lunedì 29 luglio 2024

Intervista a Raffaele Pescitelli

 





Buongiorno Raffaele, come nasce questa nuova opera scritta a quattro mani con Riccardo Tennenini?

Buongiorno anche a te Fabrizio.
Quest’opera nasce da un’idea di Riccardo il quale mi propose di scrivere insieme un piccolo saggio che mettesse in evidenza le relazioni fra Scienza e Vedanta. Riccardo si sarebbe occupato della parte riguardante il Vedanta ed io della parte scientifica, in particolare di alcuni concetti di Fisica e di Neuroscienze. 
Da tutto ciò è nata una collaborazione appassionante che ha creato un clima intellettualmente stimolante.



Quali sono gli argomenti principali del saggio? 

Per quanto riguarda la parte di Fisica ho descritto le principali scoperte che furono effettuate all’inizio del XX secolo e che rivoluzionarono completamente la Fisica classica. 
Ho trattato la radiazione del corpo nero, l’effetto fotoelettrico, l’equazione di Schrödinger, la struttura dell’atomo e le particelle subatomiche.
Per quanto riguarda la parte relativa alle Neuroscienze mi sono focalizzato sull’aspetto della coscienza in quanto ci sono molti aspetti correlati con il Vedanta.



Sei appassionato di Fisica da molto tempo?

Mi sono appassionato a questa materia durante i miei percorsi di studio universitari. 
Pur non essendo laureato in Fisica ho avuto modo di conseguire alcuni esami riguardanti la Fisica che mi hanno permesso di acquisire quelle basi fondamentali e necessarie per comprendere molti fenomeni presenti in natura.




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Raffaele Pescitelli, laureato in Farmacia, Biotecnologie e scienze e tecniche psicologiche. Appassionato di fisica divulgativa.


giovedì 25 luglio 2024

L'anno degli indefessi

 di Arianna Coletta.








Nessuno si è mai ricordato di me per la mia capacità relazionale ma raggiunta una certa età ero riuscita a mostrare in pubblico semplici sorrisi di compiacenza e movimenti sussultori del capo che nella comune concezione stavano a significare un segno di assenso e ho appreso a mie spese che i miei simili amano essere assecondati, almeno sommariamente. Ma tutti, veramente tutti, possono raccontarvi di quando mi sono innamorata.
I fatti che sto per narrarvi sono avvenuti anni fa se di anni si può parlare e, modestie a parte, si parla più di me che delle elezioni del nuovo magister.
Correva l’anno degli indefessi. Per qualcuno che non conosce le nostre usanze potrebbe sembrare strano ma farò un breve cenno sul funzionamento del nostro calendario e non solo di quello.
Il sole era stanco. Da diverso tempo la sua luce non era più la stessa, la sua forza era andata assottigliandosi e il calore che emanava era tenue e scemava inesorabilmente verso un gelido freddo e la terra, dal canto suo, aveva smesso di girare su se stessa, lo fissava allontanandosi da lui; quell’antica forza di attrazione era persa nell’universo. 
La vita si era dovuta adeguare. Per non smettere di esistere i pochi sopravvissuti occupavano le terre assolate dimenticando le notti per andare a dormire dopo una giornata di lavoro, le notti per potersi alzare al mattino e iniziare una nuova giornata, le notti per guardare le stelle e sognare. 
Il nostro clan, il più numeroso di tutti, dettava legge su tutti gli altri. Il magister, al comando di tutti i terreni illuminati e capo di tutti i loro abitanti, un bel giorno di tiepido sole snocciolò tutte le regole che aveva alacremente studiato annoverandole con fervente ardore. Quando fu il turno del calendario spiegò per sommi capi che la numerologia era un mezzo subdolo per confondere le masse quindi, da quel momento, l’anno sarebbe stata una lode ad ogni categoria lavorativa e sociale; in quel preciso periodo ogni elemento appartenente alla suddetta classe avrebbe potuto godere di un riposo dal lavoro per tutti i trecento giorni e l’esenzione dalle tasse. I poveri mentecatti che non sapevano né leggere né scrivere acclamarono alla bontà del loro capo e quasi tutti votarono per alzata di mano (io e forse qualcun altro tenemmo basse le mani ma nessuno ci notò) a favore del nuovo sistema. 
Penserete voi che questa metodologia possa essere ancor più complicata rispetto alla naturale consecutio dei numeri ma anche qui la legge del più potente blatera la sua volontà. La truffa fu così legittimata: gli anni dei signori duravano cinquecento giorni, gli anni degli studiosi e degli alchimisti quattrocento giorni, gli anni dei mercanti e degli artigiani duravano trecento giorni e gli anni degli indefessi duravano centocinquanta giorni a malapena ma questo non poteva saperlo nessuno perché nessuno di noi aveva modo di poter controllare il tempo. I poveri diavoli scandivano il tempo solo grazie all’urlatore che segnalava la fine dei tre periodi in cui l’anno era diviso e non avevano altro mezzo per sapere. Il sole non sorgeva e non tramontava, era sempre lì. I nostri poveri operai lavoravano sempre non sapendo quanto riposare e non sapendo l’esatto momento di smettere se non quello del raggiungimento di un determinato obbiettivo del raccolto o della cura delle bestie, riposavano quel po’ che ritenevano sufficiente e ricominciavano mentre i signori, gli studiosi e gli alchimisti si facevano beffe di loro tracannando tutto quello che usciva dalle loro terre e dalle loro stalle.




Estratto dal racconto "L'anno degli indefessi" di Arianna Coletta, dal libro "Hyperborea 8",  Midgard Editrice.
Racconto vincitore a parimerito del Premio Midgard Narrativa 2024.


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sabato 20 luglio 2024

Il dono speciale

 di Alexandra Fischer.







Selynà si sistemò la sciarpa intorno al collo prima di seguire il suo amico Dilarz lungo il sotterraneo. 
Faceva freddo, e l’umidità aveva scrostato i muri. Dai pannelli delle porte pendevano stoffe lacere, macchiate di umidità.
“Sei sicura di aver visto quella bestia?
“Non la chiamare così.
“Perché no? Dopotutto, fa parte della razza degli artigliati.
Selynà si scostò il ciuffo dalla fronte: “Ti assicuro che ti sbagli. Katyra non è come nelle leggende che ti hanno insegnato.
Dilarz la guardò con un sopracciglio alzato: “E com’è allora? Io so che tende a mentire.
Selynà si mise le mani sui fianchi: “Se ci ha invitati qui, vuol dire che si fida di noi. 
Dilarz sbuffò: “E va bene, come vuoi tu. 
Selynà gli indicò la porta chiusa di fronte a loro: “Credo che faremmo meglio ad affrettarci. Katyra odia aspettare.
Dilarz la seguì, non senza essersi prima sistemato il giaccone dalle molteplici tasche e aver controllato la sacca.
Selynà batté il piede: “Insomma, cosa stai facendo? Non dobbiamo certo portarle delle offerte.
Dilarz le sorrise: “È per il tesoro. Volevo assicurarmi che ci fosse abbastanza posto per tutto.
Selynà alzò gli occhi al soffitto: “Veramente, non si tratta di quello che immagini.
Nella mente di Dilarz oggetti d’oro e gemme si dissolsero come sogni. 
Si incupì. 
“Cosa dovrei aspettarmi?
Selynà aprì la porta.
La tappezzeria era rovinata in più punti, ma si potevano intravedere teste e zampe di gatto. 
L’odore di umidità era tale che Dilarz si volse verso Selynà: “Siamo sicuri di essere nel posto giusto? Qui è tutto decadenza e marciume.
Lei si portò l’indice sul labbro: “Zitto.
Dilarz gliene domandò il motivo.
Selynà socchiuse gli occhi, quasi inebriandosi di quell’odore: “Katyra è da queste parti. Ha voluto darci appuntamento qui per motivi molto gravi.
Dilarz impallidì: “Vorresti dire che sono venuti anche da loro?
Selynà abbassò la voce: “Evita di nominarli, soprattutto in sua presenza. Lei è l’unica in grado di aiutarci e ha rischiato molto per venire qui.
Dilarz mosse la mano nel gesto di tagliare corto: “Senti, ignorerò parecchie cose sulla gente di Felyna, ma so bene perché ci troviamo qui. Il tesoro.
Selynà si morse il labbro. 
Dilarz credeva di poter corrompere i nemici con un forziere pieno di gemme e metalli preziosi. 
Trasse un lungo respiro prima di avvertirlo: “Senti, dietro a quella porta non c’è proprio quello che credi.
Dilarz la fissò basito. Diede un pugno al muro: “Maledizione. E io che credevo di essere sulle tracce di un tesoro.
Selynà gli accarezzò la spalla: “C’è, eccome. Solo che non servirà a corrompere nessuno.
Dilarz la osservò con una smorfia di frustrazione: “Immagino che neppure noi ci guadagneremo nulla.
Selynà allargò le braccia: “Libereremo Lago delle Quattro Delizie dalla sua maledizione”. 
Si tastò la giacca colma di tasche e si guardò i pantaloni che le cascavano addosso da tutte le parti.
“Dubito che i demoni del buio si acquieteranno con le gemme e l’oro. Hanno rovinato il raccolto. 
Selynà tastò la borsa con le provviste: “Queste dovranno bastarci per un bel po’ prima di tornare indietro con il dono di Katyra.
Dilarz alzò un sopracciglio: “Un dono? Perché non un’arma?
Selynà lo fissò gelida: “Non sono servite a nulla contro di loro. Se le sono mangiate, ricordi?
Dilarz la guardò da sotto in su: “Per quel poco che so della razza di Katyra, mi aspettavo qualcosa di micidiale. Sai, un’arma a forma di artiglio, in grado di squarciare le tenebre.
Selynà gli fece segno di seguirlo e aprì la porta: “Avanti, abbiamo chiacchierato fin troppo.
La stanza era arredata con un enorme cuscino sul quale era appoggiata una gatta dal mantello argentato e gli occhi viola.
La tappezzeria alle pareti era in uno stato migliore rispetto a quella che si trovava nelle stanze precedenti: un dettaglio che stupì Dilarz, il quale rimase zitto per evitare figuracce. 
Notò che la gatta stringeva un involto di stoffa colorata fra le zampe e recuperò speranza. 
Di certo doveva contenere qualcosa per il quale era valso il viaggio.
Katyra si leccò il manto azzurro ghiaccio e fissò Dilarz con noncuranza.
Selynà le fece un piccolo inchino: “Scusa se ti abbiamo fatto rischiare tanto, ma è per via della maledizione che affligge il nostro villaggio. Non vorremmo mai che si estendesse qui a Felinia.



Estratto dal racconto "Il dono speciale" di Alexandra Fischer, dal libro "Hyperborea 8",  Midgard Editrice.
Racconto vincitore a parimerito del Premio Midgard Narrativa 2024.


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martedì 16 luglio 2024

Le ombre del passato

 di Maria Teresa Pellegrini.







Il padrone di Penna in Teverina aveva lo sguardo rivolto verso la parte in cui si trovava Celeste. 
Evidentemente era preso dalla bella visione, la stava osservando.
Filippo intuì il pensiero dietro quello sguardo. 
In poco più di un attimo interruppe quell’interesse.
“La donna che vedete viaggia con noi, è mia moglie, siamo sposati da pochi mesi. 
Insieme al Barone ho deciso che poteva unirsi alla guarnigione e affrontare il viaggio con il sottoscritto, suo marito”.
Con un cenno della mano Filippo la chiamò per farsi raggiungere e Celeste fu subito al suo fianco, prendendogli la mano.
Lei aiutava il cuoco, era brava a cucinare ma soprattutto conosceva l’uso delle erbe medicinali, sapeva medicare ferite e curare i malanni.
Era un’arte che la moglie del Barone aveva preteso che molte giovani del castello imparassero dalla sua amica guaritrice.
“Lei e l’intera guarnigione sono sotto la mia protezione”.
Asserendo quelle poche parole con tanta autorità, Filippo mise subito in chiaro che quella donna meritava rispetto quanto lui stesso e l’intera guarnigione.
Con un cenno e lo sguardo puntato sul volto di Filippo, il signore di Penna in Teverina fece intendere di aver capito. 
Ora toccava a lui rispondergli, specificare chi fosse e quali fossero le sue intenzioni riguardo a loro. 
Aprire le porte oppure rifiutarli, mandandoli altrove a cercar rifugio.
Nel frattempo, al signore se ne era raggiunto un altro molto più giovane ma come il più attempato aveva la postura fiera ed era elegantemente vestito. 
Stava con le gambe leggermente divaricate, le mani giunte dietro le spalle e girandosi verso il primo disse “padre chi è questa carovana di 
gente davanti a noi? Quale motivo li ha portati a Penna? Ma soprattutto, cosa vogliono?”.
Si capiva che erano padre e figlio.
I cavalli intanto erano stanchi di quel forzato riposo, scalpitavano inquieti, i cavalieri con addosso le loro armi sudavano sotto l’armatura.
Celeste, il cuoco e il resto della compagnia ogni tanto si guardavano facendosi delle domande.
Il padre alzò una mano verso il figlio che capì di aspettare e di non intromettersi. 
Rilassato il signore, rivolto a Filippo e all’intera guarnigione, indicando con il braccio come per mostrare il luogo, disse “siete a Penna 
in Teverina e in me è la figura del signore e padrone, rappresento un ricco casato dalle gloriose e antiche origini. 
Siamo i Serravalle, valorosi soldati, guerrieri e condottieri”.
Filippo, con al fianco Celeste, guardò padre e figlio, ovvero i padroni del paese.
Il padre, abbassandosi in un mezzo inchino, disse il suo nome con l’intera investitura.
“Sono Augusto Serravalle, signore di Penna in Teverina, poi si rivolse al figlio, “alla mia destra c’è il mio unico figlio, Giuliano Serravalle, cavaliere e capo del nostro esercito”.
Nel sentire il suo nome anche il giovane fece un breve cenno, abbassando la testa in segno di rispetto.
Augusto Serravalle aggiunse che Penna in Teverina era un luogo assai importante proprio per la sua posizione strategica, infatti, fungeva da controllo della via fluviale del Tevere e della valle sottostante.
Spostandosi di lato, insieme al figlio, col garbo del signore qual era, allargando le braccia verso la piazza li invitò ad entrare. 
Disse, in modo che tutti lo potessero sentire, “in pace siete venuti, in pace andrete via. Sarà un onore per noi Serravalle ospitare voi, capitano Filippo Demetri, e l’intera guarnigione unita alla graziosa signora vostra moglie, con l’intenzione di porre in questo modo le basi per un nuovo rapporto di amicizia e collaborazione col Barone di Montevalle, signore di Amelia e Alviano”.
Udendo tali parole, Filippo e la sua gente tirarono un grande sospiro di sollievo. Finalmente avrebbero avuto tre o forse quattro giorni di meritato riposo così come freschi rifornimenti per tornare a viaggiare, sia per gli uomini che per gli animali.
Il borgo venne allertato dell’entrata della carovana.
Augusto Serravalle ordinò come ogni cosa dovesse essere gestita, fatta e organizzata al meglio.
I servi erano pronti ad esaudire tutti i suoi comandi.
Augusto e il figlio Giuliano erano ansiosi entrambi di conoscere il motivo che avesse spinto quel contingente del Barone di Montevalle in giro per quelle terre, spesso in contrasto tra di loro.
Vennero tutti condotti in un sontuoso palazzo, contornato da un ricco giardino.
Scesi da cavallo, Filippo e Celeste, seguiti dai cavalieri, camminarono guardandosi intorno in silenzio, dietro ai due uomini e osservarono con piacere quanto quel palazzo fosse ben disposto, situato poco lontano dalla grande porta.
In uno spazio chiuso, recintato e protetto da alte mura, in modo che gli estranei difficilmente potessero penetrarvi, Celeste si muoveva piano, incantata da tanto splendore. 
Lungo il breve percorso erano disposte siepi ben curate di Bosso e Tasso, le piante in fiore erano piccole rose dai colori chiari che andavano dal bianco al rosa pallido. I pergolati di uva facevano ombra. 
Lungo il cammino si incontravano anche cespugli di gigli e di giaggioli.
Grandi orci di terracotta erano sparpagliati ai lati del breve viale.



Estratto dal libro "Le ombre del passato" di Maria Teresa Pellegrini, Midgard Editrice.


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giovedì 11 luglio 2024

Il volo dell’airone

 di Giacomo Villa.







Apparirono di nuovo, all’improvviso, due occhi gialli, freddi e crudelmente minacciosi che bucarono il buio silenzioso della notte cupa e gelida e, fiammeggiando come lame incandescenti nella loro luce abbagliante, spuntarono come sbucati dal nulla in fondo alla strada annerita dal silenzio delle tenebre che sembrava stendersi sull’oscurità fredda e inconsistente con la tetra consapevolezza d’un soffocante sudario che ghermisce la vita con le sue dita impalpabili. 
Ebbe di nuovo come l’impressione di tendere alla sommità d’un onda crescente, sempre più alta, come un’esile imbarcazione che mira alla punta di un flutto capriccioso senza mai valicarlo perché l’onda maligna continua a crescere allontanandosi e, alla fine, sembra di essere risucchiati in un mondo di lacerante sofferenza, quasi di semi-follia nel quale si è vagato rotolandosi inconsapevolmente nel fumigare di una pazzesca ossessione. 
Premette il viso nel cuscino sprimacciato e si sforzò di serrare le palpebre con forza, quasi con rabbiosa violenza, in un futile tentativo di riacquistare il sonno improvvisamente lacerato, ma l’incombente immagine non solo non scomparve, ma accentuò anzi il proprio incalzante incedere insinuandosi con maligna insistenza in quei meandri dell’anima dove niente e nessuno avrebbe mai potuto cacciarla via. 
Quando i vitrei barbagli dell’ingannevole fata Morgana scemarono con la struggente lentezza di una piuma che si muove nella melassa, l’attimo onirico sembrò dilatarsi fino a restituirle un misto di puro terrore e sfrenata eccitazione rinchiusi dentro un gigantesco shaker. 
Quando, madida di sudore, si ritrovò a balzare seduta nel letto e scoprì che, boccheggiando dolorosamente, riusciva ancora a respirare, il suo stesso ansito le rimbombò nelle orecchie assordandola mentre la lingua rovistava con ansia incontrollabile come una lima nella ruggine di una bocca secca e asciutta lasciandole solo il gusto che sa d’aceto della propria paura.
“Mamma!” Mormorò.
Solo allora parve accorgersi di aver istintivamente allungato la mano destra verso il comodino in legno di palissandro alla ricerca della abat-jour in vetro di Murano. 
Le era parso di avvertire un urlo improvviso salire dal profondo della sua stessa angoscia e, per un lungo, interminabile istante, fu invasa dalla paura di aver lacerato inconsapevolmente il gelido silenzio della notte. Solo dopo alcuni istanti lunghi come l’eternità, si rese invece conto di essere sola, circondata unicamente dall’assordante silenzio della propria camera da letto che, ancora una volta, aveva fatto da sfondo al suo incubo più ricorrente e si ritrovò con gli occhi angosciosamente sbarrati che piroettavano nelle orbite spalancate come navigli che avessero rotto gli ormeggi e, finalmente, calde lacrime silenziose presero a scorrere luccicando sulla pelle vellutata come gocce di rugiada che sfiorano i petali di un fiore, scintillanti perle di fiume che consegnavano  un sapore di acqua salmastra agli angoli della bocca. 
Con l’ansia che, sebbene attutita, continuava a martellarle in petto con la violenza di un maglio impazzito, abbandonò lentamente il letto, mosse sul parquet in rovere antico i pochi passi che la separavano dalla porta, la dischiuse frenando a stento l’agitazione che sembrava essersi impadronita dei suoi movimenti più comunemente banali e si accorse con sollievo che tutto il reparto notte della elegante villetta era immerso nel più totale silenzio. 
Sempre a piedi nudi, tornò verso il letto disfatto, spense l’abat-jour e uscì di nuovo muovendosi silenziosamente nel buio in direzione del bagno, vi entrò e, sempre in compagnia delle tenebre della notte, si sedette sullo spigolo della grande vasca idromassaggio in corian, la testa parzialmente china sul giovane petto ancora impetuosamente squassato da un fremito che solo ora sembrava accennare a placarsi un po’, le lunghe mani dalle belle dita affusolate tuffate nei capelli scompigliati. 
Quando si alzò e andò a cercare l’interruttore della specchiera sopra il lavabo in porcellana, quella che le fu restituita dall’illuminazione improvvisa fu l’immagine di un giovane viso scosso dal poco sonno e dalla troppa inquietudine.


Estratto da "Il volo dell’airone" di Giacomo Villa, Midgard Editrice.


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martedì 9 luglio 2024

Dominique Vivant Denon

 di Alain Borghini.







Figlio in tutto e per tutto dell’Ancien Régime, Dominique Vivant Denon percorse tutti gli anni dalla Rivoluzione alla Restaurazione combattendo come una specie di Maresciallo dell’arte e della cultura.
Non fu mai un militare ma questo non lo esentò da avere una vita a dir poco avventurosa oltre che a partecipare in prima persona a molte delle grandi gesta guerresche del suo imperatore.
Nato a Chalon-sur-Saône il 4 gennaio 1747 in una famiglia appartenente alla piccola nobiltà, sin da giovane si contraddistinse per una spiccata propensione per l’arte nelle sue mille sfaccettature.
Basata su di una innata predisposizione personale, la sua cultura trovò origine da un lungo elenco di esperienze personali e professionali che caratterizzarono la sua vita.
Seppur giovanissimo, venne presentato alla corte di Luigi XV che gli affidò il compito di conservatore della collezione di incisioni su pietre dure formata per volontà della favorita Mme de Pompadour.
All'epoca non veniva fatta una grande distinzione fra i materiali oggetto dell'incisione per cui, già questa prima esperienza, lo portò ad avvicinarsi anche al mondo delle medaglie antiche di cui poi diventò un grande esperto.
In seguito a questo primo incarico, sotto il nuovo re, Luigi XVI, la sua carriera venne indirizzata verso la diplomazia. 
Fu attaché a San Pietroburgo da cui venne espulso per un affare di cuore, ed a Venezia dove lo colse lo scoppio della Rivoluzione. 
Fu iscritto nella lista degli emigrati in quanto non rientrato in Francia entro il termine stabilito e per un assurdo scherzo del destino, pur essendo considerato in patria un nemico della Rivoluzione, a Venezia venne interrogato prima e sottoposto a sorveglianza poi per il motivo opposto. 
Il governo dogale infatti lo riteneva, per le sue origini francesi, un personaggio scomodo e da tenere sotto controllo per una sua presunta attività di spionaggio a favore proprio del governo rivoluzionario. 
La situazione divenne insostenibile e nell’agosto del 1792, Vivant Denon fu costretto a lasciare la laguna veneta pur non potendo rientrare in patria. 
Decise quindi di trasferirsi a Firenze dove immaginava che le sue conoscenze e doti artistiche gli avrebbero garantito una buona posizione in società. 
Vi rimase fino all’autunno del 1793 quando venne a sapere che i suoi beni di emigrato, erano stati sequestrati e destinati alla vendita.
Uomo di grande temperamento seppur mascherato da modi cortesi tipici della vecchia corte, Denon decise di cogliere al volo l’occasione rischiando la testa pur di salvare il suo patrimonio. 
La sua situazione era veramente disperata se si pensa che il suo nome era già stato inserito in una lista di candidati alla ghigliottina realizzata dal famigerato Comitato di Sicurezza Generale. Ciononostante il suo coraggio fu premiato grazie ad un ennesimo caso della sorte. 
All’interno del Comitato di Sicurezza Generale sedeva infatti un giovane artista: Jaques Louis David di cui, nel 1788 prima dello scoppio della Rivoluzione, Denon aveva grandemente e sinceramente elogiato le doti artistiche guadagnandosene così stima e riconoscenza. 
David, che poi diventerà anche presidente dello stesso Comitato, fece valere la sua autorevolezza in seno a quel consesso non solo eliminando il nome di Denon dall’elenco e facendone dissequestrare i beni ma addirittura offrendogli del lavoro. 
Prima l’incarico di realizzare l’incisione del dipinto “Il giuramento della Palla Corda” e poi quello di incidere i costumi della Rivoluzione su disegno proprio di David.
Una volta salvatosi quasi per miracolo dalla lama del boia Sanson, la sua raffinatezza ed eleganza di modi gli permise di entrare ben presto nella cerchia delle persone più prossime ai membri del Direttorio ed in particolar modo di Barras grazie al quale conobbe prima Giuseppina e poi il giovane generale Buonaparte.



Estratto da "Dominique Vivant Denon" di Alain Borghini, Midgard Editrice.


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venerdì 5 luglio 2024

Il segreto di Cardano

 di Carlo Pedini.







Ad Almarelle una vera scuola non c’era. 
A dirla tutta non c’era nemmeno un vero paese dal momento che si trattava piuttosto di un toponimo, un’area geografica un po’ dispersa di ottocento anime o giù di lì, con le abitazioni disseminate lungo la provinciale e la vasta rete di strade vicinali che da essa si snodavano. 
Anche gli abitanti non si riconoscevano in una qualche automa identità che potesse ricondursi a quel luogo: appartenevano per lo più a quelle antiche famiglie di contadini che fiorivano in tutto il viterbese, come anche nelle colline lì intorno, umbre e toscane, che guardano il Lago di Bolsena. 
La “Regia Scuola Rurale” era stata portata su quei monti ai tempi del Duce: era a classi miste, maschi e femmine, che frequentavano tutti assieme la prima, la seconda e la terza classe elementare. 
Chi avesse voluto proseguire con la quarta e la quinta doveva necessariamente andare a Boschetto, il paese vero e proprio, sei chilometri prima del bivio per Almarelle; o ad Acquapendente, alla “scuola urbana”, ma qui la distanza sarebbe stata più che doppia. 
In povere parole era una delle tante scuole di campagna disperse per il territorio, a quasi seicento metri di altitudine, sulle colline a nord del lago, a venti minuti di cammino dal capolinea delle corriere.
La scuola era sistemata in un modesto edificio, un vecchio casale dove abitava la proprietaria, la sora Lorenza, una donna probabilmente ancora giovane ma dall’età indefinibile, vedova, che viveva con la figlia, la piccola Agnese che tutti chiamavano Luna, una bimbetta piccina e paffutella di sei o sette anni, sempre sorridente, dal viso pallido e tondo ma con due belle gote rubiconde. 
Agnese era la sola rimasta in casa, dopo che i due fratelli maggiori si erano trasferiti a Roma per lavorare come domestici presso qualche famiglia altolocata, e aveva appena cominciato a frequentare la prima classe elementare. 
La sora Lorenza gestiva una piccola rivendita di generi di ogni necessità, attigua alla propria abitazione, come spesso capitava di trovare nelle piccole frazioni di campagna. 
Le due parti, negozio e abitazione, così come la grande stanza adibita a magazzino, erano comunicanti, così che la proprietaria alla fine della giornata poteva chiudere tutto dall’interno, passando dal luogo di lavoro a quello domestico senza uscire in strada.
Il casale era collocato su un poggetto un po’ rialzato rispetto alla strada provinciale, da cui si scostava poche decine di metri, e insieme ad un pugno di altre piccole abitazioni costituiva un po’ il centro della vita sociale di Almarelle. 
Il Comune di Acquapendente nel 1938, per trecento lire all’anno, aveva preso in affitto il secondo piano e ci aveva sistemato l’aula scolastica e l’abitazione dell’insegnante. 
C’era anche una cucina che veniva utilizzata non solo dal maestro, ma anche dalla sora Lorenza per preparare i pasti del piccolo refettorio, a cui erano ammessi gli alunni più bisognosi e quelli che giungevano dalle frazioni più lontane che non avevano modo di tornare a casa per il pranzo, quando era previsto il rientro pomeridiano. 
I servizi igienici erano fuori, sistemati in un casotto di mattoni intonacati, e, cosa insolita per l’epoca, erano in due stanzini, distinti in maschili e femminili, con una latrina alla turca per i primi e un water in ceramica nuda per le seconde. 
Da allora poco o nulla era cambiato, se non l’intitolazione della scuola: da un’ormai inopportuno “Arnaldo Mussolini” – il fratello del Duce, che in gioventù era stato insegnante elementare – si era passati dopo la guerra ad un molto più rassicurante “Edmondo De Amicis”.
La stanza utilizzata come aula era ben alta, come in tutti i casali, 
ed era molto spaziosa: più che sufficiente per gli alunni che la frequentavano. 
Era anche ben illuminata, con due grandi finestroni che guardavano a sud, in direzione del lago. 
Nell’aula c’era un grande camino, che d’inverno ogni mattina veniva acceso dagli alunni con la legna che portavano da casa, o con qualche ramoscello che potevano aver raccolto lungo la strada. 
Purtroppo, per le sue dimensioni, non riusciva mai ad essere ben riscaldata e spesso, nei giorni di gran freddo, bambini e maestro dovevano indossare sciarpe e cappotti durante tutta la lezione. 
Questi piccoli lavori, di cui ci occupavamo noi alunni, facevano parte delle materie imparate a scuola: il maestro, oltre a leggere, scrivere e contare, ci insegnava anche tutte quelle attività che appartenevano alla vita quotidiana e per le quali tutti erano chiamati a dare il proprio contributo. 
Come fare legna e accendere il fuoco, ma anche andare a prendere l’acqua alla fontana, o spazzare la stanza alla fine della lezione per raccogliere i tanti trucioli delle matite temperate via via durante la giornata.
Bisogna dire che l’aula, se pur arredata modestamente, risultava funzionale alle esigenze scolastiche: un grande armadio a vetri raccoglieva i materiali di cancelleria, con quaderni a righe e a quadretti, matite, gomme, penne, pennini, inchiostro e qualche calamaio di riserva. 
Conteneva pure qualche straccio, gessetti bianchi e colorati, fogli bianchi da disegno, elastici e qualche vasetto di “coccoina”, una colla bianca e liscia, dal dolce sapore di mandorla, che il maestro per prudenza riponeva sempre sul piano più alto, per evitare che i bambini se la mangiassero di nascosto, come spesso accadeva. 
Alle pareti alcune mensole servivano per riporre altro materiale, mentre un lungo asse di legno con dei ganci attaccati ad altezza di bambino fungeva da attaccapanni. 
C’era anche qualche quadretto disegnato dagli alunni, che abbelliva la stanza, mentre due nuovissime carte geografiche dell’Italia fisica e politica avevano preso il posto della vecchia carta del Regno e dell’Abissinia. 
I vecchi ritratti del Re e del Duce erano spariti da tempo, sostituiti da quello del Presidente della Repubblica, un uomo occhialuto, dallo sguardo simpatico, con un paio di baffetti ingrigiti sopra due labbra appena accennate, tirate all’indietro e allargate a disegnare un sorrisetto spiritoso, quasi beffardo, che disponeva l’animo al buonumore. 
Invece il crocifisso al centro della parete, dietro la cattedra, era sempre lo stesso. 
Era l’unico arredo appeso che non fosse cambiato dai tempi del Re, a ricordarci – erano parole del maestro – che «…cambiano gli uomini e cambiano i governi, ma il Padreterno resta sempre al suo posto.»



Estratto da "Il segreto di Cardano" di Carlo Pedini, Midgard Editrice.


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