sabato 28 dicembre 2019

La birra dell'imperatore

di Mara Virani





Miami, isola di Cocoplum

Due boccali di birra, uno vuoto e uno pieno, poggiavano su di un tavolino di cristallo. Erano di fattura antica e preziosa, acquistati in una recente asta di oggetti napoleonici. Due uomini, intenti a parlare di affari, erano comodamente seduti su un divano.
Di fronte a loro lo skyline di Miami si specchiava nelle placide acque dell'oceano.
Al culmine di una animata conversazione il più anziano dei due si alzò e si diresse verso la cassaforte che si trovava nella stanza. Camminava a fatica e si aiutava con un bastone. Alla stanchezza del suo corpo, tuttavia, si contrapponeva una lucidità mentale e una perspicacia tali da tenere ancora testa ai suoi giovani e rampanti nipoti. John B. Taylor inserì la combinazione con cura e solennità, come se stesse officiando un rito sacro. Ci fu uno scatto e l’anta della cassaforte si aprì. La persona che era con lui si alzò e si mosse in sua direzione. Appena gli fu accanto, prima che potesse reagire, estrasse dalla tasca una siringa ipodermica e gliela conficcò nel collo. Dopo poco Taylor cadde a terra. L’uomo si avvicinò alla cassaforte e dopo avervi guardato dentro, ebbe un moto di rabbia. Ciò che cercava non c'era. Dove poteva mai essere? Si mise a frugare tra le carte custodite all’interno, tra cui il testamento. Le lesse tutte con attenzione, poi si tolse i guanti e si allontanò dalla villa come se nulla fosse accaduto.


Milano, via Bigli

Matteo Guarini, consulente di arte antica, era visibilmente impaziente. Se ne stava in piedi, alla finestra, a guardare la strada sottostante. Di corporatura media, dai capelli castani e ondulati, girava e rigirava tra le mani un assegno: trentamila euro intestati a suo nome. Benché lo avesse da giorni, non aveva ancora voluto depositarlo in banca. Da poco aveva ricevuto un’inusuale proposta di lavoro di cui ignorava ancora i dettagli. Sapeva, tuttavia, che c’era di mezzo un’importante eredità. Il suo cliente, rimasto anonimo, lo aveva contattato tramite un intermediario e gli aveva imposto precise condizioni e clausole di riservatezza. Una volta assunto l’incarico, gli aveva corrisposto un lauto anticipo.
Al suono familiare del campanello volse nervosamente il capo. Chi aveva suonato alla porta? Dante, il cane da cui cercava di non separarsi mai, si svegliò dalla sua pennichella. Alzò pigramente il muso e mugugnò, guardandolo incuriosito. Di lì a poco i lineamenti del viso di Matteo parvero distendersi. Era il portinaio con in mano un pacco a lui indirizzato. Lo aprì. Vi trovò una scatola di legno e una lettera, con scritto “Strettamente confidenziale”, che aprì con un antico tagliacarte. La spiegò e iniziò a leggerla. 


Egregio Prof. Guarini,

La contatto su segnalazione di un caro amico che ha elogiato la sua competenza e discrezione. Mio nonno era uno stimato capitano d’industria ed era anche un grande collezionista d’arte. Purtroppo è morto recentemente in circostanze misteriose su cui la polizia sta ancora indagando. Nel testamento ha disposto che l’oggetto a lui più caro, una sciabola che appartenne a Napoleone, vada in eredità a chi, tra i suoi familiari, risolverà l’enigma che ha ideato per nasconderla. L’unico indizio lasciato è contenuto nel pacco a cui questa lettera si accompagna. Tutto ciò che sono riuscito sino ad ora a scoprire si trova accluso in copia. Confido nella sua bravura e resto in attesa di ricevere quanto prima il suo riscontro.
Cordiali saluti,

Aaron Taylor


Matteo la rilesse con attenzione e poi passò a esaminare il contenuto della scatola. Con suo stupore vide che si trattava di una bottiglia di birra. La impugnò e la rigirò più volte tra le mani, guardandola alla luce della finestra. Ad occhio e croce sembrava di recente fattura e l’etichetta era chiaramente contemporanea. Dov’era nascosto, dunque, l’arcano? Anche quella mattina era immerso tra i suoi pensieri. Erano già trascorsi alcuni giorni e non aveva ancora identificato un filone di ricerca che ritenesse valido.
“Porca miseria! Ma come ho fatto a non pensarci prima!” esclamò improvvisamente con una certa soddisfazione. “Il punto più buio è sempre sotto la fiamma della candela” rifletté tra sé e sé, come se fosse un mantra. Si diresse in cucina. Prese una pentola, la riempì d’acqua e la mise al fuoco. Iniziò, poi, ad armeggiare col frigorifero e con un certo rumore estrasse uno dei suoi piani per andare a riporlo sopra la pentola. Quelle sue insolite manovre avevano attirato l’attenzione della sua assistente e di Dante che lo osservavano curiosamente.
La sua collaboratrice era una giovane donna minuta e dai lineamenti gentili. Più che per la sua preparazione, l’aveva assunta per i suoi modi pacati. Matteo sorrise e appoggiò fieramente la bottiglia sopra la griglia. Poi si mise in attesa.
“Tra non molto il vapore dell’acqua inizierà a sciogliere la colla dell’etichetta. Livia…Ha per caso con sé delle pinzette?”
“Forse…” rispose prima di allontanarsi.
Charlie, un gattino bianco e rosso che il professore aveva salvato da una triste fine, era riuscito a salire sul piano di lavoro della cucina e curiosava qua e là, tenendosi lontano dal fuoco.
Livia tornò con ciò che il professore le aveva chiesto e con un articolo. Spesso consultava online la stampa locale di Miami per leggere i pezzi di una sua amica giornalista. 


Estratto dal racconto "La birra dell'imperatore" di Mara Virani, vincitrice del Premio Giallobirra 2015, edito nell'antologia Giallobirra 3, Midgard Editrice.


lunedì 16 dicembre 2019

La birra di Platone

di Maria Grazia Giuliani






Quella mattina di primavera una luce tenue, assonnata irradiava di luce Perugia, mentre un viavai di pendolari inondava le strade e le saracinesche dei negozi cigolavano, sollevandosi. Un vago odore di cappuccino rapiva le narici di chi transitava dinanzi ai bar. La dimora dei marchesi di Sorbello si stagliava nitida in un cielo chiaro. Sembrava un’impavida roccaforte eretta contro le miserie del mondo, lei che di miserie ne aveva viste tante nei suoi poco più di quattrocento anni di vita. Superba e conscia di contenere nel suo ventre tesori come quadri, porcellane, manoscritti e tessuti ricamati antichi e di pregevole fattura.
Sotto le sue volte affrescate, nella sala Carlo III, si compivano i preparativi: persone in divisa percorrevano a grandi passi l’interno prezioso del museo, altre in borghese discutevano indicando le teche in vetro disposte lungo le pareti.
Queste persone si spostavano, poi, nelle altre due sale adiacenti per ultimare gli stessi lavori.
Un uomo alto e snello, vestito con un elegantissimo abito blu, guardava fuori dalla finestra tormentandosi con due dita la folta barba grigia. Sembrava assorto, mentre fissava i tetti spioventi.
«Professore» lo chiamò una giovane donna dalla testa piccola e ben fatta, circondata da un’aureola di corti ricci color bronzo, come in un quadro dell’Annunciazione. Era la sua assistente.
«Maia?»
«Professore mi perdoni, hanno terminato l’allestimento della mostra» disse lei a bassa voce.
«Molto bene» sospirò rumorosamente. «Attendiamo l’arrivo del dottor Dominici per disporre i gioielli nelle teche.»
«La bottiglia di birra di Platone?»
«La bottiglia di birra?» Sorrise.
«La chiamano tutti così ormai.»
«Anche per quella attenderemo l’arrivo del dottor Dominici.»
«Speriamo che non sia in ritardo, alle diciotto si apriranno i cancelli ai visitatori.»
Il professore le regalò un ulteriore candido sorriso e si allontanò. Nella sala c’era ancora qualcuno che lucidava le teche, poi quasi tutti sparirono.
«Professore venga,» disse un uomo in tuta da lavoro «venga con me.»
Si fermarono sulla soglia della sala Ugolino.
«Tutto è pronto,» disse l’uomo «adesso proveremo gli allarmi per l’ultima volta.»
«Sì, credo proprio che sia necessario. Procediamo.»
Qualcuno si avvicinò alle teche, poi allungò una mano e la poggiò sul vetro.
Scattarono delle assordanti sirene che emisero il loro suono acuto accompagnato dal lampeggiare blu di due lampade interne alla sala e di una esterna posta sulla porta d’ingresso. Quattro telecamere interne a ogni sala e cinque esterne avrebbero ripreso gli spostamenti dei visitatori.
«Nessuno oserà toccare le teche» disse l’uomo.
«Ottimo lavoro. Ora potete andare. È arrivato Dominici?» fece il professore a voce alta.
«Non ancora» rispose Maia.
«Sempre in ritardo quell’uomo! Venite.»
Maia, due uomini e due donne lo seguirono attraverso un corridoio sino nei sotterranei. I due vigilanti si fermarono all’ingresso di una stanza. Il professore trasse dalla tasca una chiave e aprì. Gli studenti di Belle Arti che collaboravano al progetto e Maia, entrarono. La sala era angusta, con le pareti di pietra viva, umida e fredda. Sul lato destro c’era una cassaforte che il professore aprì.
«Perdonate il ritardo» disse entrando un uomo che si asciugò il capo calvo con un fazzoletto e la mano tremante.
«Finalmente dottor Dominici, l’attendevamo.»
«Il traffico, gli impegni. Scusate.»
Dominici era un uomo robusto e alto, con uno sguardo acuto in un viso tondo, sfrontato.
Il professore contrasse le mascelle mentre la voce scorreva ancora dolce tra le labbra serrate.
«Va bene, va bene, mettiamoci al lavoro.»
 Il dottore, eminente archeologo, bofonchiò ancora delle scuse mentre oscillava sulle gambe.
A un cenno del professore gli studenti estrassero dalla cassaforte alcuni scrigni e li aprirono.
«Meravigliosi, unici, magnifici» commentarono i presenti con le pupille dilatate.
Il dottore fece un passo avanti, trasse fuori un bracciale tempestato di diamanti, avvicinò il monocolo e l’osservò.
«Unico. Un esemplare unico. Lo zar Nicola Romanov lo regalò alla zarina Alessandra. Questa a sua volta lo regalò a quel cialtrone di Rasputin, credendo che stesse guarendo suo figlio dall’emofilia.»
Estrasse alcuni collier e anelli con pietre preziose grosse come fagioli.
«Sono di ottima fattura veneziana. Sono il frutto di razzie compiute da Gengis Khan quando invase il Nord Italia,» disse Dominici «ma adesso aprite la cassaforte che contiene il pezzo più importante della collezione.»

Le minute dita di Maia estrassero una cassa più piccola e la depositarono con cura sul tavolo.
«Ecco la birra di Platone, il grande filosofo.»
Aveva estratto una brocca di ceramica dal corpo allungato e l’apertura rotonda. L’ansa unica e alta si sollevava al di sopra dell’imboccatura. Sembrava che il tempo non l’avesse sfiorata: era appena sbeccata e l’ansa presentava un pezzetto in meno nel punto in cui si congiungeva alla pancia tonda e affilata. Era dipinta di nero alla base e all’estremità superiore, mentre il resto era ricoperto da un leggero colore rossastro su cui spiccavano guerrieri di colore nero. Era ricoperta da un tappo di vetro, all’interno era visibile una sorta di liquido marrone scuro.
«È un’olpe, veniva usata per versare il vino o la birra» disse Dominici.
«Come è arrivata a noi?»
«Probabilmente è stata scoperta in qualche scavo a Ercolano o Pompei.»
«Sarà stata venduta sottobanco a qualche collezionista per una cifra che non oso neppure immaginare» disse il Professore.
 «Se ne ignorava persino l’esistenza. Un anno fa il conte Brandi ce l’ha donata sostenendo di ignorare che i suoi avi la possedessero» concluse Dominici.
«Ma cos’è quel liquido all’interno? E come è giunto dopo tanti secoli sino a noi?»
«Bella domanda,» il dottore sorrise «in realtà la brocca era sigillata ermeticamente da un tappo di lava solidificata.»
«Capisco,» disse Maia «il contenuto non essendo a contatto con l’aria non è evaporato.»
«Brava.» Dominici fremeva nel suo completo blu scuro di ottima fattura.
«E dunque?»
«Attraverso un delicato processo è stato prelevato e analizzato: si tratta di birra. È stato poi versato in un contenitore di vetro sottovuoto per preservarlo e il contenitore inserito nella brocca.»
«E poi?»
«Poi la brocca è stata richiusa con un tappo di vetro. Tutto qui.»
«Attirerà molti visitatori» disse il professore.
«Dobbiamo ringraziare i marchesi Bourbon di Sorbello per averci concesso di organizzare questa mostra nel loro antico e rinomato palazzo accanto agli oggetti preziosi che appartengono a questo museo.»

Estratto dal racconto "La birra di Platone", vincitore del Premio Giallobirra 2014, pubblicato nell'antologia giallo-noir "Giallobirra Volume 3", Midgard Editrice 2018






lunedì 9 dicembre 2019

Tempi da lupi

di Giulio Volpi e Nardino Cesaretti






La strada attraversava a mezza costa quella zona di montagna e seguiva, adattandosi alla morfologia del terreno, lo stesso percorso di allora.
Curve molto strette e scomode costringevano spesso a rallentare e guidare con attenzione, solo qualche breve rettilineo permetteva un minimo di rilassamento consentendo l’osservazione del paesaggio, bello e selvaggio.
Il fondo stradale era asfaltato, unica differenza da quel lontano periodo quando c’era ancora la guerra ed il passaggio dei mezzi militari sollevava una polvere così fitta da impedire quasi completamente la vista.
Il fiume rimaneva sulla sinistra e scorreva molto più in basso rispetto al livello della carreggiata, quasi in fondo a un dirupo, e lei riusciva a scorgerlo solo in quei rari e brevi tratti dove la fitta vegetazione si interrompeva.
Cercava di riconoscere quei luoghi individuando qualche punto di riferimento: il paese ormai doveva essere vicino.
Di là dal fiume, in cima al colle più alto, le sembrò per un attimo di scorgere la vecchia torre seminascosta tra gli alberi, ma la presenza di alcune case che non ricordava ci fossero in quel tempo le fece perdere di nuovo l’orientamento finché, giunta in prossimità di un bivio, gli apparve il mulino.
Riconobbe quel posto: la strada bianca che partiva sulla destra era quella che portava ai Casali.
La vecchia costruzione, ormai in disuso e abbandonata, era ancora riconoscibile nonostante i fitti cespugli di rovo l’avvolgessero quasi completamente.
La grande ruota, costruita parte in legno e parte in ferro, era ancora visibile e così pure, una decina di metri più in là, ciò che rimaneva della saracinesca per il passaggio dell’acqua che veniva aperta solo quando si doveva macinare.
Dall’altra parte della strada, la fontana.
Brandelli di ricordi le affollarono d’improvviso la mente: quante volte era scesa fin lì per andare a prendere l’acqua! La casa dove abitava era lontana e questa incombenza toccava quasi sempre a lei.
La vasca era ancora quella: scavata sulla stessa roccia da cui sgorgava l’acqua, accompagnata allora da un coppo rovesciato, sostituito adesso da un meno romantico tubo di ferro con relativo rubinetto a farfalla.
Non poté fare a meno di fermare la macchina sullo spiazzo antistante anche se, poco distante, seduto su una grossa di pietra, c’era un tizio col cappello calato sugli occhi, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la sigaretta accesa tra le dita della mano abbandonata.
Sembrava mezzo addormentato.
Ai suoi piedi era accovacciato un grosso cane bianco con delle macchie grigie.
“C’è un albergo da queste parti?” domandò.
L’uomo alzò la testa di scatto; aveva la barba lunga e portava un paio di occhiali molto scuri.
Forse è cieco, pensò.
Lui se li aggiustò come per cercare di vederci meglio restando per un attimo imbambolato.
Subito dopo gettò la cicca a terra e la spense col tacco della scarpa.
“Può andare al Leon D’Oro” disse con voce interrotta da qualche colpo di tosse. “Lo trova poco più avanti… lungo la strada.”
“Non è di qui vero?” aggiunse poi mentre la donna si avvicinava alla sorgente.
“No, vengo da Roma” rispose frettolosamente Nella, e si mise a riempire una bottiglia di plastica dopo aver bevuto alcuni sorsi dal palmo della mano.
“È buona vero?  Questa è la fonte più vecchia della zona. Una volta, tanti anni fa, venivano tutti qui a prendere l’acqua, e qualcuno viene ancora, anche se adesso ci arriva direttamente a casa.”
Lei lo ringraziò e salutò risalendo in macchina.
Avrebbe scambiato volentieri qualche altra parola con quel tipo singolare ma preferì affrettarsi: era molto stanca dopo quel lungo viaggio. 

Estratto dal romanzo "Tempi da lupi" di Giulio Volpi e Nardino Cesaretti, Midgard Editrice 2019




lunedì 2 dicembre 2019

Il volto perduto

di Monica Pica





Era il 21 marzo 2001, festa di San Benedetto, primo giorno di primavera, anche se l’aria era ancora gelida a quell’ora della notte. Le Torri Gemelle erano ancora lì, al loro posto, Facebook non c’era, né WhatsApp o Instagram. Il mio cellulare aveva solo due funzioni, chiamata e sms e fu una vera svolta quando riuscii a comprarne uno di dimensioni più piccole rispetto a quello, enorme, che avevo acquistato di seconda mano nel ’99. Ero appena scesa dall’auto che avevo parcheggiato sotto casa, stavo frugando nella maxi borsa in cerca delle chiavi del portone.
“Prima o poi dovrò fare pulizia in questa borsa”, dicevo tra me e me.
Afferrai le chiavi che riconobbi al tatto nascoste sul fondo, quando mi apparve davanti lui. “Eccolo di nuovo”, pensai, e prima che potesse aprir bocca gli dissi «Senti, è tardi e fa freddo e sinceramente non ho voglia di parlare, anche perché credo che ci siamo detti tutto. Vai a casa».
Non rispose, stava lì, aveva perle di sudore che gli colavano dalla fronte, nonostante il freddo, i capelli arruffati. Continuava a fissarmi con quegli occhi rossi che mi raggelavano il sangue. Distolsi lo sguardo e infilai la chiave nella serratura, ma prima che riuscissi ad aprire mi disse «Aspetta … ti faccio vedere come si tratta una puttana».
Non so bene cosa sia successo dopo. Ricordo di essermi accasciata a terra, forse per istinto di auto protezione. Le orecchie mi fischiavano, i suoni erano grevi e lontani, tentai di urlare con quanto fiato avevo in gola, ma non usciva nessun suono, un dolore acuto e sordo iniziò a divorarmi il viso, sentivo i capelli scoppiettare come se stessero prendendo fuoco, ma non c’erano fiamme intorno a me e poi nulla più, solo quelle parole che mi risuonavano in testa “Ti faccio vedere come si tratta una puttana”. Tutto ciò che so della mia vita negli istanti e ore successive mi è stato restituito dai racconti di chi mi ha soccorso e assistito in ospedale.
Arrivò l’ambulanza e fui portata al reparto ustionati, accompagnata dai miei genitori che erano stati chiamati da un vicino giunto sul luogo poco dopo l’accaduto. Tolte le bende del primo soccorso, i medici diagnosticarono un’ustione da acido muriatico. La prima emergenza da affrontare fu l’occhio sinistro. Intervennero subito, ma non assicurarono un recupero completo della vista. Rimasi sedata per alcuni giorni, sopportare il dolore delle ustioni sarebbe stato intollerabile. In quell’innaturale dormiveglia continuavo a sentire il suono di quelle parole “Ti faccio vedere come si tratta una puttana”.
Quando tornai semicosciente avevo la bocca arsa, come se avessi attraversato il deserto a piedi, l’occhio sinistro era bendato e col destro riuscivo a malapena a distinguere luci ed ombre. Pian piano le immagini si fecero più nitide e i suoni più definiti. Sentivo la voce tremante di mia madre, continuava a soffiarsi il naso, stava piangendo. D’improvviso un dolore assordante mi attraversò la parte sinistra del volto. Urlai richiamando l’attenzione del medico e dell’infermiera che si avvicinò e iniziò a trafficare con la flebo per aumentare il flusso di antidolorifici.
«Sono morta?», sussurrai a mia madre. Non ebbi il tempo di ascoltare la sua risposta perché caddi di nuovo in un sonno senza sogni.

Estratto dal volume "Il volto perduto" di Monica Pica, Midgard Editrice 2019





mercoledì 20 novembre 2019

Omonimo

di Roberto Tirloni





Essenza
è la guarigione dell'anima.
Il tuo viso radioso,
colmo di luce riflessa,
le tue mani,
fonti di terso calore,
legittimazione di forza
e presenza.
Il tuo sguardo profondo,
soave e sincero,
più intenso di
molteplici parole.
Respiriamo all'unisono,
pigramente ed intensamente,
come profondi sublimi abissi.
Danziamo fieri e solenni,
nell'attesa di un vivido sogno...


Una piacevole serata
di inizio estate
non empie il vacuo
della mia quotidianità.
Assente è la luna
lungo la visuale,
intenta assai
a rinfrancar spiriti
ebbri d'amore.
Sprazzi di vita
mi circondano,
ma ho il privilegio
di ponderare
in quieta lontananza.
Non tutti i compagni
di viaggio
sono ideali,
complementari,
né tantomeno
le coppie
di innamorati,
che sovente
recitano ignare
fasulle pagine
di tenerezza.
Da ampi scalini
medito,
scruto,
resisto.
Dopotutto,
esisto.


Comunicazione passiva,
essenza primordiale della nostra epopea
per sopravvivere a ciò
che percepiamo come buio,
vuoto da riempire
spesso con nefaste idee,
volgari pratiche,
afone voci
incapaci di farsi ascoltare,
mentre il nostro tacere
libra elevato
verso dedali di seta,
sfere fatate
ed enigmi
che il nostro tempo
saprà decifrare.


Poesie dal volume "Omonimo" di Roberto Tirloni, Midgard Editrice 2019



martedì 12 novembre 2019

Amore e sacrificio

di Elisabetta Trottini





Un uomo di circa trent’anni tiene in braccio per la prima volta sua figlia. È così bello guardarla che rimarrebbe ore a imprimere nella mente i suoi lineamenti. Tuttavia non può. Sa che presto la piccola sarà in pericolo e lui dovrà proteggerla da forze ben peggiori di quelle che un semplice uomo può affrontare.
“Dobbiamo portarla via” gli mima sua moglie. Presto sapranno di quello che lui e sua moglie hanno fatto e verranno per la bambina. Ma soprattutto ci saranno delle conseguenze, non si è mai sentito di un matrimonio come il loro e la loro progenie è in pericolo. La suocera lo incita spaventata a emergere in superficie, altrimenti lo cattureranno. Ormai li sente alle calcagna. La tuta da sub gli rende difficoltosi i movimenti, ma l’amore verso sua figlia è più forte. Una volta salito sulla sua barca, riprende fiato, stringendo ancora di più a sé quel fagottino che tiene tra le braccia.
“Ron, stanno arrivando!” le urla sua moglie riemergendo improvvisamente.
“Malis, sali” le ordina preoccupato Ron. Ma ormai vede l’esercito avanzare. Il re si fa avanti, sovrastando con la sua figura Malis.
“Questo abominio deve essere eliminato. È contro ogni regola” dice a Ron con un accento marcatamente non umano.
“Non ucciderai mia figlia!” replica Ron minacciandolo con la lancia da pesca.
“Quel bastone non mi fa paura, sai bene che sei molto più debole di me. Quindi risparmia la scena e consegnami la bambina” il re è perentorio, non odia gli umani e neanche Ron, ma conosce le conseguenze di lasciare in vita quella creatura. Gli si spezza il cuore, eppure è necessario.
“No, mai” Malis si mette in mezzo.
“Portatela via, sarà condannata per essersi innamorata di un umano”. Ron non può fare nulla se non vedere sua moglie portata via dal generale dell’esercito. Ma la sua mente lavora febbrilmente, e presto la situazione si ribalta: accende il motore della barca e mette quanta più distanza tra lui e quell’essere che voleva uccidere sua figlia.
“Scappa quanto vuoi, ma presto il richiamo del mare la porterà da me” considera il re amareggiato, osservando la nave fuggire in acque a loro inaccessibili.

Estratto dal racconto "Amore e sacrificio" di Elisabetta Trottini, in Hyperborea 3 (Midgard Editrice 2019)


sabato 9 novembre 2019

Intervista a Ruggero Hakim

Intervista a Ruggero Hakim, autore dell’opera “Dissipare dissapori”, edita nella Collana Poesia della Midgard Editrice.





Buongiorno, parlaci della tua opera, come nasce?
Buongiorno, la mia opera nasce negli ultimi tre anni, quando mi sono dedicato appieno alla scrittura e all'introspezione, contemplando sempre parecchio, osservando il mondo  che ci circonda. Pensieri, riflessioni, che hanno sempre fermentato dentro di me, nel mio essere controverso ma obiettivo, non potevo che esternarle attraverso le poesie, che come forma di messaggio e comunicazione sono un "urlo silenzioso", a cui pochi credo sanno dargli un senso oggi.


Quali sono le tematiche più importanti nella tua poesia?
Vi sono vari “correnti” di pensiero o come preferisco chiamarli flussi di coscienza, ci sono poesie che trattano luoghi, altri manifestazioni culturali e poesie dedicate a persone, qualcuna indiretta e qualcuna diretta.
Ho scritto contro l’expo, manifestazione che ha messo in risalto mondiale Milano la città in cui sono nato ma che ha portato anche tanti disagi. C'è un poema sul salone del mobile, kermesse che mi è cara poiché avviene una volta all’anno, non dura più di una settimana, che trasforma e adorna Milano al massimo. Ho dedicato alcune poesie alle mie amanti, scritte sempre nel mio stile in originale, ci sono dei saggi, non in prosa, sul tema dell' alienazione sociale e critiche sul modus vivendi borghese attuale.



Qual è il rapporto fra la scrittura e il resto della tua vita?

Credo che ogni scrittore vive la scrittura in maniera molto personale e ciascuno filtra, discerne, quelle che possono essere le sue tracce o argomenti, usa metodi e personalizza la sua forma per finalizzare i suoi componimenti. Come dico spesso alle persone che per me la scrittura "è un percorso non una carriera, è una vocazione non un mestiere".


Che scrittori ti piacciono e ti ispirano?
Questa è una bella domanda, incominciamo da quelli che oltre che a piacermi e ho letto hanno ispirato le mie scritture, sempre a livello di "prosecuzione" non di imitazione. Sicuramente D'Annunzio, il massimo esponente italiano dell'estetismo.
Vi sono temi legati anche alla decadenza, quindi Oscar Wilde. Diciamo che Wilde e D' Annunzio mi sono molto cari, in quanto dandy, con le loro personalità controverse e antiborghesi, quali potrete leggere in alcune mie poesie. Sono fan anche degli esistenzialisti Leopardi e Nietzsche, perché credo che abbiano riassunto parecchio il malessere dell' uomo, o come lo chiamavano i poeti maudits lo "spleen".
Apollinaire anche trovo molto affascinante, ho a casa una copia di "Memorie di un giovane libertino", e non potevo che scrivere narrare delle mie muse in una forma erotica ma non volgare o spudorata.
Degli scrittori attuali apprezzo molto l' americano Palahniuk coi suoi contenuti stile e anti-mainstream.


Progetti futuri?
A questa domanda non so mai cosa rispondere e mi ha sempre messo un po' in empasse, simile a quando mi chiedevano che cosa vuoi fare da grande, non sapevo esattamente che cosa rispondere. Non avrei mai risposto che sarei diventato poeta, ci nasci così, uno ce l'ha dentro, e se ne accorge, chi presto chi più tardi. Di sicuro vorrei stare nel campo delle arti, questo della scrittura è stato il mio primo passo. Bisogna mandare un messaggio là fuori, imprimerlo di beltade e verità.




giovedì 7 novembre 2019

Diamond. Magia e incanto

di Ramona Saperdi





Il sole stava tramontando a Diamond e molto presto la prima stella della sera avrebbe fatto capolino nel cielo.
Andres era seduto sulla radice di un albero che sbucava dal terreno, lo sguardo perso verso l'orizzonte nell'attesa di perlustrare i confini della città per assicurarsi che tutto andasse bene; era un elfo alto e forte, capitano dell'esercito e amante delle armi, ma non della guerra al contrario di suo padre che la riteneva necessaria. Gli elfi nascevano guerrieri e questo non sarebbe mai cambiato. Inutile pensarci! Ormai era temuto e rispettato dai nemici di Diamond e non avrebbe mai lasciato Lara, la regina delle fate, perché l'amava troppo. Non c'era niente che impedisse la loro unione; fate ed elfi si sposavano da millenni. Il problema, forse, era per il ruolo che entrambi ricoprivano nella città: lui si occupava della sicurezza degli abitanti e reclutava nuovi elfi da addestrare e lei... beh, lei era la regina e non c'era nient'altro da aggiungere. Le fate chiedevano la protezione degli elfi perché la città era ricca di diamanti, molti dei quali rari. Era stata attaccata diverse volte, ma erano sempre riusciti a difendersi.
Per millenni avevano collaborato e lavorato sodo e i risultati erano stati ottimi.
La sera giunse su Diamond e per Andres era arrivato il momento più atteso della giornata, la parte che preferiva del suo lavoro: il giro di ricognizione. La città era bellissima sotto il cielo stellato e il suo cammino iniziò dal confine est.
Qui vivevano tutte le fate che possedevano capacità artistiche: c'erano pittrici, ballerine, cantanti, scrittrici, attrici e musiciste. Questo luogo sembrava essere sempre in festa; qui si celebrava la notte del solstizio d'estate e la festa della luna piena.
Dopo qualche chilometro Andres era giunto al confine sud. In questo luogo vivevano le fate artigiane: il loro compito era costruire, nonché aggiustare, oggetti che potessero servire per la vita di tutti giorni. Erano ingegnose e il capitano molto spesso si era rivolto a loro per costruire nuove armi. Il paesaggio in questa zona era come una grande fabbrica. Andres ne rimaneva sempre sbalordito.
Proseguendo il suo cammino l'elfo giunse a ovest della città dove vivevano le fate giardiniere dedite alla cura degli animali e alla protezione dei paesaggi incantevoli che regalava Diamond. Grandi montagne definivano il confine e si elevavano fino al cielo, tanto che dalla valle non si riusciva a vederne la vetta. Tra queste montagne venivano estratti i diamanti da elfi specializzati.  
Ogni gruppo di fate aveva una leader e questa aveva la responsabilità di sorvegliare le altre e di procurarsi i diamanti necessari per il loro lavoro, i quali venivano utilizzati per i motivi più vari per esempio durante la festa dei fiori per crearne di nuovi, sempre più belli, o nelle notti di luna piena per pozioni e amuleti.
Dopo tanto camminare il capitano arrivò al confine nord. Qui c'era il campo di addestramento degli elfi, un luogo che lui conosceva benissimo e che, nonostante tutto, amava. Ormai era abituato a tutto questo e anche se un tempo non avrebbe scelto questa vita, ora, per ironia della sorte, non riusciva a vedersi da nessun’altra parte.
Ad ogni elfo veniva donato un cavallo dotato di un diamante invisibile ad occhio nudo che gli permetteva di avere prestazioni migliori durante un combattimento. Eros, così Andres aveva deciso di chiamare il suo, con piena approvazione di Lara, in onore del Dio greco dell’amore fisico e del desiderio che tante volte avevano sentito menzionare dagli uomini.
Salutò i suoi allievi impegnati a ripulire e sistemare il campo per le esercitazioni e si diresse verso la sua abitazione: non era molto grande, ma graziosa ed arieggiata, non essendo amante del lusso aveva chiesto alle fate artigiane di costruire mobili essenziali e poco lavorati. Dalla finestra del salone riusciva a vedere perfettamente il castello dove risiedeva Lara e ogni volta pensava a come sarebbe stato vivere insieme. Con un po' di malinconia andò in camera sua, si tolse l'armatura e fece un bagno. Al ritorno trovò sul suo letto la regina, bellissima come sempre.
-Ti stavo aspettando!
Lara ruppe il silenzio imbarazzante che era sceso nella stanza. Andres sbalordito dall'audacia della sua amata arrossì. Non era la prima volta che si incontravano di nascosto nella notte per amarsi, ma l'elfo ogni volta aveva quella reazione. La fata possedeva un fascino d’altri tempi e lui ne era attratto.
-Adesso arrossisci! 
La fata lo stuzzicò un po', gli si avvicinò e lo baciò con trasporto. In un attimo si ritrovarono nudi sul letto e un’altra notte li avrebbe visti consumare il loro amore.

Estratto dal racconto "Diamond. Magia e incanto" di Ramona Saperdi, nell'antologia fantasy "Hyperborea 3", Midgard Editrice 2019




mercoledì 30 ottobre 2019

Onar

di Marco Canonico





«Stai dicendo sul serio Kleide?».
«Sì, da quello che mi ricordo il sogno è finito bene, ma non ricordo cosa sia successo. È da mesi che ho gli incubi».
«Ma era veramente un bel sogno? Non potrebbe soltanto essere un caso, o meglio, un sogno meno brutto rispetto a un altro?».
«Sono sicura che il sogno fosse bello, anzi, è iniziato male ma poi è finito bene. È arrivato un tipo strano che...».
«Tutta la città di Anthos non fa bei sogni da mesi», la interruppe Amycus.
«Lo sai bene che il sindaco ha dichiarato lo stato di emergenza. Non riesco a capire come tu abbia potuto dormire bene stanotte».
«Se ti ricordi lui ha detto che aveva un piano».
«C’ero anch’io quando lo ha annunciato di fronte a tutti nella Grande Piazza. Ma ti rendi conto da sola che non è possibile fare nulla. Non si può intervenire sui sogni, è il nostro subconscio che ce li presenta la notte mentre dormiamo».
«Il sindaco dice che c’è qualcosa di strano, glie lo hanno riferito pure i suoi più fidati collaboratori e scienziati. Lui dice che questi sogni non sono i nostri, non ci appartengono, arrivano da qualcun altro».
 «Kleide... ti rendi conto di che follia? I sogni sono i nostri, non di qualcun altro. Te lo dico io, il sindaco, anche lui sfinito come noi da questi incubi, sta dando i numeri».
«Io sono sicura che in qualche modo interverrà. Amycus, abbiamo bisogno di riposare per bene, almeno una notte.
Io oggi ci sono riuscita ma in genere non riesco a fare più nulla la mattina: sono troppo stanca e la notte ho paura di dormire perché so che sicuramente ci sarà un nuovo incubo.
Dobbiamo almeno mettere un po’ di fiducia in quello che dice il sindaco. Almeno io, dopo stanotte, di fiducia ne ho. È chiaro che lui in qualche modo è intervenuto».
«Anche io sono stanco morto, però basta pensarci un attimo: non so cosa abbia in mente ma qualunque cosa lui faccia ritengo sia inutile. Il sindaco dice che c’è qualcosa o qualcuno che ci sta togliendo il riposar tranquilli: niente e nessuno può fare una cosa del genere. Non si può entrare nella testa delle persone mentre dormono e mandare incubi al posto di bei sogni».
«E il sogno che ho fatto stanotte? Come lo spieghi? È finito bene».
«È solo un caso».

Lo stesso giorno, nella Grande Piazza

La Grande Piazza era gremita di persone, tutte assonnate ma curiose di sentire cosa avesse da dire loro il sindaco, che aveva promesso un intervento.
«Miei concittadini, sono venuto a sapere che finalmente alcuni di noi sono riusciti a dormire in maniera accettabile la notte scorsa. Io, da parte mia, ho avuto i soliti incubi ma da quello che mi dite la situazione sembra in qualche modo cambiata. Lo statuto di emergenza imposto due mesi fa è stato necessario e sarà valido finché il problema non sarà del tutto eliminato. Ora, io e i miei collaboratori non vi abbiamo detto cosa avremmo tentato di fare, ma viste le notizie positive di oggi ritengo sia giusto comunicarvelo.
Ma non sarò io a spiegarvi il tutto, bensì il nostro uomo, che gentilmente, su mia richiesta ha acconsentito ad aiutarci».
Ci furono alcuni istanti di silenzio, rotti soltanto dal tossire di alcuni. Poi il sindaco si fece da parte e arrivò un uomo misterioso incappucciato che prese mal volentieri il microfono.
«Mi chiamo Onar, sono qui perché convocato dal vostro sindaco per risolvere un problema di cui si possono occupare solo persone come me. Ma in realtà, mi sembra doveroso dirvelo, non sono arrivato fin qui per fare un favore a voi cittadini di Anthos, ma a entrambi i regni di Ypnos e Nyx.
Io e i miei colleghi lavoriamo non su commissione ma rispondiamo a una sola autorità: Ampelos, re di Ypnos  e Orthosie, regina di Nyx».
Al solo sentire il nome dei grandi sovrani tutta la gente raccolta nella Grande Piazza sollevò dei mormorii di stupore.
«Silenzio per favore», disse Onar piuttosto annoiato.
«Prima finirò di parlare prima potrò mettermi all’opera. Come dicevo, mi mandano i vostri regnanti, perché hanno entrambi ricevuto una lettera dal vostro … sindaco – se così vi piace chiamarlo – dove si pregava loro di intervenire in qualche modo riguardo la faccenda dei brutti sogni.
La verità è che questi incubi non si verificano soltanto qui ma anche in altri paesi e città dei  nostri due regni.
Quindi …».
Un cittadino abbastanza avanti con l’età alzando il tono della voce si rivolse a Onar: «Taglia corto per favore, dicci quale incarico ti è stato affidato e cosa puoi fare per noi».
«Non osare più interrompermi vecchio, oppure quei mastini di cui hai tanto paura mentre dormi ti divoreranno per davvero. E stavolta non sarò lì a salvarti».
«Ma come fai a sapere cosa ho sognato e chi è …. ».
«Ho chiesto di non aggiungere altro e altro non aggiungerai. Ti è chiaro?».
Il vecchio ammutolì non osando controbattere di nuovo a quel misterioso uomo coperto dal cappuccio ed estremamente imperioso e sicuro di sé.
Inoltre c’era quella questione di come lui conoscesse i suoi incubi notturni.

Estratto dal racconto "Onar" di Marco Canonico, antologia fantasy "Hyperborea 3", Midgard Editrice 2019



martedì 22 ottobre 2019

Aiko dagli occhi di Perla

di Rachele Tarpani





In un’isola sperduta nel Grande Oceano Celeste sorgeva il piccolo paesino di Jinsè, un nascosto e lussureggiante angolo di paradiso verde e bruno immerso nell’azzurro sconfinato. I suoi abitanti erano persone pacifiche e umili, dediti all’agricoltura e al culto del Sommo Drago di Perla. Egli, secondo i saggi del posto, era primo tra tutte le creature, il protettore della loro terra, l’imperatore incontrastato di dell’Oceano.
Ogni giorno veniva bruciato incenso in suo onore, canti e litanie sulla sua bontà si diffondevano per tutta la vallata, e danze di gioia e parate venivano organizzate a ogni luna piena, accompagnate da offerte di oro e pietre preziose estratti dalle miniere circostanti.
In cambio di quei doni, il Sommo Drago assicurava a Jinsè prosperità e materie prime per sopravvivere, che giungevano in abbondanza direttamente dal mare alle sue coste. Il pesce non era mai mancato, i campi erano sempre stati fertili e il cibo aveva abbondato nelle tavole di tutti.
Almeno fino ad ora.
Negli ultimi dieci anni, infatti, la presenza della divinità si era mitigata fin quasi a scomparire, il raccolto era diventato meno prospero e le risorse riuscivano appena a ricoprire il fabbisogno del villaggio.
Nessuno degli abitanti riusciva a spiegare quell’improvviso allontanamento; ma, nonostante tutto, nessuno se ne lamentava.
La vita continuava serena, non vi erano nemici né pericoli esterni. E tutto grazie al Sommo Drago che garantiva la pace di quelle terre.
La preghiera che più di tutte si sentiva riecheggiare a Jinsè in suo onore era:

“Oh Drago, oh Drago dal dorso di perla.
A te ci raccomandiamo noi tutti, tuoi figli adoranti, affinché il mare e la terra siano sempre nostri amici benevoli”.

In quel momento, quelle stesse parole venivano mormorate dalla principessa di Jinsè, Aiko Ho, rintanata come un topolino nel tempio di giada, luogo di culto principale a pochi passi dal palazzo reale. Si trovava ormai da ore prostrata davanti alla statua di creta della divinità protettrice, con gli occhi chiusi e la fronte corrugata dalla preoccupazione.
Tra meno di dodici ore, avrebbe compiuto sedici anni e suo padre, il re Zhong Ho, avrebbe iniziato a scandagliare ogni angolo dell’isola alla ricerca di un marito degno del loro regale lignaggio. E lei non gradiva una simile prospettiva.
Affatto.
Lei voleva essere libera, indipendente.
Dalla morte dell’adorata madre, era cresciuta con la voce della nonna che le narrava storie di prodi combattenti alle prese con mostri mitologici, nemici mortali e gesta eroiche da portare a termine. All’inizio, la principessa si era sentita infervorata da tutti quei racconti; poi, crescendo un po’, aveva iniziato a notare che c’era un particolare tanto costante quanto fastidioso che ricorreva in tutte quelle vicende: a finire in pericolo, puntualmente e per qualsiasi cosa, anche la più futile, era sempre la fanciulla di turno. O era vittima di qualche maleficio o sortilegio, oppure si ritrovava prigioniera di qualche sciocca imboscata.
E, altrettanto puntualmente, toccava all’eroe salvarla prima che fosse troppo tardi.
«Perché la ragazza si è comportata come una sciocca?» si lamentava ogni volta Aiko, troppo grande per passarci sopra, ma ancora troppo piccola per comprendere la complessità del mondo. «Perché non combatte per la sua libertà e non trionfa lei stessa, invece di raccomandarsi ad altri?»
E la nonna ogni volta rispondeva a quella sua lamentela con la stessa bonaria risata. «Perché nessuna di loro è te, mia preziosa perla.»
E le sfiorava il viso con la mano. «Perché nessuna è coraggiosa e battagliera come Aiko Ho, la guerriera. Tu sei padrona del tuo destino.»
La ragazza era cresciuta con l’animo prorompente di una combattente: nella sua storia era lei l’eroina, quella che si salvava da sola; mica un uomo qualsiasi venuto da chissà dove a reclamarla. Tuttavia, arrivata ormai alla soglia dei sedici anni, si era resa ben presto conto che la realtà dei fatti era molto più dura della sua immaginazione e che, alla fine dei conti, lei non era affatto una guerriera.
Era semplicemente la futura sovrana dell’isola sperduta di Jinsè, un paesino remoto disperso in chissà quale angolo di mondo, dove non succedeva mai nulla. Tutto ruotava sulle solite tradizioni ormai ossidate dal tempo: il figlio o la figlia del reale compiva sedici anni, i pretendenti si facevano avanti e uno di loro dimostrava il proprio valore, prevaricando su tutti gli altri.
I due si sposavano e generavano un erede, e la storia si ripeteva. Costantemente, ogni volta.
Sempre. Solo. Così.
«Come vorrei che qualcosa impedisse a questo destino di compiersi, almeno con me. Come vorrei non essere più una principessa destinata a un’esistenza di noia e immobilità.»
Furono quelle le ultime parole che proferì, prima di gettare una moneta nella fonte sacra e prima ancora di essere scoperta da Yun Shu, suo coetaneo e servo fidato, che la trascinò letteralmente per un orecchio a palazzo.
Se avesse prestato più attenzione agli insegnamenti dei Saggi del tempio, avrebbe ricordato che ogni desiderio, anche il più insignificante, era in grado di scatenare delle conseguenze impreviste inimmaginabili.
Il colpo di coda di un pesce si trasformava in un maremoto che si abbatteva dall’altra parte dell’oceano.
E la sua corda aveva appena sferzato contro i fluttui del mare, creando un turbinio di onde destinato a infrangere ogni cosa.

Estratto dal racconto "Aiko dagli occhi di Perla" di Rachele Tarpani, nell'antologia fantasy "Hyperborea 3" (Midgard Editrice 2019).



venerdì 18 ottobre 2019

Rinascita

di Marco Bertoli





Mi chiamo Hephaistia. In un’epoca di palazzi dalle mura bianche di marmo e i tetti gialli d’oro fui gran sacerdotessa della dea Ashtart. Adesso sono un involucro di pelle rinsecchita che aspetta.
Lo scorrere del tempo non ha più senso per me. La mancanza di significato, tuttavia, non implica che non sia consapevole delle ragnatele che il suo fluire mi ha tessuto addosso. Tutt’altro! Come i granellini di sabbia di una clessidra ho contato uno per uno i giorni seguiti a quello in cui una lancia mi perforò il cuore. Sono centodiecimilaquindici!
Oltre tre secoli sono passati da quel tiepido pomeriggio di primavera, eppure ogni istante è inciso nella mia memoria con la freschezza di un fiore appena sbocciato. Le urla improvvise di allarme all’esterno del tempio. La banda di barbari vestiti di pellicce che si rovescia dentro il luogo sacro abbattendo le guardie. Selvaggi bramosi di vendetta su quelli che definiscono ‘abomini’ perché sacrificano alla divinità le loro inutili vite. La disperazione che devasta i visi delle ancelle che corrono verso la statua gigantesca della nostra Signora. Il terrore nei loro sguardi mentre mi si stringono attorno in cerca di uno scudo alla loro verginità. Il mio avvampare purpureo di energia arcana pronta a scatenarsi.
Le folgori di luce che scaglio contro i cavernicoli ne inceneriscono più di una dozzina, ma non sono sufficienti a trattenere lo slancio del branco. Il ribollire dell’odio nei loro toraci villosi è più forte della paura d’affrontare la potenza della mia magia. Una manciata di respiri e ci sono addosso, un semicerchio di bocche sbavanti di rabbia e aliti marci.
I mostri a due gambe, però, non anelano a forme muliebri da violare: la strage è il loro unico e turpe desiderio. Il mulinare di armi con le lame di selce scheggiata m’invade gli occhi. La puzza di sangue e di viscere sparse sul pavimento lucido mi affoga le narici. I lamenti di agonia delle giovinette macellate senza pietà mi feriscono l’anima. I ruggiti bestiali di trionfo mi stordiscono le orecchie...
Poi tutte le sensazioni si cristallizzano in una trafittura alla schiena che mi strazia la carne e squarcia il cervello. Nel raccapriccio di vedere sgorgare una fonte di liquido scarlatto nel centro del petto nudo. Nell’orrore di contemplare una punta di pietra grigiastra che emerge nel solco fra i seni. Un istante prima di precipitare in un abisso intessuto di nulla raccolgo il rimasuglio di fiato rimasto nei polmoni. Appellandomi alla misericordia della dea, mormoro un incantesimo per salvarmi: “Ashtart pitye, epi mwen pral mandeaparan lanmò fini an”.
Da allora sono una mummia incartapecorita, ricoperta di polvere e distesa sopra il lastricato di un tempio in rovina. Circondata da scheletri scomposti, attendo nell’oscurità l’arrivo di un corpo femminile in cui riversare il mio spirito. Soprattutto di una mente capace non solo di accettare la mia volontà, ma anche di resistere senza impazzire alla violenza del potere sovrumano che mi pervade. Per quanto abbastanza coraggiose, o sciocche, d’avventurarsi qua dentro, infatti, nessuna delle discendenti dei miei assassini si è dimostrata meritevole di accogliermi. I loro teschi frantumati si sono aggiunti alle ossa con cui intrattengo mute conversazioni.
Questa è stata la mia condizione sospesa fino a oggi.
Poco fa ho avvertito l’avvicinarsi di una coppia di donne. Sono ancora lontane, tuttavia riesco a percepire il lavorio delle loro coscienze. Mi concentro sulle vibrazioni cerebrali per scoprire chi siano.
Una ha superato la trentina d’anni. Mi appare una figura alta e muscolosa. Il torso è inguainato in un’armatura di cuoio e lamine di metallo, il ventre e le cosce sono difese da un gonnellino di trapunta di lana. Appartiene alla rude stirpe delle Amazzoni. Non mi occorre altro per capire che non è adatta ai miei scopi: forza bruta e arti occulte non vanno d’accordo.
L’altra è poco più che adolescente. Per un momento la sofferenza che le domina i pensieri m’impedisce di studiarla più a fondo, poi è un grido di esultanza a erompere dalle mie labbra morte: è perfetta!
Mai come adesso ho pregato Ashtart con tanta intensità.



Estratto del racconto "Rinascita" di Marco Bertoli, vincitore del Premio Midgard Narrativa 2019, antologia fantasy "Hyperborea 3", Midgard Editrice 2019

midgard.it/hyperborea3.htm



sabato 12 ottobre 2019

Intervista a Roberto Lazzari

Intervista a Roberto Lazzari, autore del romanzo “Enrico Marsicano e l’armonica teoria”, edito nella Collana Narrativa della Midgard Editrice.





Buongiorno, siamo arrivati al terzo romanzo di Enrico Marsicano. Parlaci un po’ della sua trama.

Buongiorno a voi. Visto che anche questo romanzo, come i due precedenti, ha una componente gialla e poliziesca, mi permetterò di rimanere un po’ sul vago. In ogni caso, dal momento che stiamo parlando del romanzo conclusivo della pentalogia Cassiopea, è chiaro che un po’ di punti oscuri e di intricati problemi, rimasti senza risposta nei due romanzi precedenti, verranno chiariti e risolti in quest’ultima opera. Nuovi personaggi si affacceranno alla ribalta: alcuni minori, altri invece – e uno in particolare – di fondamentale importanza per la soluzione dell’enigma. In parallelo alla storia poliziesca, tuttavia, altri piani narrativi troveranno la loro finale sistemazione: il rapporto tra Enrico, Marta e l’ispettore Fioroni, ad esempio.  


A cosa alludi con l’armonica teoria del titolo?


Qui stiamo forse entrando un po’ troppo nel merito e non vorrei svelarvi elementi essenziali della trama del libro. Armonica teoria, tuttavia, al di là di un significato tecnico, che non vi illustrerò in questa sede, per non rovinarvi la sorpresa finale, ha anche un’accezione più generale, relativa a quello che è forse il concetto cardine delle tre opere già pubblicate: il principio di corrispondenza, la comune struttura costitutiva di ogni entità esistente, uomo compreso e, di conseguenza, la sublime armonia che pervade intrinsecamente l’Universo e che dovremmo preoccuparci di comprendere, realizzare e difendere.   


Quanto c’è di autobiografico nel personaggio di Enrico Marsicano e negli altri personaggi dei tuoi romanzi?


Come ho già avuto modo di affermare in altre occasioni, l’elemento autobiografico è molto presente nelle mie opere. Devo dire, però, che non mi riconosco pienamente in un determinato personaggio, così come, del resto, non esiste alcun personaggio, indipendentemente da sesso, età, intelligenza e dirittura morale, nel quale non ci sia almeno una piccola traccia di me. Tuttavia, nei miei romanzi, l’elemento autobiografico va spesso al di là dei personaggi, investendo i luoghi nei quali essi vivono e agiscono: dimore, strade, vicoli, bar, ristoranti, uffici, giardini. E luoghi dell’anima, naturalmente, non meno vividi e concreti di quelli realmente esistenti.   


Questo terzo libro di Marsicano avrà un seguito?

La domanda si presta ad almeno due interpretazioni: la vicenda fin qui narrata si svilupperà ulteriormente? Pubblicherai altri libri che parleranno di Marsicano? Anche le risposte alle domande precedenti sono molto diverse: no e si, rispettivamente. In parole povere, questo terzo libro conclude la pentalogia Cassiopea, ma siccome ogni pentalogia consta di cinque elementi, ne saranno presto pubblicati altri due: essi rappresentano il prequel della storia e narrano vicende alle quali, come molti di voi avranno notato, si fa spesso riferimento nei libri già dati alle stampe. Sono due libri molto particolari e molto diversi da quelli che avete già letto: personalmente, li trovo molto più consonanti ai temi sui quali si concentra il mio interesse e anche più vicini al mio vero stile letterario. Non perdeteveli assolutamente!

www.midgard.it/enricomarsicano_larmonicateoria.htm



mercoledì 2 ottobre 2019

Il grande tuffo

di Mira Susic





Nel pianeta blu c’è una terra lontana, fredda e glaciale, circondata da un mare profondo e ricoperta da una coltre spessa di ghiaccio e neve tutto l’anno.
Quella Terra dei Ghiacci e della Neve è la dimora dei pinguini, vestiti nei loro frac bianchi e neri.
Il bianco infinito e il blu del gelido mare non fanno paura alla colonia dei pinguini, che abita dalla notte dei tempi quella terra inospitale per gli altri esseri viventi, che popolano il pianeta Terra.
Tra la numerosa colonia dei pinguini c’è ne sta uno un po’ speciale: è un cucciolo di pinguino che ha una paura matta di tuffarsi in mare.
Il grande tuffo tocca ad ogni pinguino che calca la terra dei ghiacci eterni, con la neve che fa da padrona tutto l’anno in quelle terre bianche, circondate dal blu del mare limpido profondo. 
Ma che cos’è il grande tuffo? 
Il grande tuffo è un tuffo speciale, infatti è il primo tuffo di un pinguino nel mare.
Ogni pinguino ne va fiero ed è orgoglioso di averlo portato
a termine con successo. 
Ma il piccolo cucciolo non ne vuole
sapere di tuffarsi in acqua come gli altri pinguini, che fanno qualche passetto sul bordo del ghiaccio, abbassano la testa e poi si lanciano tra le onde con un poderoso tuffo che fa un enorme pluf nel mare.
“Al nostro cucciolo non va di fare il bagno come ogni pinguino,
che adora bagnarsi in acqua e a nuotare tra le onde mosse nel mare” si stupisce papà pinguino.
Papà pinguino e mamma pinguina sono preoccupati per la sorte del loro cucciolo in quella terra del freddo pungente, del ghiaccio eterno, della neve perenne e del mare blu scuro.
Il piccolo pinguino si ferma ancora una volta sull’orlo della scogliera ricoperta di ghiaccio e neve, abbassa la testolina e
guarda il mare color blu scuro. 
Dopo un po’ allunga la zampetta toccando con la sua punta la superficie gelida dell’acqua limpida e profonda.
“Brr, fa un freddo intenso!” trova ancora una volta una scusa il piccolo pinguino per non tuffarsi in mare come i suoi simili.
“Da che mondo è mondo non si è visto mai un pinguino che non vuole saperne di tuffarsi in mare e nuotare tra le onde come gli altri pinguini” constata sfiduciato papà pinguino.
“Ma perché ti comporti così?” chiede mamma pinguina al suo cucciolo.
Il piccino diventa rosso dalla vergogna. 
“Vorrei tanto saltare nell’acqua come tutti gli altri pinguini, ma ho una paura matta del mare profondo, perché non vedo il suo fondo” ammette candidamente il piccolo pinguino.
“Se non provi a tuffarti nel mare, non saprai mai quanto è profondo” risponde la mamma pinguina. “Nella vita ci vogliono forza e coraggio, ma anche tenacia e perseveranza per superare le paure e gli ostacoli”.
“Come fai ad avere paura se non conosci il mare ?!” esclama stupito papà pinguino.
“Beh, a volte capita che le cose che non conosciamo ci fanno paura” s’intromette nel discorso dei genitori il saggio pinguino della colonia, che ne ha viste oramai di tutti i colori. “Un po’ di allenamento sulla terra ferma prima del grande tuffo non farebbe male al piccoletto” suggerisce l’anziano pinguino che ha esperienza da vendere, avendo raggiunto una onorata e veneranda età per i pinguini.
“Per cominciare andiamo a fare una scivolata per vincere la paura” propone l’esperto pinguino al cucciolo. “Scivolata sulla pancia in discesa sulla superficie ghiacciata liscia con fermata nella neve soffice” spiega prendendo la rincorsa, buttandosi e lasciandosi poi scivolare giù sul ghiaccio liscio in discesa per la collina imbiancata.
Il piccolo pinguino non vuole essere da meno, perciò prende coraggio e si lancia giù per la superficie liscia di ghiaccio finendo dritto nella neve morbida, sano e salvo.
“Bravo! Complimenti, vedi che ce l’hai fatta!” si congratula l’anziano pinguino con il piccolo cucciolo desideroso di non sfigurare davanti all’adulto e soprattutto di non passare per un fifone e buono a nulla. In fondo i suoi amici pinguini non hanno affatto paura del mare buio, scuro e profondo.
“Non si è mai visto un pinguino che non abbia fatto il grande tuffo con bravura, disinvoltura e coraggio nella giornata clou dei cuccioli alle prime armi, perciò ce la farai anche tu, piccoletto” lo rincuora l’adulto, mentre lo accompagna in vetta ad una alta collinetta piena zeppa di neve fresca.
“Salto nel vuoto con atterraggio morbido” illustra il maestro pinguino al suo piccolo alunno con poche essenziali parole ciò che il cucciolo dovrà fare da lì a poco. “Guarda, osserva con attenzione e ripeti!” si raccomanda il pinguino, poi con un deciso balzo in avanti salta nel vuoto, vola giù per un po’ e alla fine si ferma sulla morbida coltre di neve.
“Salto nel vuoto con atterraggio finale sul morbido!” ripete con coraggio il piccolo pinguino prima di lanciarsi dalla collinetta.
Detto fatto: il cuccioletto chiude gli occhi lanciandosi nel vuoto, istintivamente sbatte le ali su e giù per mantenersi in volo, ma si ritrova dopo un po’ disteso sulla superficie soffice di un cumulo di neve fresca.
“Mica male, piccoletto! I pinguini però non volano ma nuotano nelle acque profonde del mare anche se hanno le ali” commenta soddisfatto l’esperto pinguino il salto, il volo e l’atterraggio del suo temerario alunno.

Estratto dall'opera "Il grande tuffo" di Mira Susic, Midgard Editrice 2019






venerdì 27 settembre 2019

Intervista a Giulio Volpi

Intervista a Giulio Volpi, autore del romanzo “Tempi da lupi”, edito nella Collana Narrativa della Midgard Editrice.




Buongiorno Giulio, parlaci della tua opera, scritta a quattro mani con Nardino Cesaretti, come nasce? 

Sono rimasto molto colpito dai racconti del mio amico Nardino su fatti accaduti durante la seconda guerra mondiale e di cui lui aveva già iniziato a scrivere. Abbiamo deciso, così, insieme, di costruire una storia con l’intento non di giudicare ma di cercare di comprendere come può reagire l’animo umano in determinate condizioni.


Quali sono le tematiche più importanti di questo romanzo?

La guerra fratricida, che genera odi e rancori, è senza dubbio il tema trainante della storia, ma importante sono anche il contesto sociale, la vita dura, l’ignoranza, i pregiudizi, che rendono l’animo umano arido, gretto e capace di gesti crudeli e feroci.


Come mai hai cambiato genere rispetto ai tuoi altri libri?

L’interesse per questa storia, che ha entusiasmato entrambi, mi ha solo momentaneamente allontanato dal mio modo di scrivere senza, peraltro, determinare un vero cambiamento di genere.


Progetti futuri?

Continuerò naturalmente a scrivere aggiungendo ai miei racconti un po’ di giallo, senza però abbandonare del tutto la passione per la pittura e la scultura.



sabato 21 settembre 2019

Intervista a Monica Pica

Intervista a Monica Pica, autrice del libro “Il volto perduto”, edito nella Collana Narrativa della Midgard Editrice.





 


Buongiorno Monica, parlaci della tua opera, come nasce? 

Buongiorno Fabrizio, non c’è stata una vera e propria “meditazione”: è un’opera nata in maniera impulsiva¸ quasi prepotente. Avevo intenzione di scrivere un monologo per il teatro che avesse come protagonista una donna che aveva deciso di raccontarsi.
Come ho scritto anche nell’introduzione al mio racconto, me ne stavo davanti al monitor del computer, avevo appena aperto una nuova pagina word, quando ho iniziato a scrivere senza ben sapere dove mi avrebbe portato quella scrittura. E’ come se la storia fosse sempre stata dentro di me e avesse aspettato il momento opportuno per uscire e lasciarsi raccontare.



Quali sono le tematiche più importanti del libro?

“Il volto perduto” racconta la storia di una giovane donna che viene aggredita e sfigurata in viso con acido muriatico dall’ex fidanzato. Il racconto non prende in considerazione le vicende legali connesse al fatto (l’aggressore non ha alcuno spazio nel racconto, tranne che nelle righe iniziali), ero più interessata a parlare del percorso personale e intimo della vittima nel tentativo di riacquistare un’identità, sia fisica che psicologica. Ho voluto concentrarmi sulla sua figura, quella di una donna che, anche nei momenti di maggior disperazione, non perde la determinazione nel voler fuggire da quella emarginazione auto inflitta per paura di non essere accettata dal mondo esterno. Ci tengo anche a voler dire che questo racconto non è stato ispirato dalle statistiche preoccupanti riguardanti i femminicidi e le violenze sulle donne: anche una sola donna su un milione vittima di qualunque forma di violenza è comunque inaccettabile.



Qual è il rapporto fra la scrittura e il resto della tua vita?

La scrittura è da sempre parte fondamentale della mia vita. Scrivo da sempre, da quando ero bambina, da quando sognavo di fare la giornalista. Nel corso degli anni il mio modo di scrivere è cambiato profondamente, diventando sempre più incisivo e “asciutto”, privo di fronzoli, forse anche come conseguenza del mio lavoro come ricercatrice: la scienza richiede un linguaggio sintetico e al tempo stesso esaustivo. Mi piace molto la frase di Pascal sulla difficoltà di scrivere in maniera sintetica: “Vi scrivo una lunga lettera perché non ho tempo di scriverne una breve”.



Che scrittori ti piacciono e ti ispirano?

Non ho autori o autrici preferiti, leggo di tutto, romanzi soprattutto. Adoro gli scrittori e le scrittrici dell’800 (Flaubert, le sorelle Bronte, Austen per citarne alcuni), che hanno avuto un’influenza significativa sul mio amore per la lettura, mentre il mio lavoro di ricercatrice universitaria come chimica ha fortemente influenzato il mio stile di scrittura.



Progetti futuri?

Tanti progetti, troppi, forse. Primo fra tutti scrivere un monologo teatrale tratto dal mio racconto, così come era nell’idea iniziale.
Ho iniziato, in verità, anche a scrivere un nuovo racconto. Anche in questo caso il tema ha “bussato alla mia porta” in maniera molto impulsiva e come per “Il volto perduto” non mi rimane altro che mettermi all’ascolto dei personaggi e dei loro pensieri e trascriverli sul foglio bianco.


www.midgard.it/il_volto_perduto.htm

giovedì 19 settembre 2019

Intervista a Nardino Cesaretti

Intervista a Nardino Cesaretti, autore del romanzo “Tempi da lupi”, edito nella Collana Narrativa della Midgard Editrice.





Buongiorno Nardino, parlaci della tua opera, scritta a quattro mani con Giulio Volpi, come nasce? 

Nasce dai racconti a me fatti da chi ha vissuto, nel territorio di Leonessa, i fatti cruenti durane la ritirata dei Tedeschi. Fatti culminati nell’eccidio di ben 51 civili presi a caso tra la popolazione compreso il Viceparroco del luogo.



Quali sono le tematiche più importanti di questo romanzo?

Il contesto socio culturale del periodo. L’odio accecato dalla guerra anche tra vicini e parenti. La drammaticità dei ricordi e dei rimorsi uniti ai rimpianti e ai sogni non realizzati.



Questo è il tuo primo romanzo, ma tu sei attivo nel campo della scrittura da parecchi anni. Ce ne vuoi parlare?

Scrivo da anni su una rivista locale di Leonessa “Leonessa e il suo Santo” con lo scopo di lasciare traccia alle generazioni future di quale tipo di vita e di costumi hanno coperto gli anni della mia infanzia e dell'adolescenza (gli anni 50 e 60).
Vita e costumi di un mondo contadino e montanaro intriso di religiosità, tradizioni, folclore, aneddoti e ricordi tramandati a voce. Fatti e momenti di una semplicità unica ed irripetibile. 



Progetti futuri?

Solo volontariato con l’Associazione Nazionale degli Alpini rivolto principalmente alla salvaguardia della montagna e al soccorso dei più deboli. 



www.midgard.it/tempi_dalupi.htm