lunedì 29 settembre 2025

Stato infiammatorio cronico e spopolamento

 di Paolo De Bernardi.








Anche per l'acqua vale il discorso fatto per i cibi; la visione chimica dell'acqua non coglie neppure un decimo delle sue valenze reali. Per comprendere le quali, anche qui, ci dobbiamo rivolgere alle medicine tradizionali, dette anche spregiativamente "popolari", al fine di insinuare la loro superstiziosità e antiscientificità. Senonchè una medicina "popolare" come quella dei Celti aveva una grande stima delle acque, al punto da potersi parlare di vero e proprio culto delle sorgenti, ognuna delle quali veniva riconosciuta nella propria specificità terapeutica: fonti "sacre" che guarivano le nutrici, fonti sacre che giovavano ai lottatori, fonti sacre che guarivano gli scrofolosi, fonti sacre che guarivano la scabbia, fonti sacre, che guarivano il fegato, ecc. Che vuol dire che queste fonti sono "sacre", tali da meritare un culto? L'acqua, come scoprono (ancorchè in ritardo) i paesi occidentali, ha una "memoria", ossia riceve, conserva e trasmette una certa frequenza vibratoria (vedi esperimenti di Masaru Emoto), la cui caratteristica può essere evidenziata da un esperimento cimatico, nel quale si fornisca ad una certa quantità di acqua una vibrazione, che viene subito tradotta in certe increspature che sono dei veri  mandala; ancor meglio la cosa si vede se dopo aver fornito una vibrazione all'acqua la facciamo congelare; le formazioni cristalline sono diverse a seconda della frequenza  ricevuta in precedenza. L'acqua dispone se stessa a secondo della frequenza vibrazionale che le fornite, allo stesso modo di una ballerina che balli e si muova a seconda della musica che viene messa in onda. Questi esperimenti ci fanno capire come l'acqua di ciascuna fonte sia improntata di un marchio energetico che essa riceve dalla terra,  una frequenza vibrazionale, che essa porta con sè quando sgorga dalla roccia. Quando un vivente si bagna in questa acqua sorgente riceve su di sè l'impronta vibrazionale che quell'acqua ha memorizzato e conservato durante il suo percorso per venire fuori dalla terra. L'elemento "sacro" dunque di questa acqua è quella sua frequenza, che trasmessa al vivente, lo guarisce da questa o da quella malattia (perché anche il nostro organismo vibra a certe frequenze, e c'è una frequenza della malattia, che va contrastata e abolita con la frequenza biocompatile, che si chiama guarigione e "miracolo"). Il culto delle fonti "sacre" praticato dalla medicina celtica, e non solo, non ha nulla di superstizioso o di antiscientifico (o di "popolare"). E anche qui siamo vittime di una visione rovesciata della realtà, ossia anche qui siamo stati indotti ad una visione paranoide.
Tutti i templi, chiese e cattedrali della cristianità sono in realtà edifici dedicati al culto delle fonti sacre. Noi siamo abituati e indotti a pensare che la santità del luogo  e dell'edificio  siano dovuti alla presenza del Santo in esso; o perché questi avrebbe in quel luogo operato miracoli, o perché avrebbe in quel luogo ricevuto le stimmate, o perché in quel luogo egli pregava e meditava assiduamente, o perché in quel luogo egli è stato sepolto e sono visibili le sue reliquie, ecc. Quindi crediamo che l'edificio sia stato costruito lì perché il luogo sarebbe stato reso "sacro" dall'operare o dalla presenza del Santo. E invece le cose non stanno così. Questa cui abbiamo accennato è l'opera di occultamento e sostituzione.
 La vera sacralità del luogo è data dalla fonte o dal pozzo contenente delle acque (queste sì) "sacre", la cui sacralità è da sempre consistita nella loro capacità di effettuare "miracoli", ossia guarigioni che avvenivano per trasmissione di una frequenza vibrazionale unica, che solo quell'acqua aveva e che i druidi, e i medici-sacerdoti in generale sapevano decodificare. E' questo fatto primario, anzi originario, che legittimava l'edificazione di un tempio, col quale si doveva innanzitutto sancire pubblicamente la sacralità della sorgente o del pozzo (che noterete non mancano mai in tutti i templi e chiese cristiane) e istituzionalizzare l'utilizzo di quel luogo per finalità terapeutica, come la incubatio in loco. Il tempio, infatti, non solo sanciva e riconosceva la sacralità del luogo, bensì ne amplificava e potenziava le capacità terapeutiche e miracolose, con una edilizia, che oggi diciamo esoterica, ma che in realtà era scientifica, in quanto con le tecniche cimatiche si costruivano rosoni e anche strumenti musicali, quali gli organi, che potenziavano la frequenza vibrazionale di quella fonte sacra, in modo da renderla fruibile a quante più persone possibili si recassero in quel luogo, alla ricerca di quella vibrazione, idonea a quella guarigione specifica. La presenza degli ex voto, sia nei templi cristiani e prima ancora pagani, sono la testimonianza di questa pratica terapeutica, che è poi stata soppiantata e occultata con la pratica religiosa, questa intesa come culto del Santo.



Estratto da Stato infiammatorio cronico e spopolamento, Paolo De Bernardi, Midgard Editrice


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lunedì 22 settembre 2025

Intervista a Emma Mariani

 





Buongiorno, come nasce Memorie di una MILF?

Nasce da un desiderio molto semplice: raccontare la vita di una donna over 40 senza veli e senza cliché. Volevo dare voce a quella zona grigia in cui non sei più una ragazza, ma neppure una “signora” pronta a spegnersi con la tisana e i calzini di lana. La MILF del mio romanzo non è un’etichetta volgare, ma un modo ironico e sincero per esplorare le contraddizioni, le paure e le rinascite di una donna che decide di non smettere di sentirsi viva. È un libro che nasce dal bisogno di ridere di sé stesse, di riconoscersi, ma anche di riflettere sul desiderio, sull’identità e sulla libertà.



Quali sono le tematiche principali del romanzo?

Le tematiche centrali sono il corpo, il tempo e la ricerca di autenticità. Attraverso Elisa, la protagonista, ho voluto raccontare cosa significhi sentirsi osservata come “MILF” e trasformare questa definizione in una forza, non in un limite. Il romanzo parla di amore e sesso, certo, ma soprattutto di amicizia femminile, resilienza, autoironia e del coraggio di reinventarsi anche quando sembra troppo tardi.
Il messaggio del libro è semplice e diretto: non c’è un’età per sentirsi vive, desiderabili e libere. Essere una MILF non è un insulto, ma un superpotere: la capacità di accettare le rughe senza rinunciare al desiderio, di ridere delle proprie cadute e rialzarsi più forti.
Il romanzo è pensato per tutte le donne che hanno superato i quaranta e si riconoscono nelle fatiche quotidiane, ma anche per le più giovani, perché possano guardare a questa fase della vita senza paura e con più ironia. È un libro che parla alle lettrici, ma può divertire anche i lettori uomini, soprattutto quelli che vogliono capire meglio cosa si nasconde dietro l’etichetta “MILF”.



Ci sono degli scrittori o delle scrittrici che ti ispirano e che ami leggere?

Sì, moltissimi, perché credo che la lettura sia la vera linfa di chi scrive. Amo scrittrici che sanno mescolare ironia e profondità come Helen Fielding, con Il diario di Bridget Jones, e Nora Ephron, che con il suo sguardo pungente ha firmato pagine indimenticabili oltre a film iconici come When Harry Met Sally.
Tra le grandi voci internazionali, Isabel Allende è per me un punto di riferimento: da La casa degli spiriti a Violeta, ha saputo dare voce a generazioni di donne con forza e poesia. Margaret Atwood, con Il racconto dell’ancella e I testamenti, ha dimostrato come il romanzo possa essere insieme visione politica e letteratura di altissimo livello. Adoro anche Elizabeth Strout, capace con Olive Kitteridge e Mi chiamo Lucy Barton di raccontare le relazioni e le fragilità umane con una delicatezza unica.
Mi ispirano poi autori come Nick Hornby (Alta fedeltà, Un ragazzo), maestro dell’umorismo intelligente, e David Nicholls, che con Un giorno ha creato una delle storie d’amore più amate degli ultimi decenni. Infine, apprezzo molto Joël Dicker, che con La verità sul caso Harry Quebert ha dimostrato come un romanzo possa tenere insieme intrigo, emozione e successo internazionale.
In generale, mi guidano le voci che sanno far ridere e riflettere, che raccontano la vita nelle sue contraddizioni senza rinunciare all’ironia e all’intensità.




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venerdì 19 settembre 2025

Prima Luna. Viktor

 di Matteo Pierassa.






«Svegliati!»
Mi svegliai di colpo, come se fosse scoppiato un terremoto, cercando di capire da dove provenisse quella voce, di chi fosse e, cosa più importante, se quell’imperativo fosse rivolto a me... Nessuno: intorno a me solamente pareti scure.
Immaginai, allora, di aver sognato ogni cosa: del resto, suppongo sia abbastanza normale per un ragazzo sempre solo immaginarsi una qualche compagnia, no? 
Rimuginai ancora un po’ sulla cosa, ma poi mi lasciai andare, cercando ancora il dolce abbraccio di Morfeo.
Trascorse solamente poco più di un’ora quando riaprii gli occhi. Questa volta a svegliarmi fu un raggio di sole penetrato da una fessura sulla parete della grotta. Mi illuminò la guancia destra: fu quella la fine del mio “sonno”, se così può esser chiamato, nonché l’inizio di un nuovo tentativo di fuga.
Sebbene in quel rifugio sotterraneo non mi mancasse nulla, ero stufo di consumare ratti e qualsiasi altro cibo di fortuna riuscissi a trovare. 
È vero, riuscivo a sopravvivere e non morivo di fame, ma sognavo di vedere il mondo in modo quasi ossessivo: ero curioso come lo è un bambino innocente, nei suoi primi anni di vita, un bambino a cui il mondo non può non sorridere.
Io però non ero un bambino: non avevo più nessuna scusa.
E, soprattutto, non ero di certo innocente! 
Al contrario.
Avevo fatto, mio malgrado, cose orribili che, sebbene mosse da quell’istinto di sopravvivenza che accomuna ogni essere vivente, si erano tramutate in un grosso senso di colpa che non mi lasciava mai, anzi: più il tempo passava, più mi convincevo di aver meritato il mio esilio e la solitudine dentro quella grotta.
Mentre, sempre immerso nel mio senso di colpa, mi facevo strada nel buio alla ricerca di una qualche via di fuga, mi bloccai seguendo uno strano istinto.
«Io posso aiutarti a trovarlo! Devi fidarti di me», fece eco una strana voce dal fondo della grotta. 
«C’è qualcuno?», chiesi con un filo di voce, appena dopo essermi ripreso dallo spavento.
«Sono sempre stato qui, anche se non mi hai mai notato!», tuonò di nuovo quella voce inquietante.
A quel punto mi guardai intorno, confuso e sempre più spaventato.
Ancora nessuno. Le stesse pareti di sempre.
«Se sei qui, allora fatti vedere!», urlai più forte che potevo ‒  non volevo percepisse la mia paura.
«Io mi vedo.
Io so esattamente chi sono e cosa devo fare. Sei tu che ti sottoponi a questo continuo tira e molla con il da farsi», disse poco prima di scoppiare a ridere così forte da farmi gelare il sangue.


Estratto da Prima Luna. Viktor, di Matteo Pierassa, Midgard Editrice


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lunedì 15 settembre 2025

Intervista a Stella del Mattino

 





Buongiorno, come nasce questa tua raccolta poetica?

Ciao Fabrizio, questa raccolta nasce in un periodo molto buio e doloroso, della mia vita.
Ad un certo punto mi sono dovuta confrontare con il crollo di tutti i miei sogni, dei miei progetti e di una parte fondamentale della mia vita.
Ho dovuto affrontare un vissuto profondamente travagliato che credevo di aver risolto ma che, con la perdita d mia madre, è emerso con una prepotenza distruttiva.
Ho cominciato a scrivere guidata da una tensione emotiva che non mi lasciava respirare, che non mi lasciava vivere, che non mi permetteva di ragionare in modo lucido: ho cominciato a scrivere per sopravvivere.
Non volevo un motivo per vivere, perché in quel periodo non li vedevo, non li riconoscevo.
Avevo solo bisogno di dare voce e forma al mio dolore, al malessere, alla solitudine, alla profonda angoscia che si annida nella parte più profonda e nascosta del mio animo; avevo bisogno di poter dire “Ora vi vedo, vi riconosco. Avete un volto e con un volto, non avete più bisogno di un nome e non avete più bisogno di urlare, di spezzarmi per uscire, ma potete finalmente Esistere, attraverso le mie parole, la testimonianza scritta che nessuno può negare”.
Questo percorso iniziato tre anni fa, mi ha aiutata a comprendere cosa mi scuote l’anima: cosa in certi periodi, mi rende stanca, apatica, “invisibile”, facendomi capire come solo un atto d’amore verso se stessi, può salvare. Ho imparato ad amare e ad accudire questo tormento che, incredibilmente mi permette di scrivere e creare, una sorgente che alimento per non perdere la parte migliore di me.



Quali sono le tematiche principali delle tue poesie?

Attraverso le mie poesie tratto il travaglio interiore, la morte, la follia, i sentimenti che sgorgano dal dolore, dalla prostrazione mentale che accompagna chi vive il “male di vivere” quale unica dimensione dell’esistenza.
Il crollo dei sogni, delle illusioni, la tensione distruttiva che sgorga dal rapporto amore/morte, ma anche la passione, la sensualità cupa che origina da quelle pieghe dell’anima che molti non hanno il coraggio di affrontare e riconoscere.
L’interiorità diviene un Abisso in cui perdersi, alla ricerca di se stessi, di quelle verità che alla luce del sole non potrebbero mai emergere: perdersi per morire e rinascere.
Perdersi e permettere ai sentimenti di trovare una forma, un corpo, una voce con cui raccontare la sofferenza, la rabbia, la furia, lo strazio; ma anche l’amore, la passione, la sensualità di cui abbiamo parlato poco sopra.
Un viaggio Sciamanico di profonda trasformazione, che converte il dolore, il lutto, la rabbia, la follia, in atto creativo, vitale.
Un gesto che permette alla vita, di scorrere nei meandri più cupi di un vissuto tormentato, doloroso, bruciante.
Le mie poesie incarnano ciò che nasce dal buio dell’anima, della mente e che può essere trasformato in un potente strumento di rivalsa, sempre che si abbia il coraggio di guardare davvero dentro se stessi e di cominciare ad amare quel Demone interiore che scuote ognuno di noi.



Ci sono poeti che ti ispirano o che ti piace leggere?

Sono molto legata a Pavese, autore che amo per le tematiche che affronta, ma anche per l’esistenza travagliata, accompagnata da una grande solitudine, da una ricerca interiore continua, dalle perdite affettive che lo segneranno nel profondo dell’anima e per quel tormento emotivo a cui non troverà mai soluzione, se non con il gesto estremo con cui concluderà la sua esistenza.
E’ in questi aspetti che mi ritrovo: tratti interiori a cui do voce e corpo attraverso i miei scritti ed è proprio la scrittura che mi permette di trovare sollievo e rivalsa da quello stato dell’anima che, se non accudito, curato, addolcito, può portare ad un autolesionismo pericoloso e, a volte fatale.
Oltre a Pavese apprezzo particolarmente Patrizia Valduga, il suo scrivere duro, cupo, a volte violento e scabroso mi stimola molto: le sue opere visionarie, le atmosfere che riesce ad evocare, mi permettono di ribaltare completamente certe mie convinzioni che a volte, potrebbero essere un po' limitanti.
Potrei parlare di altri nomi, ma l’elenco sarebbe davvero lunghissimo, la verità è che leggo davvero di tutto e da sempre: fantasy (e allora devo per forza nominare J.R.R. Tolkien), saggi di politica, di cultura nordica; mitologia, romanzi e molto altro.
Ho una mente affamata: di cultura, di visioni, di bellezza, di emozioni, di qualunque cosa stimoli la mia curiosità e il mio bisogno di sognare.
I libri sono meravigliose macchine per viaggiare nel tempo, tra infinite dimensioni, mondi paralleli dentro cui si può entrare e vivere; ma sono anche portali che permettono di entrare in quello spazio intimo, fatto di frammenti di anima, sogni, pensieri che appartengono all’autore che li condivide, rendendoli accessibili al lettore.



(Disponibile sul nostro sito. Nei prossimi giorni sarà ordinabile anche su Amazon, IBS, Unilibro, nelle librerie Feltrinelli e nelle librerie indipendenti.) 


venerdì 12 settembre 2025

Le disavventure dello scimmiotto Tim

 di Sanja Rotim.







Nella foresta dove abitava lo scimmiotto Tim con la sua famiglia bastava poco per sentirsi felici. Dondolare appesi a un albero, ridere e scherzare con le altre scimmie, piccole e grandi, cercare qualcosa di buono da mangiare, bagnarsi nel laghetto dalle acque trasparenti, correre e saltare da un ramo all’altro. Si potevano trovare un’infinità di cose divertenti da fare in quella rigogliosa foresta dove si respirava sempre aria pura e incontaminata e dove tutto profumava di natura e libertà. Forse lo scimmiotto Tim non si rendeva neanche conto di quanto fosse sereno e felice, ma non si può biasimare, era piccolo e molto, molto ingenuo. D’altronde, succede spesso anche agli adulti di non comprendere sempre bene il concetto di felicità.
Tim era il più giovane di tutte le scimmie che vivevano in quella foresta. Aveva sempre un bel sorriso stampato sul musetto oppure rideva a crepapelle per un motivo o per l’altro.
“Basta ridere, Tim, mi fai sempre rimbombare le orecchie con le tue risate”, a volte la sorella di nome Lena lo ammoniva in modo molto dolce e affettuoso. Erano molto legati e affezionati l’una all’altro. Lena si occupava spesso del suo fratellino quando i genitori erano impegnati in qualche faccenda. Specialmente quando andavano in compagnia a fare il bagno nel laghetto la sorella non lo perdeva di vista neanche un secondo anche se lo scimmiotto Tim aveva ormai imparato a nuotare.
“Stai attento, non andare da solo là dove non tocchi”, gli diceva la sorella preoccupata. Non era ancora pronta a lasciare il fratellino a nuotare da solo. Ma lui si tuffava allegramente e sguazzava senza timore continuando felicemente a ridere.
 Si erano accorti di lui anche i coniugi Pocodibuono. Da un po’ di tempo venivano nella foresta a osservare le scimmie di nascosto. Si nascondevano dietro grossi tronchi di alberi e le seguivano cercando di individuare quale fosse quella che poteva essere facilmente imbrogliata. Certamente, come si sarà già intuito, i coniugi Pocodibuono non erano persone per bene e nessuno gradirebbe averli come parenti. Ugo e Tremenda Pocodibuono erano una coppia abituata a comportamenti disonesti. Tremenda da nubile portava addirittura il cognome Truffatori. Evidentemente tutti e due avevano tra gli antenati certi malviventi e avevano ereditato oltre al cognome anche l’attitudine agli affari loschi.
Per loro non era stato difficile capire che lo scimmiotto Tim era il più ingenuo di tutte quante le scimmie che vivevano in quel meraviglioso intrico di alberi e vegetazione lussureggiante. I coniugi Pocodibuono avevano elaborato nei minimi dettagli il loro piano. Così quel giorno avevano fatto esplodere un paio di grossi petardi nella foresta e le scimmie, sorprese e spaventate dal boato, avevano cercato di scappare e nascondersi. Con tutta quella confusione e in un attimo di distrazione lo scimmiotto Tim si era ritrovato da solo. Anche lui era sbigottito e forse, per la prima volta in vita sua, non rideva per qualcosa.
“Vieni, caro Tim, non aver paura”, lo chiamarono i coniugi Pocodibuono sorridendo. “Abbiamo una bella sorpresa per te”, gli dissero dolcemente.
“Avete una sorpresa per me? Ma che cos’era quel rumore strano prima, mi sapete dire? Mi sono un po’ spaventato. Non ho mai sentito un rumore del genere. Di sicuro non era un tuono perché ho imparato a riconoscerli”, disse lo scimmiotto a quei due sconosciuti.


Estratto dall'antologia Hyperborea 9, Midgard Editrice.


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lunedì 8 settembre 2025

The Diary

 di Giovanni Becciu.









Il sole era ormai calato da tempo ed il buio aveva avvolto la città.
Controllò le lancette del suo orologio e constatò che segnavano le 22:17.
Da quando ormai l’elettricità aveva cessato di funzionare i quartieri delle grandi e piccole cittadine venivano avvolte dal buio e niente, se non altri mezzi di fortuna, potevano contrastarlo.
Solo le stelle e la luna, quando il cielo non era completamente coperto di nuvole, illuminavano lievemente le strade ed i quartieri di quella città alla periferia di Roma.
Marika aveva deciso di addentrarsi, lentamente e tenendo stretta la sua accetta, nel quartiere di case popolari vecchio di cent’anni.
Si fermò per sistemarsi sulle spalle lo zaino che, inesorabilmente dopo giorni passati a vagare, si era ormai fatto molto leggero. 
Era difatti rimasta senza acqua e viveri ed era stato proprio per quel motivo che aveva deciso di esplorare, e magari compiere una piccola razzia, quel quartiere pieno di abitazioni abbandonate ormai da tempo.
Era infreddolita a causa della bassa temperatura invernale e, scrutando il cielo coperto da grandi nuvole cariche di pioggia, capì che il tempo non sarebbe migliorato. 
In lontananza sul cielo di Roma vedeva di tanto in tanto qualche lieve bagliore dovuto ai fulmini. Dedusse che quel temporale, che stava già investendo la capitale, non avrebbe tardato ad arrivare e che le serviva un rifugio per superare la notte. 
L’ennesima notte.
Avanzò lentamente verso una palazzina di tre piani guardandosi attorno terrorizzata dal silenzio irreale che di solito, come spesso le era accaduto di constatare, preannunciava qualcosa di orrendo.
Raggiunta la palazzina iniziò a salire le scale con la massima cautela sperando di non avere brutte sorprese. 
Il mondo era andato a farsi fottere e i cervelli marci ne avevano ormai fatto la loro casa e chi aveva saputo mantenere il proprio cervello ancora sano, e non erano molti, lottava quotidianamente per la propria sopravvivenza.
Mentre stava salendo le scale silenzio, che come già detto che avvolgeva ogni cosa, venne rotto da un urlo agghiacciante.
Da qualche parte una donna era stata vittima, o almeno così immaginò, dei cervelli marci o peggio ancora era rimasta vittima di qualche gruppo di banditi.
Difatti il mondo non solo era caduto preda di quei mostri divoratori di vivi ma era anche infestato da quegli esseri umani che già prima della fine spadroneggiavano nelle città con le loro pratiche abiette e criminali.
Lo stato, la civiltà o la società civile, come più spesso veniva definita, era ormai del tutto crollata ed assente lasciando spazio alla storica ed antica legge del più forte. 
Raggiunto senza problemi il secondo piano, ma non senza aver prima tentato la fortuna cercando di aprire le porte degli appartamenti del primo piano, si trovò dinnanzi a una porta con le chiavi inserite nella serratura. 
In un primo momento Marika si guardò attorno incredula temendo una sorpresa da parte di qualche mal intenzionato o qualche razziatore isolato.
Quando finalmente si assicurò di non correre rischi decise di aprire la porta ma, una volta in procinto di girare la chiave, vide che c’era attaccato sopra con un pezzetto di scotch un foglio di carta con su scritto qualcosa.


Estratto dall'antologia Hyperborea 9, Midgard Editrice.


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venerdì 5 settembre 2025

Confutare Doyle. Conversazione su Spiritismo e cani sapienti

 di Giordano Giorgi.





Nel racconto si parla di un’intervista a Arthur Conan Doyle, pubblicata con il titolo “Spirit of Conan Doyle's Collie” sulla rivista “Mystery magazine” del 15 luglio 1922, che accludo in calce al racconto.


– Ho letto la sua intervista sul Mystery Magazine – feci quella mattina rivolgendomi ad Arthur Conan Doyle che s’attardava, come ad attendervi l’ora di pranzare, presso il club di cui eravamo soci entrambi.
– Quale? – mi interrogò.
– Quella sui “cani sapienti”.
– Non ricordo.
– Quella dove lei parla di quella chiaroveggente che avrebbe avvertito la presenza dello spirito del suo cane, un collie se ben ricordo, all’interno di casa sua.
– Ah, si – fece Doyle, osservandomi. – Devo ammettere che il giornalista non mi risultò particolarmente simpatico.
– In qualche modo, la tal cosa si evince, caro Doyle. Articoletto striminzito, frasi laconiche.
– Gli articoletti striminziti non sono rari sul Mystery Magazine, mio caro amico. Ma se leggerà il mio Wanderings of a Spiritualist troverà molto di più, ed espresso in modo migliore.
– Ci ho ragionato però un po’ su – replicai. Quell’articoletto presenta qualche spunto di riflessione. 
– Riflessione, o desiderio di critica?
Aveva colto nel segno. – Caro Doyle, sappiamo piuttosto parecchio a vicenda l’uno dell’altro, e lei sa che mi trovo completamente in disaccordo con le sue teorie riguardanti la vita oltre la morte.
– Lo so. E ammetto che quando è da conversarci in merito, preferisco farlo con amici di cui so di poter contare a sostegno. Ma ormai che ci siamo,  lei mi dirà cosa ha trovato di tanto … riflessivo nell’articolo.
Conoscevo l’attempato scozzese piuttosto bene. Il risentimento era scomparso, pronto a lasciare il posto alla curiosità propria dell’uomo di logica di cui aveva dato prova d’essere.
– Bene. Allora, lei sostiene che una mediu
– Una chiaroveggente.
– Una … chiaroveggente, entrando in casa sua, abbia detto “che bel cane”, nonostante in quel momento non ci fossero cani presenti.
– Esatto.
– Il cane al quale faceva riferimento era il suo collie, morto da parecchio tempo.
– Esatto.
– La chiaroveggente, però, ha detto di avvertirne la presenza in casa.
– Esatto. 
– … Bene – continuai. – sempre l’articolo dice che lei, quale prova di genuinità, chiese alla chiaroveggente di che colore fosse il pelo dell’animale che diceva di avvertire presente in sala. La donna disse “del colore di quel tavolo”, e lei parve entusiasta, poiché era proprio il colore del manto del suo collie defunto.
– Lei ha detto tutto correttamente, amico mio.
– Ma, mio caro Doyle! Lei non ha ipotizzato che la signora “chiaroveggente” possa essersi informata a priori in merito al suo collie? Colore del pelo, nome … Sono informazioni semplicissime da reperire! 
– L’articolo – replicò Doyle con fare composto, ma autoritario – proponeva questo come uno di altri numerosi esempi in merito alle incommensurabili capacità psichiche e intellettive degli animali. C’è ad esempio il caso di Darkie …
– Ed io proprio a Darkie volevo arrivare! A tal proposito, vorrei invitarla tra qualche giorno a casa mia. Le mostrerò un cane che sono propenso a credere abbia le stesse peculiarità del cane di cui parlava nell’articolo.
– Attendo allora il suo invito – stabilì Doyle con un tono definitivo che andava a porre termine alla conversazione. Mentre mi accomiatavo, lo vidi pensieroso, mentre si accarezzava i baffoni disordinati che ricordavo ben più affascinanti e maestosi al tempo dei suoi primi, e veri, successi letterari.


Estratto dall'antologia Hyperborea 9, Midgard Editrice.


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lunedì 1 settembre 2025

Cacciatori e prede

 di Pier Francesco Grazioli.






Mi chiamo William Davis, e sono un soldato britannico appartenente ad un'unità SAS.
Forse dovrei dire che ne sono l'unico superstite... 
Sì, perché di tutti i componenti del gruppo, credo di essere il solo ancora vivo; ma per quanto? 
Sono certo che loro mi troveranno, ma avranno solo il mio cadavere.  
Prima, però, devo trascrivere su questo diario, l'incredibile vicenda della quale io e gli altri siamo stati protagonisti.
Un 'orrore indicibile ed inaspettato ci si  scatenò addosso, eliminando in pochi minuti un gruppo di commando perfettamente addestrati.
Ancora non riesco a rendermi conto dell'accaduto, e di come io abbia fatto a fuggire da quella trappola mortale; perché di questo si trattava...  
Ora, in questa grotta, sono momentaneamente al sicuro; ma quando calerà la notte, loro verranno a cercarmi.
Sto cercando di trovare una logica in ciò che è successo; e se avessi visto giusto, avrei la prova che solo un'astuzia diabolica e feroce che supera i confini della razionalità, avrebbe potuto ordire una trappola simile.  
E ciò, naturalmente, spiegherebbe anche le circostanze della mia fuga.
Sherlock Holmes diceva: “Quando si è considerato ed eliminato l'impossibile, tutto ciò che rimane, anche se improbabile ed incredibile da credere, è la verità!”



                                                                ***


Egitto 1942,  a sud ovest dell'oasi di Siwa... 

L'oscurità stava già calando quando arrivammo in prossimità del nostro obbiettivo.
Eravamo venuti a conoscenza della presenza di un piccolo aeroporto presidiato dalle forze dell'Asse che, in quel periodo, avevano occupato l'oasi di Siwa; ed il nostro compito era di distruggerlo.
Il nostro gruppo, era costituito da due ufficiali e dieci soldati; tutti distribuiti su di un camion. 
Chevrolet e due Willys jeep armate di tutto punto. 
“Fermiamoci qui. Questo avvallamento va più che bene per lasciare i mezzi” disse il maggiore Turner.
Poi, ad un suo cenno, ci riunimmo tutti vicino alla jeep di testa, sul cofano della quale, il tenente Collins aveva appoggiato una mappa della zona. 
Mentre i due ufficiali curavano gli ultimi dettagli del piano, su ordine del maggiore, due soldati andarono a dare un' ultima occhiata all'obbiettivo salendo silenziosamente la piccola collina.
Sotto di loro, illuminato dalla pallida luce lunare, comparve un piccolo campo d'aviazione delimitato da una recinzione e chiuso da una sbarra. Ai lati di quest'ultima, vi erano due garitte protette in parte da dei sacchi di sabbia. 
“Sembra sia proprio un piccolo aeroporto” disse il caporale Masterson passando il binocolo all'altro soldato.


Estratto dall'antologia Hyperborea 9, Midgard Editrice.


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