lunedì 16 dicembre 2019

La birra di Platone

di Maria Grazia Giuliani






Quella mattina di primavera una luce tenue, assonnata irradiava di luce Perugia, mentre un viavai di pendolari inondava le strade e le saracinesche dei negozi cigolavano, sollevandosi. Un vago odore di cappuccino rapiva le narici di chi transitava dinanzi ai bar. La dimora dei marchesi di Sorbello si stagliava nitida in un cielo chiaro. Sembrava un’impavida roccaforte eretta contro le miserie del mondo, lei che di miserie ne aveva viste tante nei suoi poco più di quattrocento anni di vita. Superba e conscia di contenere nel suo ventre tesori come quadri, porcellane, manoscritti e tessuti ricamati antichi e di pregevole fattura.
Sotto le sue volte affrescate, nella sala Carlo III, si compivano i preparativi: persone in divisa percorrevano a grandi passi l’interno prezioso del museo, altre in borghese discutevano indicando le teche in vetro disposte lungo le pareti.
Queste persone si spostavano, poi, nelle altre due sale adiacenti per ultimare gli stessi lavori.
Un uomo alto e snello, vestito con un elegantissimo abito blu, guardava fuori dalla finestra tormentandosi con due dita la folta barba grigia. Sembrava assorto, mentre fissava i tetti spioventi.
«Professore» lo chiamò una giovane donna dalla testa piccola e ben fatta, circondata da un’aureola di corti ricci color bronzo, come in un quadro dell’Annunciazione. Era la sua assistente.
«Maia?»
«Professore mi perdoni, hanno terminato l’allestimento della mostra» disse lei a bassa voce.
«Molto bene» sospirò rumorosamente. «Attendiamo l’arrivo del dottor Dominici per disporre i gioielli nelle teche.»
«La bottiglia di birra di Platone?»
«La bottiglia di birra?» Sorrise.
«La chiamano tutti così ormai.»
«Anche per quella attenderemo l’arrivo del dottor Dominici.»
«Speriamo che non sia in ritardo, alle diciotto si apriranno i cancelli ai visitatori.»
Il professore le regalò un ulteriore candido sorriso e si allontanò. Nella sala c’era ancora qualcuno che lucidava le teche, poi quasi tutti sparirono.
«Professore venga,» disse un uomo in tuta da lavoro «venga con me.»
Si fermarono sulla soglia della sala Ugolino.
«Tutto è pronto,» disse l’uomo «adesso proveremo gli allarmi per l’ultima volta.»
«Sì, credo proprio che sia necessario. Procediamo.»
Qualcuno si avvicinò alle teche, poi allungò una mano e la poggiò sul vetro.
Scattarono delle assordanti sirene che emisero il loro suono acuto accompagnato dal lampeggiare blu di due lampade interne alla sala e di una esterna posta sulla porta d’ingresso. Quattro telecamere interne a ogni sala e cinque esterne avrebbero ripreso gli spostamenti dei visitatori.
«Nessuno oserà toccare le teche» disse l’uomo.
«Ottimo lavoro. Ora potete andare. È arrivato Dominici?» fece il professore a voce alta.
«Non ancora» rispose Maia.
«Sempre in ritardo quell’uomo! Venite.»
Maia, due uomini e due donne lo seguirono attraverso un corridoio sino nei sotterranei. I due vigilanti si fermarono all’ingresso di una stanza. Il professore trasse dalla tasca una chiave e aprì. Gli studenti di Belle Arti che collaboravano al progetto e Maia, entrarono. La sala era angusta, con le pareti di pietra viva, umida e fredda. Sul lato destro c’era una cassaforte che il professore aprì.
«Perdonate il ritardo» disse entrando un uomo che si asciugò il capo calvo con un fazzoletto e la mano tremante.
«Finalmente dottor Dominici, l’attendevamo.»
«Il traffico, gli impegni. Scusate.»
Dominici era un uomo robusto e alto, con uno sguardo acuto in un viso tondo, sfrontato.
Il professore contrasse le mascelle mentre la voce scorreva ancora dolce tra le labbra serrate.
«Va bene, va bene, mettiamoci al lavoro.»
 Il dottore, eminente archeologo, bofonchiò ancora delle scuse mentre oscillava sulle gambe.
A un cenno del professore gli studenti estrassero dalla cassaforte alcuni scrigni e li aprirono.
«Meravigliosi, unici, magnifici» commentarono i presenti con le pupille dilatate.
Il dottore fece un passo avanti, trasse fuori un bracciale tempestato di diamanti, avvicinò il monocolo e l’osservò.
«Unico. Un esemplare unico. Lo zar Nicola Romanov lo regalò alla zarina Alessandra. Questa a sua volta lo regalò a quel cialtrone di Rasputin, credendo che stesse guarendo suo figlio dall’emofilia.»
Estrasse alcuni collier e anelli con pietre preziose grosse come fagioli.
«Sono di ottima fattura veneziana. Sono il frutto di razzie compiute da Gengis Khan quando invase il Nord Italia,» disse Dominici «ma adesso aprite la cassaforte che contiene il pezzo più importante della collezione.»

Le minute dita di Maia estrassero una cassa più piccola e la depositarono con cura sul tavolo.
«Ecco la birra di Platone, il grande filosofo.»
Aveva estratto una brocca di ceramica dal corpo allungato e l’apertura rotonda. L’ansa unica e alta si sollevava al di sopra dell’imboccatura. Sembrava che il tempo non l’avesse sfiorata: era appena sbeccata e l’ansa presentava un pezzetto in meno nel punto in cui si congiungeva alla pancia tonda e affilata. Era dipinta di nero alla base e all’estremità superiore, mentre il resto era ricoperto da un leggero colore rossastro su cui spiccavano guerrieri di colore nero. Era ricoperta da un tappo di vetro, all’interno era visibile una sorta di liquido marrone scuro.
«È un’olpe, veniva usata per versare il vino o la birra» disse Dominici.
«Come è arrivata a noi?»
«Probabilmente è stata scoperta in qualche scavo a Ercolano o Pompei.»
«Sarà stata venduta sottobanco a qualche collezionista per una cifra che non oso neppure immaginare» disse il Professore.
 «Se ne ignorava persino l’esistenza. Un anno fa il conte Brandi ce l’ha donata sostenendo di ignorare che i suoi avi la possedessero» concluse Dominici.
«Ma cos’è quel liquido all’interno? E come è giunto dopo tanti secoli sino a noi?»
«Bella domanda,» il dottore sorrise «in realtà la brocca era sigillata ermeticamente da un tappo di lava solidificata.»
«Capisco,» disse Maia «il contenuto non essendo a contatto con l’aria non è evaporato.»
«Brava.» Dominici fremeva nel suo completo blu scuro di ottima fattura.
«E dunque?»
«Attraverso un delicato processo è stato prelevato e analizzato: si tratta di birra. È stato poi versato in un contenitore di vetro sottovuoto per preservarlo e il contenitore inserito nella brocca.»
«E poi?»
«Poi la brocca è stata richiusa con un tappo di vetro. Tutto qui.»
«Attirerà molti visitatori» disse il professore.
«Dobbiamo ringraziare i marchesi Bourbon di Sorbello per averci concesso di organizzare questa mostra nel loro antico e rinomato palazzo accanto agli oggetti preziosi che appartengono a questo museo.»

Estratto dal racconto "La birra di Platone", vincitore del Premio Giallobirra 2014, pubblicato nell'antologia giallo-noir "Giallobirra Volume 3", Midgard Editrice 2018






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