venerdì 31 maggio 2019

Epigrammi di sangue

di Eleonora Federici





Come foglia

Io, pieno d’accorgimenti, andavo
in cerca della mia terra promessa.
Io, notturno, così m’incamminavo.


Sentì il suono di questa dimessa
sirena: un canto nella profonda
notte; la vita mi era sempre concessa.


Mi romba il sangue, l’anima affonda,
tremo come foglia morta, son verde
più dell’erba e il corpo sprofonda.


Il furore li prende e perde
l’anima mia il soffio, pieno di sangue
sono, il mio rosso sudore terge


la mia maglia, la bocca mia si spande
in un grido ghiacciato, la pesante
sete mi prende e cado, esangue.




Medea

Il carro alato ti porterà via,
a soli quattordici anni, piccola.
Te ne andrai dalla periferia.


Questa forza oscura mi sbriciola
come biscotto: mi scioglie le briglie
e come il sole splende. Briciola


d’amara Colchide. Così lui ti striglia
ben bene, piccola mia: amata terra
di periferia, il sangue ti spinge!


L’oscurità le muoverà una guerra:
si mescerà l’intimità col rosso.
E forse il fato sta’ nelle stelle.


Smunta da sputar il carnale osso,
presa sei stata dall’oscura forza,
piccola mia. E dire più non posso.


Ti laverai dal sangue la tua scorza,
i vestiti dallo sperma. La sera
ti sarà compagna, poiché luce smorza.


Fuggirai: il tuo carro nella nera
notte striscia come serpente. Vera,

come fiore in questa primavera.


 
Furore

-“Vorrei comprendere questo tuo furore,
figlia mia! Perché t’ha presa il ponte?
Perché non ti restituisce il fiume
impetuoso? Di te resta un corpo:
un mio di te silenzioso ricordo.
Mi sovviene il tuo candido letto


di rose: ora t’ha preso questo letto
fluviale. T’ha portata il tuo furore
e di lui ne resterà il ricordo.
Ti sei gettata giù da questo ponte,
figlia mia: mai più vedrò il tuo corpo
ingurgitato dal vorace fiume!


Lui ti prese come tremendo fiume:
tu gli fosti compagna nel suo letto,
lui ti divorò come preda il corpo.
Tu scontasti la pena del furore
suo e lui ti spinse giù da un ponte.
Non fu lui, ma ti buttò il ricordo.


Tu, eri la vittima del suo ricordo,
che ti trascinò come questo fiume
tempestoso che spazza via il ponte
e sconquassa il suo petroso letto.
Come una piena era il tuo furore,
che mangiò come tarlo il tuo corpo.


Non resta del tuo misero corpo
nulla, tu ora sei solo un ricordo.
Della morte hai visto il furore:
conosci questo impetuoso fiume,
che, tagliente, cancella il suo letto.
Figlia mia, mai ti renderà il ponte!”-


-“ Sì, lei si gettò giù da questo ponte.
Sì, vorrei piangere il  rotto corpo
suo. Lei è stata non solo di letto
mia compagna: del mio amore ricordo
avrò. Ma, come un orrido fiume
fu la sua follia e il suo furore.


Furore di un impetuoso fiume,
che nel suo letto getta il ricordo.
Su quel ponte piangerò il suo corpo.”-



Poesie tratte da "Epigrammi di sangue" di Eleonora Federici, Midgard Editrice 2019

www.midgard.it/epigrammi_disangue.htm

martedì 21 maggio 2019

Le rivolte di Amore

di Marco Canonico




Novembre 2016

Il passato [1]: Visita al reparto di psichiatria
«Mi spiace ma provo solo affetto per te».
«Dopo tutto questo tempo,dopo cinque anni, solo affetto?»
Intanto la stanza si fa buia, la testa inizia a girare forte, il cuore sembra accelerare al massimo dei battiti per poi esplodere.
«Non può essere in questo modo, è solo questione di una giornata no, non mi dire così amore, ci sto già male, non vedi?»
«Marco io non ti amo più e non ho altro modo per dirtelo, vorrei amarti ma non ci riesco. Mi sento come bloccata da qualcosa, anzi non sento proprio niente e non so cosa fare. Marco mi hai sentito? Marco?»
Intanto io già mi ero accasciato al suolo, semisvenuto per la scioccante ed inaspettata notizia.
Nel giro di poche ore mi ritrovo nel reparto di psichiatria: certo, non si va in psichiatria per essere stati mollati dalla ragazza, nonostante i cinque anni di fidanzamento, eppure ero lì.
Infatti dopo aver ricevuto quella notizia pesante come un treno e dopo essere collassato a terra, Sara, decise finalmente di chiamare mia madre e anche l’ambulanza.
I ricordi di come arrivai in ospedale sono sfumati, scoloriti.
L’unica cosa che sentivo e vedevo era il volto di Sara che pronunciava quelle fatidiche parole che mi rimbombavano nella testa sempre più forte, quasi come un mantra: «Non provo più nulla per te, mi dispiace».
Una volta arrivati al pronto soccorso mi ero un po’ ripreso anche se pallido in volto e con le lacrime agli occhi.
Insieme a me c’era mia madre che aspettava con ansia che i medici mi facessero delle visite di controllo.
Fuori dalla porta del pronto soccorso vedevo far capolino anche la testa calva di mio padre che, immediatamente avvisato del mio malore era uscito fuori dal lavoro.
Dopo una estenuante ora di attesa e dopo molte proteste da parte mia sul fatto di volermene andare da quel luogo di dolore, arrivarono i medici per farmi tutti gli accertamenti necessari: «Stai tranquillo, è stata solo ansia e un forte attacco di panico», così mi disse il dottore.
Dopo qualche altro accertamento venni dimesso dall’ospedale ma in me cresceva di secondo in secondo una furia cieca, paragonabile all’ ira di Achille per la morte di Patroclo.
Una volta saliti in macchina iniziai quasi involontariamente a dibattermi sul sedile posteriore, non riuscivo a stare fermo: la rabbia era troppo forte e troppo suadente in quel momento di dolore e allora la lasciai uscire in tutta la sua forza.
Feci fermare la macchina di papà in mezzo alla strada e come un pazzo mi lanciai fuori dall’auto in cerca di aria pura e di un qualcosa da demolire sotto le mie mani che non la smettevano di tremare: mi sentivo come un animale feroce senza catene.
Imboccata una via qualunque iniziai a correre fino a ritrovarmi in un parcheggio condominiale dove erano parcheggiate tre macchine e dove si trovavano due bidoni della spazzatura.
Non riuscivo a controllarmi e pur sapendo in una parte remota della mente di sbagliare, che non era quello il modo di reagire, iniziai a dare calci e pugni ai secchi della spazzatura che ovviamente immobili subivano la mia furia irrefrenabile.
Mio padre, che era anche lui sceso dalla macchina e mi aveva inseguito fino al parcheggio rimase a debita distanza, spaventato dalla mia rabbia che mi possedeva il corpo e la ragione.
Ad un certo punto, non pago di acciaccare quei maledetti bidoni iniziai a scalciare e a scavalcare una rete metallica che separava due appartamenti confinanti.
In quel momento mio padre intervenne e tentò con tutte le sue forze di calmarmi e riportarmi alla ragione che in quel momento era volata sulla Luna.
Cercò di bloccarmi le mani ma io lo allontanavo coi piedi fino a che  non caddi a terra per un altro malore.
Papà sempre più spaventato chiamò nuovamente l’ambulanza ma questa volta c’era una sorpresa: visto che ero uscito nemmeno due ore prima dall’ospedale e che in quel momento stavo per rifinirci dentro avrei dovuto seguirli per forza altrimenti sarebbe scattato il trattamento sanitario obbligatorio.
Dopo varie storture da parte mia decisi di seguirli con la speranza che tutto finisse là e che avrei dovuto solo fare altri controlli in ospedale; ma ovviamente non fu così.
Una volta tornato dentro i medici vollero internarmi nel reparto di psichiatria senza dire nemmeno quando ne sarei uscito e che ormai non potevo farci nulla né io né i mie genitori: è in questo modo che io iniziai la mia gita in quel di psichiatria, un luogo che non ha parole per essere definito in maniera esaustiva e dunque non sarò io a fornirle.
Di quella prima sera passata all’ospedale mi ricordo solo che ripensai così forte a Sara che la sognai di notte: lei era venuta a trovarmi nel reparto ma non aveva né un sorriso benevolo né alcun rimorso.
Mi svegliai a notte fonda con un grido.
Sei di nuovo qui, ma senza un rimorso
non sono mica un pronto soccorso.
Avanti bevi che ti farà bene
Siedi lì.

Trastullandoci il tempo è passato,
nel lentischio dei sì e dei no,
tanto è vero che l’amore è ferito
trastullandosi si allontanò.


Estratto dal volume "Le rivolte di Amore" di Marco Canonico, Midgard Editrice 2019



giovedì 16 maggio 2019

Intervista a Giampaolo Bianchini

Intervista a Giampaolo Bianchini, autore del libro “Ride e armugina / Ridi e rifletti”, edito nella Collana Poesia della Midgard Editrice.





Buongiorno, parlaci della tua nuova opera, come nasce?

Salve, direi che questa nuova opera rappresenta un po’ il seguito del mio primo libro “D tutto n po’ …e n po’ scomposto / Di tutto un po’….e un po’ scomposto”.
Sintetizza in maniera semplice, ironica, sarcastica e scherzosa storielle del vecchio mondo contadino e di paese e argomenti di piena attualità.
La logica è sempre quella di non dimenticare un segno del passato che ci ha traghettato al nostro tempo e di far riflettere sulle problematiche di oggi che rendono il “mondo trubblo e pieno de tribbli”.
Io cerco di parlarne in maniera sintetica ma incisiva, con un obiettivo e una prospettiva positiva di fiducia e di incitamento non tanto per piangersi addosso o lamentarsi, ma anzi, come presa di coscienza per reagire con forza e determinazione e capire che è ora di rendere migliore questo mondo.


Quali sono le tematiche più importanti di questo nuovo libro?

Mettere a confronto la semplicità e, se vogliamo, l’ingenuità di un tempo con la complessità, il nervosismo, la fretta e la velocità del nostro tempo.
Argomenti forti (droga, bullismo, degrado, ecc.) e frivoli (come le simpatiche storielle del mondo contadino) si rincorrono e si danno il cambio affinché la lettura sia piacevole, scorrevole, incisiva –da qui il titolo del libro “Ride e armugina/Ridi e rifletti”-
Qualcuno, come commento al mio precedente libro, dice: la scelta di impostazione a singoli racconti/poesie o flash è ottima perché lo alleggerisce e dà quasi l’idea di un collage, di un album dei fatti della vita, un racconto non avrebbe avuto lo stesso effetto.
Questo è proprio il mio obiettivo anche per questa opera.

   
Anche Ride e armugina, come la tua prima opera, è stato edito in doppia lingua, perugino e italiano. Sei soddisfatto di questa scelta?

Sì, sono molto soddisfatto di questa scelta.
Il dialetto (che poi è quello contadino) rende, a mio avviso, più simpatica e armoniosa la lettura degli argomenti trattati e poi è un patrimonio culturale che non va dimenticato.
L’italiano per una più semplice comprensione a chi il dialetto non lo conosce o lo ha dimenticato e comunque per rendere l’“opera” fruibile a tutti. 


Progetti futuri? 

Io non sono uno scrittore, mi diverto.
Questo libro, come il precedente, l’ho scritto in poco più di un mese, perché scrivere per me deve essere un piacere e un passatempo, non un impegno.
Spero di cogliere l’attimo, se si presenterà, per scrivere ancora dritto dritto quello che mi vien pensato con il mio stile che non è certo armonioso e delicato come quello di uno scrittore blasonato.





mercoledì 8 maggio 2019

Il sogno della ninfa

di Stefano Lazzari





ROMA,  706 a.C.



Con  un  sospiro  di  sollievo  e  di  pura  libertà,  sognata  forse  più  da  un  re  che  non  dai  suoi  sudditi,  Numa  Pompilio  varcò  a  passi  svelti  il  ponticello  di  legno  sul  Fiume  Sacro.  L’alba  di  una  mattina  di  piena  primavera  progrediva  rapidamente  verso  una  giornata  azzurrissima,  da  respirare  fino  alla  fine  senza  pensieri,  per  fondersi  nell’abbraccio  di  una  natura  che  si  offriva  gioiosamente  e  liberamente  agli  sguardi  di  chiunque,  contadino  o  re.  Eppure,  in  quella  mattina  radiosa  dei  primi  di  maggio,  lo  sguardo  di  Numa  Pompilio  scivolava  senza  presa  su  ogni  immagine  bella  che  la  divina  benignità  aveva  creato  per  lui  e  per  il  suo  popolo.  Sospirò  ancora,  mentre  prendeva  un  sentiero  in  leggera  salita  che  lo  avrebbe  condotto  all’apice  di  un  rilievo,  dove  aveva  fatto  erigere  una  capannuccia  di  legno:  che,  in  effetti,  sembrava  proprio  il  ricovero  di  un  qualunque  pastore… ma  lì,  fra  quei  pendii  che  dolcemente  digradavano  a  valle,  non  sentiva  davvero  il  bisogno  di  circondarsi  di  simboli  regali:  e  senza  dimenticarsi  mai  i  suoi  compiti  istituzionali,  forse  soltanto  in  quel  luogo  riusciva  ad  incontrare  i  suoi  pensieri  di  uomo  qualunque,  alleggeriti  dall’assillo  del  dover  essere,  dover  fare,  che  arcigno  insegue  il  re  ogni  giorno,  dalla  mattina  alla  sera… curiosamente,  le  sue  divagazioni  del  momento,  e  senza  un’apparente  ragione,  lo  riportarono  indietro  di  nove  anni,  al  giorno  della  sua  incoronazione.  Avvenne  in  cima  al  Campidoglio,  con  la  cerimonia  e  il  verdetto  degli  aruspici  etruschi,  che  magari  preferivano  per  davvero  un  sabino  a  un  romano,  come  primo  successore  di  Romolo;  in  ogni  caso,  accettarono  i  segni  del  cielo.  E  il  cielo,  in  direzione  di  Monte  Albano,  centro  di  culto  latino,  offrì  al  loro  sguardo  un  volo  di  uccelli:  il  volere  degli  Dèi  era  dunque  propizio,  e  così  Numa  Pompilio,  figlio  del  sabino  Pompone  della  tribù  dei  Tities,  venne  eletto  secondo  re  di  Roma,  nonché  capo  militare,  giudiziario  e  religioso.  Ispirato  da  improvviso  timore,  fu  sul  punto  di  sottrarsi,  Numa:  ma  se  l’intendimento  degli  Dèi  era  stato  chiaro,  poteva  davvero  opporsi  ad  esso,  senza  mostrarsi  empio?  Così  accettò,  pregando  la  dea  Cerere,  sua  protettrice,  di  guidarlo  in  quell’arduo  compito.  Tuttavia,  da  uomo  avveduto  non  meno  che  pio,  si  affrettò  a  rivolgere  perorazioni  anche  a  tutte  le  altre  divinità  romane,  Giove,  Marte  e  Quirino  in  primis:  dotati  di  poteri  soprannaturali sì,  ma   anche  di  istinti  molto  umani,  questo  credeva  Numa,  e  dunque  perché  rischiare  di  accendere  la  loro  avversione  trascurandoli  proprio  in  quel  transito  così  critico  della  sua  vita?  E  dunque,  il  primo  atto  istituzionale  del  suo  regno  fu  quello  di  nominare  un  sacerdote  dedicato  al  culto  del  dio  Quirino,  a  fianco  dei  due  già  esistenti  dedicati  al  culto  di  Marte  e  di  Giove, riunendoli  poi  in  un  unico  collegio  sacerdotale,  detto  dei  flamini.  Ma  forse  più  importante,  almeno   per  la  vita  quotidiana  del   popolo  di  Roma  fu  l’istituzione  del  collegio  sacerdotale  dei  Pontefici,  diretti  dal  Pontefice  Massimo,  carica  che  lo  stesso  Numa  ricoprì  per  primo  e  che  aveva  il  compito  di  vigilare  sulla  moralità  pubblica  e  privata.  Ora,  non  si  poteva  certo  dubitare  che  il  primo  a  dare  il  buon  esempio  dovesse  essere  proprio  il  re:  tra  l’altro,  in  ragione  della  sua  rettitudine,  a  Numa  Pompilio  veniva  attribuito  l’appellativo  di  Pius,  perciò  onorarlo  tutti  i  giorni  sembrava  per  chiunque,  e  a  lui  stesso  per  primo,  uno  svolgersi  naturale  e  imprescindibile,  come  l’alternarsi  del  giorno  con  la  notte.  Eppure… eppure  lo  sapeva,  il  re,  che  anche  lui  non  poteva  dirsi  senza  macchia.  Sospirò  una  terza  volta,  mentre  ormai  pochi  passi  lo  dividevano dalla  sua  capannuccia  di  legno.  Stava  per  incontrare  il  suo  consigliere  sulle  leggi  religiose  e  sulle  riforme,  che  però  non  era  un  senatore  o  un  uomo  di  corte,  ma  una  ninfa  Camena,  Egeria.  Non  interamente  umana,  ma  neanche  interamente  divina,  Egeria  non  tardò  ad  aprire  una  breccia  irreparabile  nella  mente  e  nei  sensi  del  re,  guidandone  infallibilmente  i  migliori  slanci.  Forse,  ed  era  comunque  un’ipotesi  azzardata,  Numa  Pompilio  avrebbe  potuto  un  giorno  fare  a  meno  di  quel  fascino,  traducibile  soltanto  dal  dizionario  delle  emozioni;  ma  non  anche  della  sua  misteriosa  saggezza,  che  quasi  sembrava  sconfinare  nel  vaticinio.  Come  farei  a  regnare  senza  di  lei? pensò,  entrando  nella  capannuccia.  Ma  soprattutto,  come  farei  a  vivere  senza  di  lei? si  chiese,  serrando  le  mascelle.  Sbuffò,  non  era  certo  venuto  fin    per  caricarsi  di  altri  e  forse  più  tormentosi  assilli,  ma  soltanto  per  godersi  quei  momenti  che  di  una  Bellezza  inestimabile  gli  avrebbero  colmato  l’anima  e  i  sensi… certo,  alla  sua  soave  consigliera  lui  doveva  lasciare  qualcosa  di  molto  importante,  ma in  fondo  anche  quel  dovere  verso  di  lei  altro  non  rappresentava  se  non  un  piacere  dalle  forme  raffinate.   E  con  questo  bel  pensiero  in  testa,   uscì dalla  capannuccia  per  rimirare,    a  pochi  passi  dall’ingresso,  il  laghetto  a  forma  di  conchiglia  nel  quale,  spesso,  Egeria  prendeva  il bagno  insieme  all’altra  ninfa  Camena,  Carmenta.  Sogguardò  il  sole  di  maggio,  ora  decisamente  più  alto  proprio di  fronte  a  lui.  Egeria  non  avrebbe  tardato  ad  arrivare.  

Estratto da "Il sogno della ninfa e altri racconti" di Stefano Lazzari, Midgard Editrice 2019