martedì 23 dicembre 2025

Intervista a Giulia Rizzardi

 





Buonasera, come nasce La bislacca commedia del potere occulto?

Nasce dall’elaborazione narrativa di molte teorie complottistiche, rilette però in chiave fantastica e goliardica. Ho immaginato il potere come un grande palazzo a più piani, dove salire significa avvicinarsi progressivamente alla verità, quella riservata a pochi e occultata al “gregge umano”. Il viaggio diventa così una metafora: più ci si allontana dalla massa appecorata, più si scoprono i meccanismi oscuri che governano il mondo. La forma della commedia serve a rendere sopportabile l’orrore, ma anche a smascherarlo, mostrando quanto il male possa presentarsi sotto sembianze grottesche e persino ridicole.


Quali sono le tematiche principali di questa tua opera?

Al centro c’è il tema delle pulsioni umane — avidità, sete di potere, violenza, odio, lussuria — che costituiscono il vero motore del male nel mondo. Al piano terra del palazzo queste pulsioni prendono forma attraverso eventi storici reali e drammatici, come il disastro del Vajont, la Shoah o la bomba atomica, a dimostrazione di come l’avidità e la prevaricazione possano avere conseguenze devastanti sull’umanità. Accanto a ciò emerge il tema della manipolazione delle coscienze: il gregge umano, distratto, sedato e confuso, rinuncia a cercare la verità. I guardiani, i servi dell’élite e figure simboliche come il bibitaro o “La Leopolda” rappresentano i mezzi attraverso cui il potere ottunde le menti e mantiene il controllo.


Ci sono scrittori o scrittrici che ti ispirano o che ti piace leggere?

Mi sento affine a quegli autori che hanno usato l’allegoria, il grottesco e il fantastico per raccontare la realtà e il potere, più che la cronaca diretta. Amo la letteratura che mette in scena viaggi simbolici, mondi deformati e personaggi caricaturali per parlare dell’uomo e delle sue contraddizioni. In generale, mi ispira chi riesce a fondere denuncia e ironia, mostrando come il confine tra tragedia e farsa, soprattutto quando si parla di potere, sia spesso sottilissimo.



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sabato 20 dicembre 2025

Intervista a Simona Cappellini

 





Buonasera, come nasce il romanzo Fino a otto?

Fino a Otto nasce da molti anni di esperienza nel mondo degli affitti brevi di lusso in Toscana. Ho iniziato questo lavoro giovanissima e l’impatto con un universo fatto di ville storiche, famiglie nobili o altolocate, rituali immutabili e gerarchie ancora vive nei primi anni Duemila è stato immediato e straniante. Era come entrare in un mondo parallelo, regolato da codici propri, spesso sospeso nel tempo.
Fin da subito ho avuto la sensazione che le persone che orbitavano attorno a quell’ambiente — proprietari, collaboratori, ospiti di passaggio — fossero già personaggi, parte di un tessuto narrativo che chiedeva solo di essere ascoltato. Per chi, come me, ha sempre amato la scrittura, era impossibile non lasciarsi attraversare da quelle storie. Ci è voluto del tempo per trovare la distanza giusta, ma alla fine ho sentito il bisogno di fissare quell’esperienza sulla pagina, trasformandola in romanzo.


Quali sono le tematiche principali di questa tua opera?

Le tematiche principali di Fino a Otto ruotano attorno alla trasformazione, sia individuale che sociale. Il romanzo attraversa i contrasti generazionali e le fratture tra mondi diversi, mettendo in luce il senso di smarrimento che nasce quando i valori tradizionali si svuotano o si trasformano in pura rappresentazione. Al centro c’è anche la perdita — di riferimenti, di autenticità, di un’idea condivisa di appartenenza — e il tentativo, spesso fragile, di ridefinire sé stessi all’interno di un sistema che cambia rapidamente.

 
Ci sono scrittori o scrittrici che ti ispirano o che ti piace leggere?

Per questo romanzo mi sono ispirata soprattutto alla narrativa sudamericana. In particolare, Roberto Bolaño e Gabriel García Márquez sono stati riferimenti importanti, molto diversi tra loro ma ugualmente capaci di intrecciare dimensione reale e tensione simbolica, quotidiano e mito. Di entrambi mi affascina la capacità di far emergere, attraverso le storie individuali, un immaginario collettivo, e di trasformare luoghi e comunità in veri e propri personaggi.



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martedì 16 dicembre 2025

Intervista a Rossella Bruzzone

 





Buonasera, come nasce il saggio Un giorno di pioggia?

Tempo fa, un'uggiosa mattina d'autunno, accesi la televisione e con grande sorpresa ho scoperto che su Italia 1 veniva trasmesso un anime che guardavo durante la mia infanzia e adolescenza. È stato un piacevole tuffo del passato e da questa  nostalgica emozione è nato il desiderio di scrivere queste pagine per ricordare e condividere le storie delle protagoniste dei cartoni animati degli anni Ottanta. Questo decennio infatti più che ogni altro è stato assegnato dall'importanza culturale dei cartoni animati televisivi importati dal Giappone e sono diventati la culla di un fenomeno mediatico rivoluzionario, diventando patrimonio popolare- culturale e pietra miliare dell'infanzia di una generazione che non potrà mai dimenticare le eroine dei shojo.


Quali sono le tematiche principali di questa tua opera?

In questo breve saggio ho cercato di analizzare le figure femminili più significative e anche i generi più significativi degli anime anni Ottanta, partendo dalle antesignane Heidi e Anna dai capelli rossi, per passare alle maghette, agli anime sportivi, a quelli strappalacrime, ai grandi successi come Candy Candy, Georgie, Kiss me Licia e molti altri. Le tematiche affrontate sono numerose: innanzitutto la difficoltà a diventare grandi, dall'infanzia all'adolescenza abbiamo spaziato in epoche molto diverse, ma trattando sempre termini universali come il desiderio di essere accettati, le prime pene d'amore, il rapporto con i genitori, naturali o adottivi, visto che molte protagoniste sono purtroppo orfane, ma soprattutto la necessità di trovare il proprio posto nel mondo seppur a costo di grandi rinunce e sacrifici.

 
Degli anime che ci citi quali sono i tuoi preferiti?

I miei preferiti sono senza dubbio Heidi perché rappresenta un tenero ricordo d'infanzia e mi commuovo tutt'ora quando mi capita di vederne qualche puntata, inoltre da educatrice trovo in questo cartone animato tantissimi spunti veramente interessanti e profondi. Lady Oscar è l'eccellenza dal punto di vista grafico linguistico e narrativo è forse secondo me l'anime più bello che sia stato realizzato in quegli anni ebbe anche il grandissimo merito di aver fatto conoscere a una generazione la Rivoluzione francese e e poi lei…la Cenerentola del Monte Fuji…la dolcissima Licia io ho adorato Kiss me Licia perché è l'elogio della semplicità, romantico ma non sdolcinato, almeno non troppo, è l'anime che forse tutt'ora guardo con maggior tenerezza, proprio perché identificarsi con la giovane protagonista era molto facile per noi ragazzine….Però non voglio dirvi altro altrimenti non avrete più alcun interesse a comprare il mio libro….




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martedì 9 dicembre 2025

Intervista a Claudio Michelazzi

 





Buonasera, come nasce il saggio Macbeth?

Il saggio nasce da un’intuizione che mi ha accompagnato per anni: Macbeth non è soltanto una tragedia teatrale, ma una drammatizzazione del sogno, o meglio dell’inconscio in tumulto.
Non è un’opera che si limita a narrare un regicidio, un’ambizione o una caduta morale: è una rappresentazione simbolica di ciò che accade quando l’Io viene travolto dalle immagini archetipiche che emergono dal profondo. La scintilla iniziale è stata questa domanda: “E se tutto Macbeth fosse un sogno sognato dal protagonista?” Man mano ho compreso che quella domanda apriva un orizzonte immenso. Leggendo l’opera con attenzione psicologica, emerge che il paesaggio è onirico fin dall’inizio, i personaggi funzionano come figure interiori (Ombra, Anima, doppio, Sé, persecutori), la progressione drammatica coincide con un decorso psicopatologico: allucinazioni, perdita del sonno, delirio, inflazione dell’Io, dissociazione. Il saggio nasce, dunque, dall’idea che Shakespeare metta in scena non un dramma storico, ma un sogno  che si converte in psicosi, e che quel sogno abbia valore non soltanto letterario, ma antropologico e psicologico. È un tentativo di andare oltre l’interpretazione accademica, per entrare nel cuore dell’immaginazione simbolica occidentale e mostrarne la profondità abissale.



Quali sono le tematiche principali di questa tua opera?

Il saggio si muove su più livelli, come una spirale. Le tematiche sono molte, ma tre emergono con particolare forza. Macbeth come sogno archetipico, quindi l’intera tragedia è letta come un viaggio nell’inconscio, dove la Scozia non è un luogo geografico, ma una mappa psichica. Protagonista e vittima del proprio mondo interiore, Macbeth sogna figure profetiche (le streghe), immagini persecutorie (Banquo fantasma), simboli di colpa che diventano corpo (il sangue sulle mani),
alterazioni del tempo e dello spazio. La scena teatrale diventa la camera oscura della psiche. La discesa psicopatologica: dal desiderio alla psicosi. Una seconda tematica centrale è l’analisi del Macbeth come progressiva disintegrazione mentale: allucinazione del pugnale, voce che lo condanna a non dormire più, paranoia verso Banquo, delirio di grandezza, incapacità di interpretare simboli (le profezie), isolamento e automatizzazione dell’azione.
Il regicidio non è solo un atto morale: è un gesto di rottura psichica, l’uccisione del Sé interiore, del principio ordinatore della personalità. La tragedia non è solo politica: è clinica, interiore, psichica. Altra tematica centrale: La dimensione mitica, Macbeth come re-sacrificato secondo la Tradizione indo-europea. Il saggio recupera anche la dimensione arcaica e mitologica del dramma: Macbeth incarna l’antico archetipo del re usurpatore destinato alla morte rituale, le streghe appartengono alla triade delle Parche / Norne, la foresta di Birnam è la natura sacra che corregge l’eccesso umano,
il sangue è miasma che contamina il mondo, la regalità usurpata è sempre regalità di tenebra. Questo permette di collegare Shakespeare alle strutture profonde della mitopoiesi europea: il re che non rispetta il limite, il re che rompe il patto cosmico, il re che deve cadere per ristabilire l’equilibrio.


 
Come va inquadrato il tuo testo nella nostra epoca?

Oggi viviamo in una fase particolare  che il mondo della Tradizione definisce Età del Lupo: un’epoca in cui l’Io è sovraesposto, inflazionato, scollegato dalla dimensione simbolica del Sacro e dagli equilibri interiori. Il mio testo si colloca proprio qui. Macbeth è un dramma del Seicento, ma parla con una precisione chirurgica del nostro tempo: della proiezione dell’Ombra, della perdita del sonno e dell’interiorità, del potere inteso come dominio, come pensiero unico, come omologazione globalista, dell’erosione del sacro, della frantumazione dell’identità, della trasformazione del desiderio in delirio.
Viviamo in una società che spesso confonde immagine e realtà, opinione e verità, ambizione e vocazione. Proprio come Macbeth confonde simboli e certezze, desiderio e destino. Il mio saggio si rivolge quindi al lettore contemporaneo non come analisi letteraria, ma come specchio psicologico e collettivo. Macbeth siamo noi quando smettiamo di ascoltare l’inconscio, quando trasformiamo il sogno in strumento, quando rinneghiamo il limite, il confine, quando l’Io diventa l’unico orizzonte. In questo senso, il testo è un invito: a recuperare la funzione simbolica, l’attenzione alle immagini interiori, la capacità di dialogare con il profondo prima che il profondo si trasformi in sintomo. 
Chiudendo voglio fare un ringraziamento particolare a Fabrizio Bandini e alla casa editrice Midgard per l'importantissimo lavoro che svolgono. 





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Intervista a Giuliano Bruno

 





Buonasera, come nasce il romanzo Una fanciullezza rubata?

Una fanciullezza rubata nasce dall’esigenza profonda di ricomporre i frammenti della vita di mia madre, una vita segnata da un passato doloroso e tragico che ha inevitabilmente influenzato anche la nostra esistenza. Il suo dolore era una presenza silenziosa, un’ombra che ci accompagnava ogni giorno, e di cui conoscevamo i contorni senza comprenderne davvero l’intera storia.
Dopo la sua scomparsa ho sentito che ricostruire quel passato non fosse soltanto un atto d’amore, ma quasi una necessità. Mentre mettevo insieme i pezzi della sua vita, iniziavo a vedere le varie fasi della sua esistenza come personaggi veri, quasi reali: la bambina impaurita e maltrattata, l’adolescente triste e sola, la giovane donna fragile e insicura.
Mi sorprendevo spesso a desiderare di poterle abbracciare, una per una. È stato come incontrare mia madre sotto nuove forme, scoprendo la persona che era stata prima di diventare “la mamma”. E questo mi ha fatto capire quanto spesso i figli dimentichino che i genitori sono esseri umani con un vissuto, con ferite e fragilità che li hanno modellati.
Scrivere questo libro è stato quindi un percorso di amore e di comprensione: un modo per restituirle dignità, per darle finalmente quella voce che per troppo tempo era rimasta soffocata. E, allo stesso tempo, è stato anche un viaggio dentro me stesso, perché il suo dolore era, in qualche modo, lo specchio in cui mi sono sempre riflesso.
Da questo intreccio di memoria, emozione e ricerca della verità è nato il romanzo.




Quali sono le tematiche principali di questa tua opera?

Le tematiche centrali del libro ruotano attorno alle cicatrici che una disgrazia può lasciare su una famiglia. A volte un singolo evento è capace di cambiare il destino di tutti: non solo dei diretti coinvolti, ma anche delle generazioni future.
La storia affronta la separazione, l’essere strappati agli affetti più cari quando si è troppo giovani per comprenderne il senso; parla di perdita, come quella di restare senza genitori in un’età in cui la protezione è tutto.
C’è il tema dell’ingiustizia, dell’essere giudicati e puniti per colpe non proprie; quello del pregiudizio e dell’omertà, che in certi contesti diventano barriere invalicabili.
E poi la sofferenza di una famiglia divisa, gli abusi subiti, il dolore delle perdite ripetute e l’impotenza di fronte a verità che non si possono dire, pur sapendo che potrebbero cambiare tutto.
È un racconto che parla di ferite e sopravvivenza, di silenzi pesanti e di resilienza. Questi temi rappresentano il cuore pulsante della mia opera e legano insieme l’intera vicenda.


 
Ci sono scrittori o scrittrici che ti ispirano o che ti piace leggere?

Mi piacciono molto gli scrittori sudamericani: Paulo Coelho, Isabel Allende e Gabriel García Márquez sono tra gli autori che più hanno influenzato la mia sensibilità narrativa.
Apprezzo anche i grandi classici: Charles Dickens, le atmosfere romantiche e profonde di Jane Austen, e naturalmente Charlotte Brontë con Jane Eyre.
Tra gli autori contemporanei, mi ha colpito molto Khaled Hosseini, autore de Il cacciatore di aquiloni, così come ho amato le opere di Nicholas Sparks, capaci di toccare corde emotive molto intime.
E poi ci sono gli scrittori che hanno accompagnato il mio percorso di lettore, come Thomas Mann e Hermann Hesse.
In realtà sono tanti gli autori che mi ispirano: ognuno, in modo diverso, ha lasciato un segno nel mio modo di leggere il mondo e di raccontarlo.




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mercoledì 3 dicembre 2025

Intervista a Stefano Pischiutta

 





Buonasera, come nascono i Diari del Chewing Gum?

Buonasera a te. I Diari del Chewing Gum nascono dal desiderio di rendere espliciti i processi che una persona attraversa al di fuori dello studio di psicoterapia, mentre è coinvolta come paziente in un processo di trasformazione. Il mio desiderio, in quanto psicoterapeuta, è anche quello di fornire una sorta di “manuale” per futuri pazienti in psicoterapia, per far comprendere quello che succede alla persona, soprattutto nella sua vita quotidiana, come continuazione del lavoro svolto formalmente, nella seduta settimanale. Il mio scopo è anche mostrare come il processo sia generalmente rappresentabile come un percorso costituito di fasi molto simili per tutti, che vanno da: un inizio, in cui ci si conosce tra terapeuta e paziente, e insieme si costituisce un’alleanza per il lavoro da svolgere; l’esplorazione del passato, che si cerca poi sempre di riconnettere all’esperienza presente; l’emergenza delle resistenze, superare le quali costituisce la sfida dell’intervento psicoterapico; il risveglio, inteso come fase di ristrutturazione della personalità; la chiusura, che è una fase dall’esito affatto scontato.  
Per realizzare lo scopo che ho descritto, mi sono avvalso delle storie di pazienti che ho avuto in terapia, a cui mi sono ispirato e le cui caratteristiche ho cambiato per renderli completamente anonimi e non riconoscibili. In più, essi non vengono mai nominati all’interno del libro, per dare alla narrazione un carattere di maggiore universalità. Si tratta di due pazienti, un uomo e una donna, che non si conoscono né hanno nulla in comune, se non quella di condividere lo stesso psicoterapeuta, che facilita la loro trasformazione. Essi scrivono diari, dove narrano a sé stessi gli accadimenti connessi al loro processo di vita. Presento questi diari alternando i capitoli, uno per Lei, l’altro per Lui, allo scopo di creare un ritmo, in base al quale il lettore viene invitato a entrare e uscire, passando da una storia all’altra, cercando di immedesimarsi in esse e di rintracciare dei nessi tra di esse. Da qui il sottotitolo, “Intrecci azzardati”. 


Quali sono le tematiche principali di questa tua opera?

Il libro è un saggio narrativo. La parte saggistica del libro è costituita in prima istanza dall’introduzione, dove accenno alla teoria di Frederick Perls, uno dei fondatori della psicoterapia della Gestalt - approccio in cui sono formato -, che si basa su un concetto - innovativo per la tecnica psicoterapica rispetto alla psicoanalisi classica -, quello di mordere e masticare l’esperienza, per evitare di ingoiarla o restarne dipendenti. Da questa teoria, che ovviamente è ben più ampia dell’accenno da me qui fatto, è scaturito un nuovo modo (rispetto alla psicoanalisi) di lavorare in psicoterapia. Da qui il riferimento al chewing gum. All’interno del libro ne viene svelato un ulteriore significato, ancor più rilevante. La parte saggistica è inoltre esplicitata lungo l’intera narrazione, laddove intervengo molto discretamente, in corsivo e “fuori campo”, dando feedback ai vissuti dei miei pazienti, ma senza influenzare il corso della loro narrazione. Da questi rimandi si può intuire il significato e anche, in parte, il metodo psicoterapico adottato (ovviamente, è il mio, e non vi è alcuna pretesa di valore assoluto). 
Il tema dell’intreccio è strettamente correlato a quello del diario, come è espresso dall’opera indicata in copertina. Si tratta di una mia opera artistica, dal titolo “Log Intersected” ed è un quadro realizzato con strisce di tela colorata fissate su un telaio. “Log” è il diario di bordo, quello in cui si registra l’attività quotidiana, vista nel succedersi degli eventi, l’uno dopo l’altro, come lo è quella dei miei pazienti nel loro cammino di trasformazione, accompagnato dalla scrittura del diario.  

 
Ci sono scrittori o scrittrici che ti ispirano o che ti piace leggere?

Negli ultimi anni, anche per motivi legati alla professione e allo studio, ho letto e leggo molta letteratura saggistica. Nel passato, però, sono stato appassionato di letteratura russa, soprattutto Dostoevskij e Bulgakov, di letteratura inglese, in particolare Orwell, e di altri scrittori, come Hesse, dei quali ho letto buona parte delle opere. Tra gli scrittori italiani, mi sento particolarmente legato al Manzoni dei Promessi Sposi, a D’Annunzio e a Calvino. Ultimamente, ho apprezzato molto “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano e “Il corso dell’amore” di Alain de Botton.



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venerdì 28 novembre 2025

Intervista a Egidio Burnelli

 






Buonasera, come nasce Nascondere un cadavere?

Sinceramente non so come sia venuto fuori il racconto. È una storia brutta, come ce ne sono tante anche nella realtà. L’ambientazione è personale, è intrisa dei luoghi che ho vissuto: come il quartiere in cui abito o i campi coltivati dietro al “Privilege” che sono luoghi da me frequentati in quanto lì vicino abita mio padre. Dopodiché, le storie che racconto nascono all’improvviso e io le butto giù su carta dando un contesto a me familiare.



Quali sono le tematiche principali di questa tua opera?

In una parola il racconto è pura “tensione”. Il protagonista si ritrova immerso in una situazione complicata e sgradevole in un istante. Da una tranquilla serata a guardate la TV, si ritrova coinvolto in un omicidio. Tutta la storia si incentra su come il povero protagonista riuscirà a cavarsela. Sul come farà, in una situazione tanto al limite, a trovare il modo di defilarsi e dare giustizia alla povera vittima. Perché alla fine il vero carnefice è solo uno, Michele, mentre Luca e il protagonista sono complici, più o meno, a loro malgrado. La parte finale del processo serve come una coscienza interiore. Serve per rivalutare tutto quello che è avvenuto a freddo; con mente lucida e non più sotto la pressione cosante del tempo e del pericolo. Qui il pubblico ministero agisce come un grillo parlante, mette in evidenza tutte le altre opzioni che il protagonista ha scartato o non ha nemmeno preso in considerazione. Il tutto serve a far vedere che spesso, anche quando si tenta di fare la cosa giusta, si può sbagliare. Il lettore dovrà alla fine decidere da che parte stare. Sarà chi legge a decidere se il protagonista ha agito bene o abbia sbagliato.

 

Ci sono scrittori o scrittrici che ti ispirano o che ti piace leggere?

Io sono un avido lettore e leggo tutto quello che mi capita a tiro. Però, se devo fare un elenco mi piace molto leggere i fumetti di Batman, i racconti di Stefano Benni e le poesie di Charles Bukowski. Credo siano stati proprio questi a darmi ispirazione per “Nascondere un cadavere”. C’è la componente Batman sul tentare di fare la cosa giusta anche andando oltre le regole. C’è la tipica tematica reale e cruda di Bukowski che non lascia spazio all’immaginazione, ma ti porta in una realtà sporca che comunque è intrisa di umanità. Infine, c’è la componete di Benni, nella forma di racconto breve come l’autore emiliano ha fatto per raccolte di racconti; ad esempio “Il bar sotto il mare” o “Cari mostri”. Il mio libro è proprio un racconto breve, in poche pagine espone una vicenda cruda e brutale, che però ha al suo interno un barlume di speranza.




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