mercoledì 8 ottobre 2025

Intervista a Silvana Di Girolamo

 





Buongiorno Silvana, come nasce Racconti di strada?

Le sollecitazioni che mi hanno indotto a scrivere il libro sono molteplici: ho sempre nutrito un grande interesse per le tematiche relative al disagio e alla marginalità sociale e, soprattutto, ho sempre provato una grande simpatia per i losers, i perdenti, gli sconfitti dalla vita. Si tratta quasi sempre di persone portatrici di svantaggi multipli, quelli economici che generano quelli educativi e  la scarsa istruzione, a sua volta, genera la povertà, un piano inclinato sul quale si scivola sempre più in basso, anche perché spesso ci sono fragilità connaturate che impediscono qualunque percorso di risalita.
Col libro, ho cercato di dare luce ai tratti più nascosti di queste persone che, quasi sempre, vengono identificate con il loro problema, che sia la tossicodipendenza o la malattia mentale, trascinano il fardello di uno stigma sociale che oscura tutte le numerose sfaccettature dell’umano.


Quali sono le tematiche principali della tua opera?

L’ambizione è stata quella di percorrere un vero e proprio itinerario nei luoghi dell’emarginazione della città, usando un linguaggio inclusivo, rispettoso e tollerante nei confronti di coloro che tali luoghi “abitano”.
Nel libro, ad esempio, parlo di villa Nanni che per molto tempo ha occupato le pagine di cronaca locale, quale emblema di degrado urbano; è stata sicuramente una sacca di miseria, percepita come luogo pericoloso, in realtà, si trattava più che altro di un’umanità più arresa e meno resiliente, e questa è una delle tante ingiustizie della vita, ci sono i combattenti che si rialzano sempre e ci sono i soccombenti,  quelli di villa Nanni, che al protagonista del libro sembrano creature notturne.
Nel libro dedico poi molto spazio alla stazione: anche quella di una città piccola come Perugia, al calare della sera subisce una mutazione antropologica, spariscono i viaggiatori e il popolo della strada si riappropria del luogo, qualcosa di simile ad una casa per la maggior parte di loro.
Un altra tematica che ho affrontato è quella della tossicodipendenza, e ho provato a descrivere il percorso che porta uno dei protagonisti all’abuso di sostanze, il “piano inclinato” di cui parlavo all’inizio; poi  parlo di prostituzione, di quella più miserabile, che è contigua alla povertà e alla tossicodipendenza, legate da un circolo vizioso che difficilmente può essere interrotto.
Uno spazio molto ampio lo dedico alla malattia mentale. Attraverso le vicende di uno dei personaggi ho voluto rendere omaggio a Mario Tobino, scrittore e psichiatra, direttore del manicomio di Lucca per più di 20 anni, dai primi anni ‘50. Tobino era uno psichiatra gentile che rifiutava i metodi coercitivi e nel libro ho immaginato che venisse ricordato come una figura salvifica.
La collocazione temporale di parte del racconto mi ha consentito anche di descrivere il clima politico pesante degli anni di piombo, in realtà, anche questo è un espediente letterario che mi ha permesso di parlare dei lasciti del ‘68, prima di tutto la legge 180, il superamento del manicomio e la nascita della psichiatria di territorio.
Infatti, oltre ai luoghi bui dell’emarginazione, il libro ospita anche dei punti di luce, i luoghi dell’accoglienza e della solidarietà, la progettualità degli operatori sociali e dei medici non ancora disincantati, ma anche il percorso di riscatto di coloro che avevamo dato per persi. Gli ospiti delle “Nuvole” che riseminano il loro giardino sono una metafora delle possibilità insospettate che possono essere espresse, bisogna saperle cercare e soprattutto saperle vedere.


Ci sono scrittori o scrittrici che ti hanno ispirato nello scrivere o che ti piace leggere?

Questa è la domanda più difficile, per una lettrice compulsiva scegliere alcuni Autori piuttosto di altri è una pratica dolorosa; potrei dire tutti, tutto quello che ho letto in modo famelico già dall’adolescenza. Sicuramente, dei contemporanei, amo molto Donatella Di Pietrantonio che, oltre tutto è una mia corregionale, mi piace molto il suo stile scabro e tuttavia molto impattante e viscerale, quanto ad esserne influenzata, mi piacerebbe moltissimo, ma ne sono ben lontana.
Degli Autori del passato, sono molto affezionata ai Naturalisti francesi, il Zola di “Germinale”, l’epopea dei minatori che si ritrova anche nella “Cittadella” di Cronin, altro autore che ho molto letto; naturalmente la corrente Verista, non tanto Verga, fin troppo noto, quanto quelli considerati di secondo piano come Luigi Capuana, nel suo “Marchese di Roccaverdina” la protagonista è una domestica che riunisce in sé un doppio svantaggio, quello dell’appartenenza di genere e quello dell’appartenenza sociale.
Poi Cesare Pavese, specialmente quello di “ Paesi tuoi”, il primo dei suoi romanzi. Infine, amo molto gli Autori americani contemporanei: lo Steinbeck  di “Furore” con le migrazioni  dei contadini scacciati dalle loro terre desertificate dalle tempeste di polvere, ma anche Faulkner in “Luce d’agosto” il protagonista è un nero nel sud razzista, ne “L’urlo e il furore” l’io narrante è il ragazzino debole di mente della famiglia.
Poi, non posso non ricordare il grandissimo Cormac Mc Carthy, che ci ha lasciato da due anni e ci mancherà sempre: di lui voglio menzionare non tanto “La trilogia della frontiera”, quanto quelli meno noti come “Il buio fuori”, la protagonista è una ragazza che vaga nei villaggi del Tennessee negli anni della Grande Depressione, reduce da un parto incestuoso.
Questi sono solo alcuni del mio pantheon personale, li ho menzionati soprattutto perché sono legati da un filo rosso, quello di dare una ribalta agli “ultimi”.  



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