanzi precedenti, verranno chiariti e risolti in quest’ultima opera. Nuovi personaggi si affacceranno alla ribalta: alcuni minori, altri invece – e uno in particolare – di fondamentale importanza per la soluzione dell’enigma. In parallelo alla storia poliziesca, tuttavia, altri piani narrativi troveranno la loro finale sistemazione: il rapporto tra Enrico, Marta e l’ispettore Fioroni, ad esempio.  


A cosa alludi con l’armonica teoria del titolo?


Qui stiamo forse entrando un po’ troppo nel merito e non vorrei svelarvi elementi essenziali della trama del libro. Armonica teoria, tuttavia, al di là di un significato tecnico, che non vi illustrerò in questa sede, per non rovinarvi la sorpresa finale, ha anche un’accezione più generale, relativa a quello che è forse il concetto cardine delle tre opere già pubblicate: il principio di corrispondenza, la comune struttura costitutiva di ogni entità esistente, uomo compreso e, di conseguenza, la sublime armonia che pervade intrinsecamente l’Universo e che dovremmo preoccuparci di comprendere, realizzare e difendere.   


Quanto c’è di autobiografico nel personaggio di Enrico Marsicano e negli altri personaggi dei tuoi romanzi?


Come ho già avuto modo di affermare in altre occasioni, l’elemento autobiografico è molto presente nelle mie opere. Devo dire, però, che non mi riconosco pienamente in un determinato personaggio, così come, del resto, non esiste alcun personaggio, indipendentemente da sesso, età, intelligenza e dirittura morale, nel quale non ci sia almeno una piccola traccia di me. Tuttavia, nei miei romanzi, l’elemento autobiografico va spesso al di là dei personaggi, investendo i luoghi nei quali essi vivono e agiscono: dimore, strade, vicoli, bar, ristoranti, uffici, giardini. E luoghi dell’anima, naturalmente, non meno vividi e concreti di quelli realmente esistenti.   


Questo terzo libro di Marsicano avrà un seguito?

La domanda si presta ad almeno due interpretazioni: la vicenda fin qui narrata si svilupperà ulteriormente? Pubblicherai altri libri che parleranno di Marsicano? Anche le risposte alle domande precedenti sono molto diverse: no e si, rispettivamente. In parole povere, questo terzo libro conclude la pentalogia Cassiopea, ma siccome ogni pentalogia consta di cinque elementi, ne saranno presto pubblicati altri due: essi rappresentano il prequel della storia e narrano vicende alle quali, come molti di voi avranno notato, si fa spesso riferimento nei libri già dati alle stampe. Sono due libri molto particolari e molto diversi da quelli che avete già letto: personalmente, li trovo molto più consonanti ai temi sui quali si concentra il mio interesse e anche più vicini al mio vero stile letterario. Non perdeteveli assolutamente!

www.midgard.it/enricomarsicano_larmonicateoria.htm



mercoledì 2 ottobre 2019

Il grande tuffo

di Mira Susic





Nel pianeta blu c’è una terra lontana, fredda e glaciale, circondata da un mare profondo e ricoperta da una coltre spessa di ghiaccio e neve tutto l’anno.
Quella Terra dei Ghiacci e della Neve è la dimora dei pinguini, vestiti nei loro frac bianchi e neri.
Il bianco infinito e il blu del gelido mare non fanno paura alla colonia dei pinguini, che abita dalla notte dei tempi quella terra inospitale per gli altri esseri viventi, che popolano il pianeta Terra.
Tra la numerosa colonia dei pinguini c’è ne sta uno un po’ speciale: è un cucciolo di pinguino che ha una paura matta di tuffarsi in mare.
Il grande tuffo tocca ad ogni pinguino che calca la terra dei ghiacci eterni, con la neve che fa da padrona tutto l’anno in quelle terre bianche, circondate dal blu del mare limpido profondo. 
Ma che cos’è il grande tuffo? 
Il grande tuffo è un tuffo speciale, infatti è il primo tuffo di un pinguino nel mare.
Ogni pinguino ne va fiero ed è orgoglioso di averlo portato
a termine con successo. 
Ma il piccolo cucciolo non ne vuole
sapere di tuffarsi in acqua come gli altri pinguini, che fanno qualche passetto sul bordo del ghiaccio, abbassano la testa e poi si lanciano tra le onde con un poderoso tuffo che fa un enorme pluf nel mare.
“Al nostro cucciolo non va di fare il bagno come ogni pinguino,
che adora bagnarsi in acqua e a nuotare tra le onde mosse nel mare” si stupisce papà pinguino.
Papà pinguino e mamma pinguina sono preoccupati per la sorte del loro cucciolo in quella terra del freddo pungente, del ghiaccio eterno, della neve perenne e del mare blu scuro.
Il piccolo pinguino si ferma ancora una volta sull’orlo della scogliera ricoperta di ghiaccio e neve, abbassa la testolina e
guarda il mare color blu scuro. 
Dopo un po’ allunga la zampetta toccando con la sua punta la superficie gelida dell’acqua limpida e profonda.
“Brr, fa un freddo intenso!” trova ancora una volta una scusa il piccolo pinguino per non tuffarsi in mare come i suoi simili.
“Da che mondo è mondo non si è visto mai un pinguino che non vuole saperne di tuffarsi in mare e nuotare tra le onde come gli altri pinguini” constata sfiduciato papà pinguino.
“Ma perché ti comporti così?” chiede mamma pinguina al suo cucciolo.
Il piccino diventa rosso dalla vergogna. 
“Vorrei tanto saltare nell’acqua come tutti gli altri pinguini, ma ho una paura matta del mare profondo, perché non vedo il suo fondo” ammette candidamente il piccolo pinguino.
“Se non provi a tuffarti nel mare, non saprai mai quanto è profondo” risponde la mamma pinguina. “Nella vita ci vogliono forza e coraggio, ma anche tenacia e perseveranza per superare le paure e gli ostacoli”.
“Come fai ad avere paura se non conosci il mare ?!” esclama stupito papà pinguino.
“Beh, a volte capita che le cose che non conosciamo ci fanno paura” s’intromette nel discorso dei genitori il saggio pinguino della colonia, che ne ha viste oramai di tutti i colori. “Un po’ di allenamento sulla terra ferma prima del grande tuffo non farebbe male al piccoletto” suggerisce l’anziano pinguino che ha esperienza da vendere, avendo raggiunto una onorata e veneranda età per i pinguini.
“Per cominciare andiamo a fare una scivolata per vincere la paura” propone l’esperto pinguino al cucciolo. “Scivolata sulla pancia in discesa sulla superficie ghiacciata liscia con fermata nella neve soffice” spiega prendendo la rincorsa, buttandosi e lasciandosi poi scivolare giù sul ghiaccio liscio in discesa per la collina imbiancata.
Il piccolo pinguino non vuole essere da meno, perciò prende coraggio e si lancia giù per la superficie liscia di ghiaccio finendo dritto nella neve morbida, sano e salvo.
“Bravo! Complimenti, vedi che ce l’hai fatta!” si congratula l’anziano pinguino con il piccolo cucciolo desideroso di non sfigurare davanti all’adulto e soprattutto di non passare per un fifone e buono a nulla. In fondo i suoi amici pinguini non hanno affatto paura del mare buio, scuro e profondo.
“Non si è mai visto un pinguino che non abbia fatto il grande tuffo con bravura, disinvoltura e coraggio nella giornata clou dei cuccioli alle prime armi, perciò ce la farai anche tu, piccoletto” lo rincuora l’adulto, mentre lo accompagna in vetta ad una alta collinetta piena zeppa di neve fresca.
“Salto nel vuoto con atterraggio morbido” illustra il maestro pinguino al suo piccolo alunno con poche essenziali parole ciò che il cucciolo dovrà fare da lì a poco. “Guarda, osserva con attenzione e ripeti!” si raccomanda il pinguino, poi con un deciso balzo in avanti salta nel vuoto, vola giù per un po’ e alla fine si ferma sulla morbida coltre di neve.
“Salto nel vuoto con atterraggio finale sul morbido!” ripete con coraggio il piccolo pinguino prima di lanciarsi dalla collinetta.
Detto fatto: il cuccioletto chiude gli occhi lanciandosi nel vuoto, istintivamente sbatte le ali su e giù per mantenersi in volo, ma si ritrova dopo un po’ disteso sulla superficie soffice di un cumulo di neve fresca.
“Mica male, piccoletto! I pinguini però non volano ma nuotano nelle acque profonde del mare anche se hanno le ali” commenta soddisfatto l’esperto pinguino il salto, il volo e l’atterraggio del suo temerario alunno.

Estratto dall'opera "Il grande tuffo" di Mira Susic, Midgard Editrice 2019