Intervista a Diana
Pavel, autrice del libro “La banalità del quotidiano”, edito nella Collana
Poesia della Midgard Editrice.
Buongiorno,
parlaci della tua opera, come nasce?
Buongiorno.
Parlare della
mia opera sarà come fare un viaggio dentro a me stessa.
Ogni singola
parola scritta rappresenta una parte del mio essere e della mia personalità
sensibile che mi accompagna in ogni esperienza.
Ho iniziato a
scrivere “La banalità del quotidiano” la scorsa estate, tra un esame
universitario e l’altro.
Sentivo il
bisogno di mettere nero su bianco i flussi di coscienza che mi impedivano di
concentrarmi pienamente.
A scrivere mi
ha portato la mia timidezza e la mia incapacità di comunicare sentimenti
repressi.
È sempre stato
un momento di sfogo nel quale mi rifugiavo per cercare una tranquillità
emotiva.
La voglia di
farmi capire ed essere capita mi ha spinta a desiderare che altre persone
leggessero le mie parole, si immedesimassero in esse e ne traessero beneficio.
Il titolo ci parla della “banalità del
quotidiano”. Cos’è per te?
“La banalità del quotidiano” è un titolo che
sento mio.
Un pensiero fisso che mi ha tormentato per
troppo tempo seguito da numerose domande sul perché di certe situazioni.
Quasi come se fosse una lotta continua verso il
raggiungimento di una perfezione che sfocia nella banalità assoluta.
Una routine dalla quale non si può o, più
semplicemente, non si vuole uscire perché è più facile vivere ogni giorno la
stessa storia piuttosto che voltare pagina e affrontare una battaglia che porta
al cambiamento.
Mi ha sempre spaventato l’idea di ricominciare
da capo, di lasciarmi alle spalle ricordi passati e dirigermi verso orizzonti
sconosciuti.
Nella mia raccolta parlo spesso di apatia
descrivendola come una paralisi mentale, il non provare nessun genere di
interesse verso se stessi e il mondo circostante.
Il vivere la vita come inetti, privi di voglia
di guardare al futuro con speranza e fiducia.
Una perdita di coinvolgimento seguita
dell’abbandono e dall’accettazione di ciò che si ha, pensando di meritare il
peggio.
Qual è il rapporto fra la scrittura e il resto
della tua vita?
La scrittura è parte attiva della mia vita, una
conseguenza del mio vivere.
Leggendo i miei testi si può capire molto sulla
mia personalità: non riesco a nascondermi quando scrivo.
Sento la necessità di mostrare i miei stati
d’animo senza censure, in piena sincerità.
Una vita senza scrittura non avrebbe alcun senso
per me e non riesco ad immaginarla perché, fino ad ora, è l’unico mezzo che
conosco per esprimermi.
Le parole pronunciate ad alta voce mi hanno
sempre spaventato più del dovuto, preferendo quindi descrivermi attraverso un
grido muto.
A parer mio, parte tutto dal cuore. Fare poesia
vuol dire non avere vergogna di mettersi a nudo per gli altri e, soprattutto,
per se stessi.
È uno stile di vita intimo che può essere
coraggiosamente condiviso.
Quali scrittori ti piacciono e ti ispirano?
Fin dalle superiori ho apprezzato la scrittura
di Joyce trovandola coinvolgente in una maniera tale da impressionarmi, così ne
ho tratto ispirazione. I suoi stream of consciousness mi hanno fatta riflettere
e iniziare a scrivere.
Anche Virginia Woolf è stata un grande punto di
riferimento per me, così come Alda Merini.
Seppur poco conosciuto, una mia fonte
d’ispirazione è Vasco Brondi, il cantante del gruppo “Le Luci della centrale
elettrica”, i suoi testi sono pieni di significato, a parer mio.
Progetti
futuri?
Attualmente sto
lavorando ad una nuova raccolta di poesie, oserei dire un sequel de “La
banalità del quotidiano”.
E sto finendo
un romanzo iniziato due anni fa e poi abbandonato.
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