di Massimo Giachino.
Era quasi l’una di notte quando mi misi in auto per tornare a casa e, seppure non si potesse dire che fossi ubriaco, una leggera nota di insicurezza nei passi mi rese dubbioso se mettermi alla guida oppure no.Optai per il sì. Dopo aver salutato tutti, mi sistemai alla guida, ed al secondo tentativo riuscii ad infilare la chiave e partire. Per fortuna ero stato tra gli ultimi ad arrivare alla festa per cui la mia auto era parcheggiata lontano, e senza altre auto troppo vicine che avessero potuto rischiare la propria incolumità durante la mia manovra. Giurai di non bere più alla prossima festa, bastava poco per perdere le redini, e non era mia abitudine. Prima di partire mi sfilai il giubbotto, anche se eravamo ai primi di febbraio e l’aria era gelida. Avevo la fronte perlata ed ero accaldato. Dopo qualche attimo immobile e con gli occhi chiusi, mi ripresi ed accesi il motore. Ora mi sentivo più lucido. Ingranai la retromarcia e mi immisi nella strada principale. A quell’ora non è che vi fosse un grande traffico, ma mi sollevò realizzare che la partenza fu più facile del previsto. Dopo pochi metri iniziò a piovere, e la strada cominciò ad essere viscida e la visibilità non ottimale. Casa mia distava pochi chilometri dal luogo della festa e la strada era tranquilla, solo gli ultimi 300 metri mi preoccupavano. La carreggiata si restringeva in modo netto per raggiungere una piccola frazione, costeggiando campi e frutteti. Una volta svoltato a destra, mi infilai in quella strada tanto temuta, con la consapevolezza di essere ormai quasi arrivato, mancava poco.Lo scrosciare della pioggia aumentò senza preavviso, in lontananza cominciava a fare capolino anche qualche fulmine. “Maledizione”! – pensai. “Mi toccherà bagnarmi, non ho preso l’ombrello”. Girai lo sguardo per controllare se fossi così fortunato da averne uno sul sedile posteriore, ma la dea bendata non era dalla mia parte. Decisamente no. Quando mi voltai nuovamente per guardare la strada davanti a me, vidi solo una sfuggente ombra scura attraversarmi la strada. Preso dallo spavento, inchiodai premendo con quanta forza avessi in corpo sul pedale del freno. L’effetto che ne derivò fu esattamente quello opposto alla mia volontà. L’auto perse aderenza con il terreno, acquistando addirittura velocità e travolgendo quella scura sagoma nella strada, qualunque cosa ella fosse.L’auto sobbalzò nel contraccolpo, ed io colpì con la parte superiore del capo il tettuccio interno dell’auto. Qualche decina di metri più avanti riuscii finalmente a fermarmi, con il cuore che batteva all’impazzata ed incapace di qualsiasi movimento. Rimasi immobile alcuni secondi, che sembrarono un’eternità, riuscendo solo a guardare il display dell’auto: segnava le 01:11. Inconsciamente mi concentrai su quei numeri, evitando così di dover guardare nello specchietto retrovisore. Il terrore mi avvolse, raggelando le mie vene. Non avevo il coraggio di guardare chi o cosa avessi incautamente travolto. E se fosse stata una persona? Vedevo già materializzate nella mia mente una moltitudine di auto della polizia, la mia foto segnaletica e la vergogna mediatica che mi avrebbe sotterrato.Ma ancora più di questo, il dubbio di non sapere cosa fosse successo, mi assillava. Trovai il coraggio e, tremando come una foglia, alzai gli occhi per guardare. Le condizioni meteo non mi permettevano di avere una chiara visione, cercai di dribblare le gocce di pioggia scrosciante socchiudendo gli occhi. Nulla. Avrei dovuto scendere dall’auto per assicurarmi di cosa fosse successo. Mi infilai il giubbotto ed estrassi il cappuccio, unica difesa tra me e il maltempo. Aprii la portiera, e per un attimo pensai di richiuderla e partire, facendo finta che non fosse successo nulla. Finalmente mi decisi a scendere.
Racconto vincitore del Premio Midgard Narrativa 2025
Estratto dall'antologia Hyperborea 9, Midgard Editrice.
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