martedì 27 agosto 2019

L'ultimo scaldo

di Fabrizio Bandini




Lo scaldo tese le orecchie, mise la mano sull’elsa della sua spada, e si alzò in piedi.
Una figura si avvicinava nel buio della notte.
Chi era?
Un uomo?
Un’animale feroce?
Uno spettro della notte?
Il guerriero osservò le potenti Rune incise sulla spada e le invocò.
Se c’era da combattere avrebbe combattuto.
Se c’era da morire sarebbe morto.
E quella notte stessa avrebbe varcato le porte del Valhöll, avrebbe rivisto re Sven e i suoi amici.
Forse Oðinn gli avrebbe permesso di suonare addirittura la sua arpa e di cantare per lui e per gli Aesir.
La figura si avvicinò lentamente.
Era un uomo.
Un uomo con ampio mantello, un grande cappello e un nodoso bastone da viandante.
Si avvicinò al cavallo e lo accarezzò dolcemente.
L’animale nitrì, di gioia.
Poi l’uomo si avvicinò al fuoco.
Lo scaldo poté vederlo da vicino.
Era un vecchio, dalla lunga barba grigia, dal volto segnato dal tempo, orbo da un occhio, mentre l’altro, azzurro, profondo, lo fissò con forza e lo scandagliò sin nelle viscere.
Lo scaldo sentì un brivido scorrergli lungo la schiena.
Chi era costui?
Sembrava che lo conoscesse da sempre.
Era solo un vecchio o era Lui?
Il Signore degli Aesir.
-Chi sei?- gli chiese, con voce tremante.
Il vecchio gli sorrise, benevolo.
-Sono un viandante di queste lande, mi chiamano Hárbarðr.
Il suo sorriso gli ispirava gioia, calore umano, fiducia, benché il suo occhio continuava a fiammeggiare.
-Cosa cerchi in queste lande desolate, in questa notte da lupi?- gli chiese ancora, con una punta di sospetto.
-Sono un sacerdote dei santi Aesir- disse costui, sorridendogli enigmatico. -I cristiani mi cercano e mi vogliono uccidere. Desidero mettermi al riparo verso Nord.
Lo scaldo gli sorrise e allontanò la mano dalla sua spada.
-Anche tu scappi dai cristiani allora!
-Sì proprio così- sorrise ancora il vecchio. -Se mi mettono le mani addosso mi impiccheranno ad un albero. Chiedo solo asilo qui, attorno al tuo bel fuoco, in questa notte gelida.
-Vieni, accomodati- gli disse l’altro, facendogli il gesto di sedersi attorno al fuoco con lui.
Il vecchio viandante si accomodò.
Lui e lo scaldo si misero a parlare, come vecchi amici, sorseggiando la buona birra che portava dietro l’uomo in una sacca.
Hárbarðr sembrò gradire molto e iniziò a raccontare allo scaldo antiche storie, la storia dei Primordi, la storia della creazione di Midgard, la storia della sua stirpe, la stirpe bianca.
Era un uomo di grande saggezza.
Versato nella conoscenza della Tradizione e delle possenti Rune.
Lo scaldo sentì improvvisamente una grande gioia e un grande calore.
Gli sembrava che il vento gelido e la fredda notte fossero sparite.
Gli sembrava di stare in una grande sala di un re, con corni di birra, risate di gioia, il calore del fuoco.
Poi sentì una grande stanchezza addosso e cominciò ad assopirsi.
Il vecchio, dal sorriso enigmatico e dall’occhio fiammeggiante, gli stava raccontando ora della sua vita.
Di suo padre, di sua madre, di quando era nato, di come era cresciuto, di quanto aveva combattuto e di come era fuggito da Uppsala, in fiamme.
Come faceva a sapere quelle cose?
Si chiese lo scaldo.
Com’era possibile?
Si voleva destare e domandarglielo.
Ma la stanchezza era ormai troppa.
Gli si chiusero gli occhi e il volto del vecchio sparì davanti a lui.
Udì solo le sue ultime parole che dicevano: -I nostri nemici hanno vinto per ora. Il tempo del Lupo è arrivato. Anche io mi devo incamminare verso Nord e devo far perdere le mie tracce. Ma non temere, non durerà per sempre. Tu sei un uomo valoroso, tu sei un grande scaldo, non è ancora tempo che tu mi raggiunga nella Grande Sala. Canta per me. Canta per gli Aesir. Canta per la tua stirpe!

Estratto dal racconto "L'ultimo scaldo" in "Saghe del tempo antico", Fabrizio Bandini, Midgard Editrice (2019).










martedì 20 agosto 2019

Lisola che non c'era

di Virio Cau





Mancavo da quasi vent'anni dal mio Paese, e la telefonata del mio amico Rinaldo, che a dire il vero mi era risultata alquanto strana, mi aveva indotto alla decisione di prendermi un anno di aspettativa sia dall'Università nella quale insegnavo, sia dall'Istituto di Ricerche scientifiche controllato dal Governo all'interno del quale dirigevo un importante quanto segreto programma di esperimenti su materiali e propulsori.
Rinaldo era perfettamente al corrente del lavoro che svolgevo, dato che eravamo stati compagni di studi a Pisa per i primi anni di ingegneria. Io avevo lasciato quasi subito l'Italia per proseguire la mia formazione negli Stati Uniti, mentre lui si era accontentato di una semplice laurea in ingegneria meccanica, che peraltro non utilizzava neppure, se non per esercitare un minimo di competenza nei riguardi delle numerose fabbriche metalmeccaniche di cui la sua famiglia era proprietaria.
Eravamo però rimasti in contatto, e quindi conosceva perfettamente come si era svolta la mia carriera, quali erano le mie competenze, e come gli sarei potuto essere utile nel caso avesse avuto bisogno. C'è da dire che Rinaldo viveva di rendita. La sua famiglia, ricchissima, oltre alle fabbriche a cui ho già accennato, possedeva anche numerosi immobili e forse, ma non sono sicuro, anche qualche albergo nei luoghi di vacanza più esclusivi. Ma Rinaldo non era il tipico rampollo miliardario che si godeva la vita in giro per il mondo frequentando il jet-set internazionale.
Era un amante della pace e della natura, e si era riservato di svolgere i pochi impegni che gli derivavano dall'amministrazione delle sue fortune, vivendo in una gigantesca tenuta che aveva acquistato in Sardegna, centinaia di ettari di bosco, sughereti ed olivi che circondavano una bella villa, neanche troppo lussuosa, ma completa di tutte le comodità necessarie per continuare ad essere comunque collegato al resto del mondo.
Ma come mai la telefonata del mio amico mi aveva fatto prendere la decisione di interrompere le mie attività per tornare dopo tanti anni alla mia terra natale? Non è facile da spiegare. Noi due ci sentivamo spesso, e tante volte Rinaldo era venuto a trovarmi in America, e tra noi due posso dire che si era creata un'intesa profonda che ci permetteva di captare reciprocamente i pensieri e le sensazioni. Infatti non furono le parole o l'argomento della telefonata a farmi prendere quella decisione. Fu quello che sentivo fra le righe, qualcosa di sottinteso che avevo intuito non volesse dirmi per telefono. Altre volte mi aveva chiesto di tornare, almeno in vacanza, ma questa volta non si trattava di un vero e proprio invito: sentivo che c'era sotto qualcosa, e fu quel “qualcosa” che mi indusse a prendere la decisione.
«Caro amico – dissi a conclusione di quella telefonata – dammi il tempo di risolvere alcuni problemi burocratici, e sarò lieto di venire a trovarti!».
A dire il vero non erano tantissime le cose che avrei dovuto sbrigare. La mia esistenza si svolgeva in maniera quasi monotona, alternandosi tra l’Istituto presso il quale svolgevo le mie ricerche ed i miei studenti.
La prima cosa che feci fu proprio di interrompere le lezioni, e adducendo la scusa che ero costretto a questa scelta da non meglio identificati motivi personali, chiesi che mi venisse concesso un anno sabatico e la cosa finì lì.
Poi dovetti affrontare il mio capo per poter interrompere il mio lavoro all’Istituto.
Non avrei mai creduto che sarebbe stato così facile, perché il capo mi concesse quasi subito, senza alcuna obiezione, il permesso di raggiungere la mia famiglia, in Italia, da dove ormai mancavo da tantissimi anni.
Incontrai i miei collaboratori più stretti e li istruii su alcune faccende di cui già ci stavamo occupando, ma sapevo bene che non ce ne sarebbe stato bisogno, dato che mi fidavo ciecamente della loro competenza e professionalità. Ma mi serviva per poterli salutare ed abbracciare prima del distacco.
Non avevo nessun’altra faccenda da sbrigare, e come ebbi i biglietti partii, accompagnato da una leggera sensazione di angoscia.

Estratto dal romanzo "L'isola che non c'era" di Virio Cau, Midgard Editrice 2019


sabato 10 agosto 2019

Nata diversa

di Elisabetta Trottini




Una figura si aggirava sospettosa per i corridoi. 
Varcò la porta del laboratorio con il cuore in gola facendo attenzione a non emettere nessun suono sospetto. 
Di giorno, quando lavorava lì dentro, tutto appariva diverso, regolare, ma in quel momento sembrava che ogni oggetto lo giudicasse e lo condannasse. 
Perché lui stava per compiere qualcosa che era contro le Regole, contro tutto quello per cui lavorava. 
Come avrebbero reagito le persone che conosceva? 
I suoi colleghi e i suoi superiori? 
Tutti lo avrebbero rinchiuso a vita perché “le sagge decisioni della Società non si possono discutere”, “perché questa permette a tutti una vita serena e senza problemi”, come dicevano tutti. 
Ma qual era il vero prezzo da pagare per quel benessere? 
Quel prezzo lui lo sapeva bene. 
In mente aveva solo lo scopo di cambiare la storia e la vita della futura generazione. 
Era giusto? 
Era sbagliato? 
Erano domande alle quali troppe volte non aveva trovato risposta. Queste gli tornavano in mente ogni minuto da quando aveva preso quella decisione, ma ormai non c’era più tempo per chiederselo. Aveva fatto la sua scelta e doveva andare fino in fondo. 
Sapeva quali erano i segreti più bui della Società e non voleva che altri soffrissero, di certo non quei bambini innocenti che sarebbero nati in quell’abominio. 
Non poteva permettersi di restare indifferente, doveva cambiare le cose, voleva cambiarle per la salvezza di quei piccini che ancora non erano altro che una sequenza di dati in un macchinario, che permetteva la combinazione tra ovulo e spermatozoo. 
Ma per lui avevano già un volto e un nome. 
Sarebbero diventati figli e figlie delle persone con cui trascorreva la giornata, dei suoi vicini o dei suoi conoscenti. 
Voleva un luogo migliore per loro, voleva essere lui a cambiare anche solo un punto in quel destino che quei bambini avevano davanti a loro, già tracciato da altri. 
Si apprestò ad arrivare al macchinario e infine lo guardò in tutta la sua brutalità. 
Non sapeva come agire, pensava che una volta lì tutto si sarebbe rivelato facile, che un’ispirazione o un’illuminazione gli avrebbero guidato la mano tremante. 
Ma la verità era un’altra: non c’era stata nessuna rivelazione o illuminazione, i suoi dubbi erano rimasti tali e la paura di combinare qualche disastro aumentava ogni secondo. 
Se avesse distrutto delle vite? 
Se le avesse condannate al Passaggio? 
Come avrebbe fatto a convivere con quella colpa? 
Ma, se si fosse ritirato, come avrebbe vissuto? 
Sapeva di avere la possibilità di effettuare quel cambiamento e sprecarla sarebbe stato da sciocchi. 
In entrambi i casi le conseguenze non poteva prevederle, soprattutto su se stesso. 
Avrebbe sopportato quel peso? 
Quella dannazione? 
E per tutta la vita? 
Improvvisamente un rumore lo destò dai suoi dubbi. 
Passi. 
Sentiva dei passi provenire verso di lui. 
Probabilmente qualche addetto a controllare la procedura. 
Doveva inventarsi al più presto qualcosa altrimenti tutti i suoi buoni propositi sarebbero andati in fumo. 
Lo doveva a coloro che amava. 
Lo doveva al suo futuro. 
Guardò il macchinario di fronte a sé, non era particolarmente difficile digitare un errore di sistema visto che lavorava lì. 
Ma quel gesto gli costava, ne sentiva la pesantezza: stava ingannando la Società, non solo una macchina. 
Non aveva mai pensato che un gesto potesse pesare così tanto sulla sua coscienza. Silenzioso come era arrivato, si dileguò velocemente sperando solo di non aver rovinato così tante vite. 
Per almeno due mesi però poteva stare tranquillo, non si sarebbe notato alcun cambiamento e la macchina non avrebbe rivelato errori. 
Forse non li avrebbe trovati mai, forse aveva solo perso tempo. 
O forse sarebbe cambiato tutto. 
Forse avrebbe permesso a tanti bambini di vivere liberi dalle oppressioni della Società, forse era l’inizio del cambiamento. 
Una volta uscito fece un respiro profondo e si mise a pensare: lì dentro lui non c’era mai stato, per nessuno. 
Doveva solo convincersi.


Estratto dall'ebook "Nata diversa / La fuga" di Elisabetta Trottini, Midgard Editrice 2018


martedì 6 agosto 2019

Antares

di Giulio Volpi




Anche quell’estate era stata particolarmente calda e il fiume aveva rappresentato come ogni anno il ritrovo ideale per gran parte della gioventù di Contea.
La zona dominata dal grande scoglio, ribattezzata Sasso Beach, con la cascatella ed il laghetto sottostante, era da sempre la meta preferita dai ragazzi che rimanevano in città. Il tratto più a valle, invece, dove l’acqua scorreva lenta ed il letto si allargava a formare una larga ansa, era frequentato prevalentemente dai pescatori che si appostavano con le canne lungo le sponde. Alcuni entravano anche in acqua con gli stivali alti, mentre altri si spingevano nel mezzo del fiume con la barca.  
Di là, sull’altra sponda, dominava il verde intenso delle piantagioni di mais che ricoprivano gran parte della pianura arrivando quasi fin sotto la montagna, dove iniziava il bosco. Le turbine succhiavano di continuo dal fiume per irrigare i campi, ma l’acqua non era mancata quasi mai in quella valle, e anche quell’anno le abbondanti piogge invernali e la neve caduta sui monti avevano contribuito ad alimentarlo.
I quattro amici continuavano a ritrovarsi intorno al grande scoglio. Enzo e Maurizio erano ancora liberi dagli impegni universitari e Toni lasciava la tipografia quasi tutti i pomeriggi a suo fratello Paolo che restava a controllare la stampa e chiudeva poi il laboratorio. Più tardi li raggiungeva anche Nino, nonostante il lavoro all’officina lo impegnasse molto. 
Si tuffavano come consuetudine dal punto più alto, nuotavano a lungo, poi si sedevano sull’argine a commentare gli eventi di quell’eccezionale estate, tenendosi però a distanza dagli ultimi frequentatori del luogo.
Nessuno infatti doveva sospettare quanto era successo poco tempo prima a pochi chilometri di distanza.
I quattro si incontravano poi quasi tutte le sere al barrino della stazione e anche qui, dopo una partita a biliardino e qualche battuta di sport con Marcello, il barista, si sedevano davanti a una bottiglia di birra e riprendevano gli stessi argomenti: primo fra tutti il ritorno di Athyna sulla Terra.
Era tornata da Hoxbrado, quel lontano pianeta della nostra stessa galassia, per conoscere meglio la Terra e studiare il comportamento dei suoi abitanti. Come l’anno precedente la navicella di forma ovale si era posata al margine di quella radura in cima a bosco, appena sotto la montagna ed era entrata di nuovo in contatto con Enzo attraverso il computer. Nascosta tra due grossi massi ed un folto gruppo di pini era praticamente invisibile, grazie anche ad una sofisticata tecnologia.
Stavolta però Athyna non era venuta da sola. Con lei c’era Lidhlo, un vecchio compagno di studi nei confronti del quale, ricambiata, aveva riscoperto un sentimento particolare. Ad Hoxbrado, dove la vita era caratterizzata da un’attività frenetica volta a risolvere i problemi esistenziali del pianeta, coltivare rapporti affettivi era diventato quasi impossibile, tanto che questi erano stati quasi del tutto e da tempo abbandonati e dimenticati.
Nel precedente viaggio sulla Terra, grazie al contatto con Enzo, Athyna aveva avvertito questa mancanza e, una volta rientrata, aveva sentito il desiderio di riallacciare i rapporti con questo compagno di gioventù, scoprendo così il piacere di stare insieme a lui. Ritrovandosi poi colleghi di lavoro i due avevano avuto l’opportunità di svolgere insieme questa seconda missione.
L’emozione per il suo ritorno, oltre ai quattro amici e Paolo, fratello di Toni, aveva coinvolto anche Don Lino e Beppe, lo scultore: tutti avevano potuto conoscerla in un collegamento via computer organizzato appositamente da lei e da Enzo. 
Si era poi verificata una circostanza in cui l’intervento di Athyna era stato determinante per fare uscire Toni dallo stato di coma in cui era venuto a trovarsi, a causa di un incidente nel quale era rimasto coinvolto per soccorrere Enzo, aggredito da due motociclisti.
I ragazzi parlavano a lungo anche di questo cercando di comprendere i motivi di quell’aggressione e quale collegamento poteva esserci con l’altra, avvenuta l’anno prima nei confronti di Toni.
In quell’occasione, con l’aiuto dello zio di Maurizio, ispettore di polizia, e la collaborazione di Beppe, i responsabili erano stati individuati ed arrestati in una villa nelle vicinanze di Contea.
Naturalmente i ragazzi avevano dei sospetti. Lo stesso ispettore Sansoni metteva in relazione questi fatti con l’attività di protesta dei ragazzi nei confronti dell’azione inquinante della troppo vicina zona industriale, con particolare riferimento al cementificio e alla discarica di là dal fiume. La manifestazione che avevano promosso l’anno precedente e che aveva visto una larghissima partecipazione degli abitanti della zona, aveva sicuramente disturbato grossi interessi economici probabilmente poco puliti.
Anche la morte di Fabio, quel ragazzo affogato al fiume, aveva suscitato l’interesse dei ragazzi i quali avevano segnalato i loro sospetti al solito poliziotto, stimolando la riapertura del caso. In seguito le indagini aveva portato alla scoperta che non si era trattato di morte accidentale, ma di omicidio.
Erano pertanto molto preoccupati: non avrebbero mai immaginato che la loro città, all’apparenza così tranquilla, nascondesse queste brutte realtà.
Superata la metà di agosto, i primi sporadici temporali pomeridiani annunciavano la fine ormai vicina della stagione estiva ed i quattro amici cominciavano già a pensare alla ripresa dei loro impegni di lavoro o di studio.
Quest’anno però, dopo la festa del Patrono che ricorreva a fine mese, ci sarebbe stata ancora un’occasione per far festa: le nozze dell’amico Beppe, lo scultore, che dopo un lungo periodo di solitudine aveva ritrovato l’amore. 

Estratto dal romanzo "Antares" di Giulio Volpi, Midgard Editrice 2018




giovedì 1 agosto 2019

Intervista a Ramona Saperdi

Intervista a Ramona Saperdi, autrice del racconto “Diamond. Magia e incanto”, terzo classificato al Premio Midgard Narrativa 2019, edito nell’antologia fantasy “Hyperborea 3”, nella Collana Narrativa della Midgard Editrice.





Buongiorno, parlaci del tuo racconto, come nasce?
Buongiorno!
Diamond. Magia e incanto è un racconto che nasce da una riflessione sulla vita. I protagonisti della storia, fate ed elfi, sono infatti mortali esattamente come gli uomini. Questo aspetto si discosta molto dalla tradizione fantasy che li ha sempre visti creature immortali. Il racconto riflette sugli attimi della vita, la loro sfuggevole bellezza e la loro rara meraviglia. I protagonisti vivono la condizione di mortalità come fosse un dono, un prezioso privilegio.

Rispetto al racconto “Sotto il segno della Luna”, edito nella prima antologia “Hyperborea” hai cambiato genere. Questo racconto è una mescolanza fra fantasy classico e urban fantasy. Come mai?
Credo sia importante per uno scrittore non fossilizzarsi solo su un genere, è importante sperimentare per crescere e capire le proprie capacità o i propri limiti. Secondo me il fantasy è un genere in cui si può spaziare e mi permette di avere dinamicità durante la stesura di un racconto e questo per me è molto importante. Nel mio caso direi che è andata bene, dato che il racconto è piaciuto e mi sta dando molte soddisfazioni.

I personaggi di “Diamond” sono frutto della tua fantasia o ti sei ispirata a qualche fonte letteraria o filmica?
Per i protagonisti mi sono ispirata al fantasy classico, tra le mie letture preferite infatti c’è “Il Signore degli anelli”, ma per il resto è tutto frutto della mia fantasia, infatti come ho già spiegato i miei protagonisti hanno una condizione diversa rispetto a come siamo abituati a vederli: sono mortali.
Quando inizio a scrivere un racconto c’è sempre qualcosa o qualcuno a cui mi ispiro, poi credo sia importante far viaggiare la fantasia perché è così che si crea un’opera unica e nuova.

Progetti futuri?
Di progetti ne ho sempre molti soprattutto letterari. Ho iniziato a lavorare su un racconto nuovo da pochi giorni, inoltre mi piacerebbe scrivere un romanzo e sto riflettendo su qualche idea da portare avanti.
Continuo sempre a scrivere poesie e spero nel 2020 di vedere pubblicata questa nuova raccolta poetica.