martedì 21 agosto 2018

Solamente un colpo di spada

di Gianantonio Nuvolone






La vera padrona di Beishtan era una nebbia violacea e bassa che si depositava senza requie in polvere sottile sui cenci indossati dagli uomini, d’estate lasciava filtrare niente più che un tenue calore utile alla coltivazione di amari cardi e erbe coriacee bolliti in tini resi sempre più pesanti dai depositi induriti della densa brodaglia.
Al suo arrivo l’arcano nembo invase per prima la biblioteca dell’Ordine di Zervan all’interno del quartiere sacro e si mise a scompaginare tomi e mappe vergati su membrane di animali antidiluviani e nel volgere di tempo che all’uomo necessita per trarre fiato dai polmoni e maledire gli Arconti di Seth, ridussero persino le scaffalature a pulviscolo leggero che confuso alle correnti luttuose invase ogni luogo della città.
Fu in quel giorno che i Sette Saggi dell’Ordine di Zervan sparirono, sopraffatti forse da un demone che intravidero nel putiferio venuto da chissà dove o semplicemente perché le loro vite erano legate in modo fatale a quegli antichi testi; da allora nessun’altro nome venne scolpito nel marmo delle colonne all’ingresso del tempio di Zervan che nell’abbandono cadde in rovina, come se il nemico senza armi di forgia si fosse abbattuto con furia maggiore sulla storia e il passato di Beishtan piuttosto che sui suoi abitanti che ben presto conobbero le regole dell’impotenza e della disperazione.
Solo la cittadella di re Suil-jat riuscì a sfuggire alla contaminazione, cosicché le vetrate delle ogive continuarono a accogliere la luce del sole e gli umori della notte e a riflettere la luce delle torce fisse alle pareti o impugnate dai servitori lungo i corridoi.
Ma la nebbia mortale assediava la fortezza, dato che già dopo pochi metri il sentiero che portava a valle scompariva nel miasma purpureo appena dopo la prima diversione attorno allo sperone roccioso e né sudditi né mercanti da paesi lontani raggiungevano più il castello, né la mente del sovrano d’altronde aveva mai potuto escogitare nulla per risollevare le sorti del regno.
Per tutto questi motivi la reggia poteva apparire agli occhi dell’immaginazione come un lussuoso diadema all’estremità di un corpo occultato in un livido sudario.
Re Suil-jat trascorreva le sue giornate attorniato da una corte di anziani dignitari in vesti lacere, da cantori che alternavano distici esaltanti le glorie trascorse a nuove composizioni prive però della melodia e del fervore che spinge gli uomini a nuove imprese, i buffoni si dipingevano di colori sgargianti il volto scavato e le dame sfiorite giostravano la danza di ore interminabili con cavalieri anchilosati, tra corazzieri inerti adagiati a un giaciglio di ragnatele lungo l’emiciclo parietale del salone delle feste.
Re Suil-jat languiva annoiato con volto spettrale e frequentemente, a guisa di un folle, lo si poteva sorprendere a mormorare a un quadro che ritraeva una dama, poggiato sullo scranno riservato alla consorte regale.
Un giorno nel tepore dell’alba risuonò la tromba della sentinella dalla torretta più elevata e subito ogni uomo nel castello rimase stupefatto perché nessuna ricorrenza dinastica era prevista.
Re Suil-jat comparve nella sala del trono dalle sue stanze, sostenendo con una mano la lunga veste regale per non farla strascicare sul pavimento e raggiunta la pedana si erse autorevole davanti al trono, rinvigorito nell’udire il fausto annuncio.
L’altro richiamo rimasto inespresso – entrambe nelle loro implicazioni noti soltanto al sovrano e alla sentinella –, quello catastrofico, avrebbe significato il lievitare della peste e la fine imminente.
Venne gettata da due soldati una corda sullo spalto che sbarrava il sentiero e bastarono pochi istanti per accorgersi che all’altro capo della fune si stava issando un corpo dai muscoli energici, provvisto di un’agilità portentosa. 
Una volta accolto con deferenza il viandante, i gendarmi lo condussero per i corridoi e le scalinate di pietra sino alla sala del trono.
Il ragazzo vestiva una leggera tunica di panno annodata ai fianchi da una fusciacca brunastra, gli arti robusti e ben formati erano nudi, polsiere e cavigliere di cuoio rinsaldavano le giunture, una corta daga stava nel fodero avvinto alla cintura portata a sghimbescio, i capelli lunghi sino agli omeri e sottili rammemoravano i crini di un destriero al vento, lo sguardo fiero e vigile lasciava trasparire fiducia nella lealtà e nell’ospitalità che gli sarebbero state riservate.
Attraversarono un paio di stanze vastissime con i pavimenti cosparsi di foglie secche e marcite in prossimità dei finestroni, povere cataste di arredi smembrati a uso dei caminetti giacevano qua e là, mentre la maggior parte dei quadri affissi ai muri erano velati di stoffe di colore tendente al nerastro e al grigio a motivo del tipo di tintura dei tini o per l’accumularsi su di essi della polvere.
Suil-jat appena scorto l’ospite con un gesto diede ordine agli inservienti di portare acqua fresca dalle cantine e un vassoio di carne salata e distendendo la sua destra invitò il pubblico a accogliere il nuovo venuto con un inchino.
Il giovane fece atto di ossequio al trono e iniziando a rifocillarsi ringraziò con un lampo sincero dagli occhi cerulei.
“Io sono Suil-jat, sovrano del regno di Beishtan che un tempo si estendeva dai monti Kert-gununk per l’intera estensione delle immense e rigogliose pianure di Gheras, sino alle foreste tenebrose sulle due sponde del fiume Apser e a rintuzzare le tribù indocili e bestiali delle steppe malariche di Vral, unico vivente del lignaggio di Dev-jat, estremo testimone dell’Ordine di Zervan. Come ti chiami tu, straniero?”, tendendo il braccio lateralmente quasi per far intendere che parlava anche a nome della defunta regina, davanti all’espressione perplessa del suo interlocutore…

Estratto del racconto vincitore del Premio Midgard Narrativa 2018



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