“Correte, sacchi di letame,
correte!” incitò Raskik gridando ai suoi amici, mentre correvano a rotta di
collo verso la porta della città.
Nell’aria si poteva udire il
corno della vigilanza suonare, chiaro ed inequivocabile segnale per le guardie
di bloccare ogni uscita della città.
I tre poveretti affamati,
stanchi e sporchi correvano zoppicando, a volte inciampando, cadendo e
rialzandosi, lasciandosi dietro una scia puzzolente di fogna.
Non erano molto distanti
dalla porta che dava accesso alle campagne circostanti, ma arrivare a
destinazione era comunque un’impresa. Carri di mercanti di ritorno dopo una
dura giornata di lavoro, trainati da grosse bestie pelose, creature mastodontiche
come i Troll, intralciavano il passaggio. La calca era tale da costringere il
trio a passare per un vicolo dove incontrarono qualche ratto scorazzare tra la
sporcizia che era un po’ ovunque.
“Siamo scesi laggiù e
niente: ora qui in superficie ce ne sono a volontà?!” disse Azag.
“Vuoi forse fermarti a
catturarne qualcuno?” lo rimbeccò il Goblin.
“Sono quasi tentato di
farlo…” disse il giovane ansimante per la corsa.
“Fai pure, ma consideralo il
tuo ultimo pasto!”
“Cosa succedere se noi
catturare sorci adesso?” chiese Spurgo.
“Succede che perdiamo tempo,
ci catturano e poi ci uccidono…” rispose Raskik.
Rimasero tutti muti.
L’estremità opposta del
canale si affacciava su un’altra via quasi deserta. Usciti dal vicolo con la
guida di Raskik, si precipitarono nella direzione designata senza incontrare
ostacoli. Dopo aver trottato per circa due minuti svoltarono l’angolo e si
ritrovarono in un ennesima viuzza che conduceva alla grande porta Nord. Ma era
troppo tardi perché era già stata sprangata poco prima del loro arrivo.
Azag cadde in ginocchio
rassegnato mentre Raskik e Spurgo si strappavano i capelli. Era solo questione
di tempo, le pattuglie reali li avrebbero intercettati e fatti a pezzi.
“Deve esserci un’altra via
di fuga.” gridò il Goblin. “Dopo tutto quello che abbiamo passato, non può
finire così!” E come una saetta si fece largo a furia di spintoni tra la
bizzarra folla che ricambiò con insulti e calci.
Arrivato alla porta,
cominciò a tirare l’anello di ferro sperando di riuscire a spostarla quel tanto
che bastava per passare.
Ma qualcuno gridò: “Idiota!
La porta è serrata, non lo vedi?”
Raskik alzò di scatto la
testa e vide un enorme trave, sorretta da due possenti grappe. Nemmeno Spurgo
sarebbe riuscito a sollevarla con tutta la sua forza! Poi il giovane Goblin
notò le feritoie ai lati dei cardini dove la trave, oliata abbondantemente,
veniva fatta scorrere.
Azag si era fatto largo tra
la folla e raggiunse l’amico che era intento a spostare l’enorme pezzo di legno
nella feritoia e tanta era l’apprensione che non badò nemmeno al dolore causato
da alcune schegge gli si conficcavano sotto le unghie.
Correndo in suo soccorso, il
giovane Orco si unì nella disperata opera, ma invano. Il blocco era
perfettamente incastrato tra le due feritoie ed era impossibile smuoverlo.
“Questa volta siamo davvero
fregati!” saettò Raskik.
“Che cosa facciamo ora?!”
urlò Azag impaurito.
Tutto sembrava perduto,
allorquando un rumore bestiale, un intenso grido giunse dalla folla, un grido
pungente, da pelle d’oca. La gente spaventata si disperse…
Spurgo stava caricando come
una mandria impazzita e mentre la terra tremò, nella foga assunse una posizione
da sfondamento aerodinamica.
A contatto con quella immane
spallata, il legno del portone esplose in un boato secco frantumando in due
tronconi le travi, e le graffe schizzarono via come proiettili precipitando
sulla folla sempre più sconcertata. L’urto fu talmente potente da abbattere le
ante del portone che ricaddero verso l’esterno della città mentre i sudditi di
sua maestà fuggivano in tutte le direzioni urlando oscenamente.
Ora avevano una via di fuga
e senza indugio fuggirono verso i campi.
Frecce gli sibilarono a
fianco, scoccate da una guardia di Ghrodigad mentre alcuni paesani li
inseguivano per spellarli vivi.
Più oltre c’era la
boscaglia, lì sarebbero stati al sicuro. Nessuno si sarebbe addentrato nella
macchia con il buio, ma la paura fa novanta e i tre vi penetrarono correndo,
travolgendo siepi e arbusti, inciampando e a volte cadendo.
Infine, quando il vociare si
smorzò, poterono rallentare e fermarsi su di un piccolo spiazzo coperto di
foglie da dove si intravedeva una porzione di cielo.
Estratto da "I Verdognoli da Gubar - La terra non è piatta” di Francesco Dozzini, Midgard Editrice 2018
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