ROMA, 706 a.C.
Con un
sospiro di sollievo
e di pura
libertà, sognata forse
più da un
re che non
dai suoi sudditi,
Numa Pompilio varcò
a passi svelti
il ponticello di
legno sul Fiume
Sacro. L’alba di
una mattina di
piena primavera progrediva
rapidamente verso una
giornata azzurrissima, da
respirare fino alla
fine senza pensieri,
per fondersi nell’abbraccio di
una natura che
si offriva gioiosamente
e liberamente agli
sguardi di chiunque,
contadino o re.
Eppure, in quella
mattina radiosa dei
primi di maggio,
lo sguardo di
Numa Pompilio scivolava
senza presa su
ogni immagine bella
che la divina
benignità aveva creato
per lui e per il
suo popolo. Sospirò
ancora, mentre prendeva
un sentiero in
leggera salita che
lo avrebbe condotto
all’apice di un rilievo, dove
aveva fatto erigere
una capannuccia di
legno: che, in
effetti, sembrava proprio
il ricovero di
un qualunque pastore… ma
lì, fra quei
pendii che dolcemente
digradavano a valle,
non sentiva davvero
il bisogno di
circondarsi di simboli
regali: e senza dimenticarsi mai
i suoi compiti istituzionali, forse
soltanto in quel
luogo riusciva ad
incontrare i suoi
pensieri di uomo
qualunque, alleggeriti dall’assillo
del dover essere, dover fare,
che arcigno insegue
il re ogni
giorno, dalla mattina
alla sera… curiosamente, le
sue divagazioni del
momento, e senza
un’apparente ragione, lo
riportarono indietro di
nove anni, al
giorno della sua
incoronazione. Avvenne in
cima al Campidoglio,
con la cerimonia
e il verdetto
degli aruspici etruschi,
che magari preferivano
per davvero un
sabino a un
romano, come primo
successore di Romolo;
in ogni caso,
accettarono i segni
del cielo. E
il cielo, in
direzione di Monte
Albano, centro di
culto latino, offrì
al loro sguardo
un volo di uccelli:
il volere degli Dèi era dunque
propizio, e così
Numa Pompilio, figlio
del sabino Pompone
della tribù dei Tities, venne
eletto secondo re di Roma,
nonché capo militare,
giudiziario e religioso.
Ispirato da improvviso
timore, fu sul
punto di sottrarsi, Numa:
ma se l’intendimento
degli Dèi era
stato chiaro, poteva
davvero opporsi ad
esso, senza mostrarsi
empio? Così accettò,
pregando la dea
Cerere, sua protettrice,
di guidarlo in
quell’arduo compito. Tuttavia,
da uomo avveduto
non meno che
pio, si affrettò
a rivolgere perorazioni
anche a tutte
le altre divinità
romane, Giove, Marte
e Quirino in
primis: dotati di
poteri soprannaturali sì, ma
anche di istinti
molto umani, questo
credeva Numa, e
dunque perché rischiare
di accendere la
loro avversione trascurandoli
proprio in quel
transito così critico
della sua vita?
E dunque, il
primo atto istituzionale
del suo regno
fu quello di
nominare un sacerdote
dedicato al culto
del dio Quirino,
a fianco dei
due già esistenti
dedicati al culto
di Marte e
di Giove, riunendoli poi
in un unico
collegio sacerdotale, detto
dei flamini. Ma forse
più importante, almeno per
la vita quotidiana
del popolo di Roma fu l’istituzione del
collegio sacerdotale dei
Pontefici, diretti dal
Pontefice Massimo, carica
che lo stesso
Numa ricoprì per
primo e che
aveva il compito
di vigilare sulla
moralità pubblica e
privata. Ora, non
si poteva certo
dubitare che il
primo a dare
il buon esempio
dovesse essere proprio
il re: tra
l’altro, in ragione
della sua rettitudine,
a Numa Pompilio
veniva attribuito l’appellativo
di Pius, perciò onorarlo
tutti i giorni
sembrava per chiunque,
e a lui
stesso per primo,
uno svolgersi naturale
e imprescindibile, come
l’alternarsi del giorno
con la notte.
Eppure… eppure lo sapeva,
il re, che
anche lui non
poteva dirsi senza
macchia. Sospirò una
terza volta, mentre
ormai pochi passi
lo dividevano dalla sua
capannuccia di legno.
Stava per incontrare
il suo consigliere
sulle leggi religiose
e sulle riforme,
che però non
era un senatore
o un uomo
di corte, ma
una ninfa Camena,
Egeria. Non interamente
umana, ma neanche
interamente divina, Egeria
non tardò ad
aprire una breccia
irreparabile nella mente
e nei sensi
del re, guidandone
infallibilmente i migliori
slanci. Forse, ed
era comunque un’ipotesi
azzardata, Numa Pompilio
avrebbe potuto un
giorno fare a meno di
quel fascino, traducibile
soltanto dal dizionario
delle emozioni; ma
non anche della
sua misteriosa saggezza,
che quasi sembrava
sconfinare nel vaticinio.
Come farei a
regnare senza di
lei? pensò, entrando nella
capannuccia. Ma soprattutto,
come farei a
vivere senza di
lei? si chiese, serrando
le mascelle. Sbuffò,
non era certo
venuto fin lì
per caricarsi di
altri e forse
più tormentosi assilli,
ma soltanto per
godersi quei momenti
che di una Bellezza inestimabile
gli avrebbero colmato
l’anima e i
sensi… certo, alla sua
soave consigliera lui
doveva lasciare qualcosa
di molto importante,
ma in fondo anche
quel dovere verso
di lei altro
non rappresentava se
non un piacere dalle forme
raffinate. E
con questo bel
pensiero in testa, uscì dalla
capannuccia per rimirare,
lì a pochi
passi dall’ingresso, il
laghetto a forma
di conchiglia nel
quale, spesso, Egeria
prendeva il bagno insieme
all’altra ninfa Camena,
Carmenta. Sogguardò il
sole di maggio,
ora decisamente più
alto proprio di
fronte a lui.
Egeria non avrebbe
tardato ad arrivare.
Estratto da "Il sogno della ninfa e altri racconti" di Stefano Lazzari, Midgard Editrice 2019
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