sabato 12 ottobre 2024

La Tana di Venere

 di Stefano Giometti.








Avevano deciso di percorrere l’Appia.
O meglio, così aveva deciso Sbaffo anche per conto degli altri tre cazzari.      
- Perché non abbiamo fatto la Pontina?  - chiese con il consueto garbo Milorde, per la seconda volta, non avendo ottenuto risposta dieci minuti prima.
- Perché l’Appia è più bella… e mo’ basta! E nun rompe più li cojoni! - replicò scocciato Sbaffo, che di quella scorreria nelle terre pontine, di quell’avventura alla ricerca dell’oro in quel decantato Klondike del basso Lazio, era stato l’organizzatore.
Un Klondike identificato nelle campagne circostanti Sabaudia, dove era l’anguria, o meglio er cocommero, a incarnare l’oro.  
Fu Franchino, di due anni più grande, pluribocciato, a far circolare in classe, con insistenza, quei racconti a lui riportati da amici a suo dire fidati, di arricchimenti veloci, facili, dati dalla raccolta delle angurie a Sabaudia.  In una settimana si potevano guadagnare ottanta, novanta, fino a centocinquantamila lire a testa. Uno sproposito, in quarta superiore.
Un’occasione irripetibile, unica, da non lasciarsi sfuggire.
Sbaffo, che pretendeva di elevare al rango di baffi una peluria ispirante un’inestinguibile tenerezza, oltre ad avere già ispirato un soprannome oramai consolidato, si dibatté a lungo fra sogni e inquietudine, ma poi prese la decisione.
Doveva farlo, dovevano farlo, dovevano andarci.
Convinse, per sfinimento, quattro compagni di classe.
Per la fine di giugno dovevano partire, essere presenti prima di altri, sgobbare, raccogliere, lavorare per tre, quattro settimane, guadagnare, senza far circolare troppo la voce, non bisognava farlo sapere in giro.
Convinse, allora, Milorde, Cagnara, Abbiocco e Martufagno.
A parte quest’ultimo, fisicamente ben strutturato, il solo fra tutti abituato a sporcarsi le mani con la terra perché figlio di agricoltori, proveniente da un sobborgo al di fuori del Grande Raccordo Anulare, e per questo chiamato Martufagno, che aveva soppiantato il soprannome di Cicorione a partire dal secondo anno di Istituto Tecnico, gli altri erano soltanto semplici figli delle periferie urbane di Roma, dal fisico ancora acerbo, ragazzinesco, senza la minima ombra di calli sulle mani.
Milorde, di poche parole, si distingueva per un portamento distinto e per un linguaggio pulito, lineare, che filtrava a monte, apparentemente senza difficoltà, i vocaboli romaneschi, presumibilmente per un fatto di coerenza, per far risultare credibile il suo portamento signorile. 
Cagnara era il più irrequieto, il più vivace, non stava fermo un attimo, rissoso, logorroico in alcune giornate, il primo ad avere conseguito la patente per guidare, essendo nato a gennaio. Sbaffo l’aveva convinto a prendere la sua macchina, una Fiat 850, per andare a Sabaudia.  Lui accettò subito, a patto di costituire, prima di partire, un fondo cassa per la benzina “Sennò ‘sti cazzi”. 
Abbiocco, agli antipodi di Cagnara, era il più bonario, pacioccone fino al midollo, indolente, non rinunciava mai alla pennichella, dovunque si trovasse nella fascia oraria post-prandiale. Aveva accettato di far parte di quella squadra di avventurieri non per intima convinzione, ma solamente per non contrariare Sbaffo e per rimanere in amore e in accordo con tutti gli altri.
- Ma dove kaiser se deve gira’?...Borgo Hermada, borgo qui, borgo là… nun ce sto a capi’ un kaiser de gnente. Porca troia! - sbottò Cagnara, che da poco aveva lasciato l’Appia e si era ritrovato su rettilinei tutti uguali che incrociavano altri rettilinei tutti uguali, in mezzo a campi tutti uguali.
- Devi tornà verso Borgo Vodice, poi prendi la Migliara 49.  Borgo lì, borgo là… nun sapete un cazzo de storia! Qui c’è stata la bonifica delle paludi pontine durante il Ventennio e hanno dato ai borghi i nomi di battaglie della Prima Guerra Mondiale.  
- Tutta opera del grande Benito! Ignoranti! - stabilì con veemenza Sbaffo, che oltre ad essere, da sempre, un saputello, si stava rivelando, negli ultimi tempi, come un manifesto simpatizzante del Movimento Sociale Italiano, come granitico assertore del quanto di buono avesse fatto il Duce durante il Ventennio, andando così incontro a discussioni, anche violente, con la maggioranza dei compagni di classe, apertamente schierati col PCI e con la Sinistra extraparlamentare.
- Vaffanculo a te e a ‘sto fascista der cazzo! -  gridò Cagnara, esasperato più dalle due ore consecutive di guida che dalle precisazioni storico-politiche di quel coglione che sedeva dietro a lui, e che gli allungò un frontino dopo essersi sollevato di un palmo dal sedile di similpelle rossa.
- Ma che cazzo fai? - s’indignò Cagnara, che fu lesto a governare la macchina durante l’accenno di sbandamento che seguì a quello schiaffo in fronte - Ho capito, mejo che ce fermamo…
La Fiat 850 si accostò all’imbocco di un vialetto sterrato accompagnato in tutta la sua lunghezza da eucalipti smisurati. 
Scese per primo Cagnara, svelto a inclinare il suo sedile, impaziente di far scendere Sbaffo, di affrontarlo al più presto.
Sbaffo esitò prima di uscire, poi si decise, se lo trovò di fronte, ché lo aspettava al varco, si scambiarono uno sguardo minaccioso.  
Una spinta con entrambe le mani allontanò il torace altrui, senza che parola venisse proferita.  Finì lì.
Si distaccarono per sgranchirsi le gambe e buttare giù, nel profondo, l’odore pungente degli eucalipti, comunque non sufficiente a sostituire un caffè bollente che loro due, già fuori, e gli altri, ancora dentro, avrebbero, a quel punto, desiderato. 
Nel frattempo, anche gli altri due erano scesi dalla macchina.
- Quanto manca ancora per Sabaudia? - chiese Milorde.                            
Nessuno si degnò di dargli una risposta.
Cagnara, intanto, aveva sollevato il cofano per prelevare dal suo zaino una delle pagnottelle che la madre gli aveva preparato. Scostò dalla ruota di scorta la lattina dell’olio che il padre di Milorde aveva affibbiato loro per permettere di cucinare qualcosa di decente, snodò i lacci dello zaino di tela grigioverde che aveva acquistato qualche giorno prima al mercato dell’usato di Via Sannio e agguantò un cartoccio che scoprì, svoltolandolo, contenere una pagnottella con la frittata. 
Abbiocco, in quel mentre, con un prezioso lavoro nell’ombra, controllava a uno a uno i ganci delle corde elastiche che serravano al portabagagli la grande tenda da campeggio, forse pregustandone l’allestimento per poterci entrare e fare quanto prima una pennichella.
- Daje, ché manca poco. Sabaudia è laggiù - disse Sbaffo, allungando un braccio verso il mare, rinfrancando Milorde con uno stacco di tempo comunque ingiustificabile. 
Rimontarono in macchina, rincuorati. 
L’atmosfera all’interno dell’850 si era fatta tranquilla.
- Fai tutta la Migliara, sempre dritto. Arriviamo a Sabaudia, poi il campeggio dovrebbe trovarsi vicino al mare, sulla destra. Comunque chiederemo, appena arrivati in paese - indicò Sbaffo in modo sereno, pianamente, rivolgendosi in primis a Cagnara, che era il guidatore, e poi di rimbalzo agli altri due, per fare tabula rasa dei nervosismi e delle piccole incomprensioni che fino a quel momento avevano inficiato un’aspettativa che invece doveva rimanere pura e inscalfibile, agguantabile a piene mani da quei diciottenni, in modo palese affamati di esistenza, di soldi nelle indoli esuberanti di Sbaffo e Cagnara, mentre Abbiocco e Milorde andavano a rimorchio, rivestiti da una patina di inintelligibilità riguardo a eventuali aspirazioni e sentimenti, ma non per questo, molto probabilmente, meno affamati di vita. 


Estratto dal volume "La Tana di Venere" di Stefano Giometti, Midgard Editrice.




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