mercoledì 11 luglio 2018

Intervista a Diana Pavel


Intervista a Diana Pavel, autrice del libro “La banalità del quotidiano”, edito nella Collana Poesia della Midgard Editrice.






Buongiorno, parlaci della tua opera, come nasce? 

Buongiorno.
Parlare della mia opera sarà come fare un viaggio dentro a me stessa.
Ogni singola parola scritta rappresenta una parte del mio essere e della mia personalità sensibile che mi accompagna in ogni esperienza.
Ho iniziato a scrivere “La banalità del quotidiano” la scorsa estate, tra un esame universitario e l’altro.
Sentivo il bisogno di mettere nero su bianco i flussi di coscienza che mi impedivano di concentrarmi pienamente.
A scrivere mi ha portato la mia timidezza e la mia incapacità di comunicare sentimenti repressi.
È sempre stato un momento di sfogo nel quale mi rifugiavo per cercare una tranquillità emotiva.
La voglia di farmi capire ed essere capita mi ha spinta a desiderare che altre persone leggessero le mie parole, si immedesimassero in esse e ne traessero beneficio.


Il titolo ci parla della “banalità del quotidiano”. Cos’è per te?

“La banalità del quotidiano” è un titolo che sento mio.
Un pensiero fisso che mi ha tormentato per troppo tempo seguito da numerose domande sul perché di certe situazioni.
Quasi come se fosse una lotta continua verso il raggiungimento di una perfezione che sfocia nella banalità assoluta.
Una routine dalla quale non si può o, più semplicemente, non si vuole uscire perché è più facile vivere ogni giorno la stessa storia piuttosto che voltare pagina e affrontare una battaglia che porta al cambiamento.
Mi ha sempre spaventato l’idea di ricominciare da capo, di lasciarmi alle spalle ricordi passati e dirigermi verso orizzonti sconosciuti.
Nella mia raccolta parlo spesso di apatia descrivendola come una paralisi mentale, il non provare nessun genere di interesse verso se stessi e il mondo circostante.
Il vivere la vita come inetti, privi di voglia di guardare al futuro con speranza e fiducia.
Una perdita di coinvolgimento seguita dell’abbandono e dall’accettazione di ciò che si ha, pensando di meritare il peggio.


Qual è il rapporto fra la scrittura e il resto della tua vita?

La scrittura è parte attiva della mia vita, una conseguenza del mio vivere.
Leggendo i miei testi si può capire molto sulla mia personalità: non riesco a nascondermi quando scrivo.
Sento la necessità di mostrare i miei stati d’animo senza censure, in piena sincerità.
Una vita senza scrittura non avrebbe alcun senso per me e non riesco ad immaginarla perché, fino ad ora, è l’unico mezzo che conosco per esprimermi.
Le parole pronunciate ad alta voce mi hanno sempre spaventato più del dovuto, preferendo quindi descrivermi attraverso un grido muto.
A parer mio, parte tutto dal cuore. Fare poesia vuol dire non avere vergogna di mettersi a nudo per gli altri e, soprattutto, per se stessi.
È uno stile di vita intimo che può essere coraggiosamente condiviso.


Quali scrittori ti piacciono e ti ispirano?

Fin dalle superiori ho apprezzato la scrittura di Joyce trovandola coinvolgente in una maniera tale da impressionarmi, così ne ho tratto ispirazione. I suoi stream of consciousness mi hanno fatta riflettere e iniziare a scrivere.
Anche Virginia Woolf è stata un grande punto di riferimento per me, così come Alda Merini.
Seppur poco conosciuto, una mia fonte d’ispirazione è Vasco Brondi, il cantante del gruppo “Le Luci della centrale elettrica”, i suoi testi sono pieni di significato, a parer mio.


Progetti futuri?

Attualmente sto lavorando ad una nuova raccolta di poesie, oserei dire un sequel de “La banalità del quotidiano”.
E sto finendo un romanzo iniziato due anni fa e poi abbandonato.


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