lunedì 15 settembre 2025

Intervista a Stella del Mattino

 





Buongiorno, come nasce questa tua raccolta poetica?

Ciao Fabrizio, questa raccolta nasce in un periodo molto buio e doloroso, della mia vita.
Ad un certo punto mi sono dovuta confrontare con il crollo di tutti i miei sogni, dei miei progetti e di una parte fondamentale della mia vita.
Ho dovuto affrontare un vissuto profondamente travagliato che credevo di aver risolto ma che, con la perdita d mia madre, è emerso con una prepotenza distruttiva.
Ho cominciato a scrivere guidata da una tensione emotiva che non mi lasciava respirare, che non mi lasciava vivere, che non mi permetteva di ragionare in modo lucido: ho cominciato a scrivere per sopravvivere.
Non volevo un motivo per vivere, perché in quel periodo non li vedevo, non li riconoscevo.
Avevo solo bisogno di dare voce e forma al mio dolore, al malessere, alla solitudine, alla profonda angoscia che si annida nella parte più profonda e nascosta del mio animo; avevo bisogno di poter dire “Ora vi vedo, vi riconosco. Avete un volto e con un volto, non avete più bisogno di un nome e non avete più bisogno di urlare, di spezzarmi per uscire, ma potete finalmente Esistere, attraverso le mie parole, la testimonianza scritta che nessuno può negare”.
Questo percorso iniziato tre anni fa, mi ha aiutata a comprendere cosa mi scuote l’anima: cosa in certi periodi, mi rende stanca, apatica, “invisibile”, facendomi capire come solo un atto d’amore verso se stessi, può salvare. Ho imparato ad amare e ad accudire questo tormento che, incredibilmente mi permette di scrivere e creare, una sorgente che alimento per non perdere la parte migliore di me.



Quali sono le tematiche principali delle tue poesie?

Attraverso le mie poesie tratto il travaglio interiore, la morte, la follia, i sentimenti che sgorgano dal dolore, dalla prostrazione mentale che accompagna chi vive il “male di vivere” quale unica dimensione dell’esistenza.
Il crollo dei sogni, delle illusioni, la tensione distruttiva che sgorga dal rapporto amore/morte, ma anche la passione, la sensualità cupa che origina da quelle pieghe dell’anima che molti non hanno il coraggio di affrontare e riconoscere.
L’interiorità diviene un Abisso in cui perdersi, alla ricerca di se stessi, di quelle verità che alla luce del sole non potrebbero mai emergere: perdersi per morire e rinascere.
Perdersi e permettere ai sentimenti di trovare una forma, un corpo, una voce con cui raccontare la sofferenza, la rabbia, la furia, lo strazio; ma anche l’amore, la passione, la sensualità di cui abbiamo parlato poco sopra.
Un viaggio Sciamanico di profonda trasformazione, che converte il dolore, il lutto, la rabbia, la follia, in atto creativo, vitale.
Un gesto che permette alla vita, di scorrere nei meandri più cupi di un vissuto tormentato, doloroso, bruciante.
Le mie poesie incarnano ciò che nasce dal buio dell’anima, della mente e che può essere trasformato in un potente strumento di rivalsa, sempre che si abbia il coraggio di guardare davvero dentro se stessi e di cominciare ad amare quel Demone interiore che scuote ognuno di noi.



Ci sono poeti che ti ispirano o che ti piace leggere?

Sono molto legata a Pavese, autore che amo per le tematiche che affronta, ma anche per l’esistenza travagliata, accompagnata da una grande solitudine, da una ricerca interiore continua, dalle perdite affettive che lo segneranno nel profondo dell’anima e per quel tormento emotivo a cui non troverà mai soluzione, se non con il gesto estremo con cui concluderà la sua esistenza.
E’ in questi aspetti che mi ritrovo: tratti interiori a cui do voce e corpo attraverso i miei scritti ed è proprio la scrittura che mi permette di trovare sollievo e rivalsa da quello stato dell’anima che, se non accudito, curato, addolcito, può portare ad un autolesionismo pericoloso e, a volte fatale.
Oltre a Pavese apprezzo particolarmente Patrizia Valduga, il suo scrivere duro, cupo, a volte violento e scabroso mi stimola molto: le sue opere visionarie, le atmosfere che riesce ad evocare, mi permettono di ribaltare completamente certe mie convinzioni che a volte, potrebbero essere un po' limitanti.
Potrei parlare di altri nomi, ma l’elenco sarebbe davvero lunghissimo, la verità è che leggo davvero di tutto e da sempre: fantasy (e allora devo per forza nominare J.R.R. Tolkien), saggi di politica, di cultura nordica; mitologia, romanzi e molto altro.
Ho una mente affamata: di cultura, di visioni, di bellezza, di emozioni, di qualunque cosa stimoli la mia curiosità e il mio bisogno di sognare.
I libri sono meravigliose macchine per viaggiare nel tempo, tra infinite dimensioni, mondi paralleli dentro cui si può entrare e vivere; ma sono anche portali che permettono di entrare in quello spazio intimo, fatto di frammenti di anima, sogni, pensieri che appartengono all’autore che li condivide, rendendoli accessibili al lettore.



(Disponibile sul nostro sito. Nei prossimi giorni sarà ordinabile anche su Amazon, IBS, Unilibro, nelle librerie Feltrinelli e nelle librerie indipendenti.) 


venerdì 12 settembre 2025

Le disavventure dello scimmiotto Tim

 di Sanja Rotim.







Nella foresta dove abitava lo scimmiotto Tim con la sua famiglia bastava poco per sentirsi felici. Dondolare appesi a un albero, ridere e scherzare con le altre scimmie, piccole e grandi, cercare qualcosa di buono da mangiare, bagnarsi nel laghetto dalle acque trasparenti, correre e saltare da un ramo all’altro. Si potevano trovare un’infinità di cose divertenti da fare in quella rigogliosa foresta dove si respirava sempre aria pura e incontaminata e dove tutto profumava di natura e libertà. Forse lo scimmiotto Tim non si rendeva neanche conto di quanto fosse sereno e felice, ma non si può biasimare, era piccolo e molto, molto ingenuo. D’altronde, succede spesso anche agli adulti di non comprendere sempre bene il concetto di felicità.
Tim era il più giovane di tutte le scimmie che vivevano in quella foresta. Aveva sempre un bel sorriso stampato sul musetto oppure rideva a crepapelle per un motivo o per l’altro.
“Basta ridere, Tim, mi fai sempre rimbombare le orecchie con le tue risate”, a volte la sorella di nome Lena lo ammoniva in modo molto dolce e affettuoso. Erano molto legati e affezionati l’una all’altro. Lena si occupava spesso del suo fratellino quando i genitori erano impegnati in qualche faccenda. Specialmente quando andavano in compagnia a fare il bagno nel laghetto la sorella non lo perdeva di vista neanche un secondo anche se lo scimmiotto Tim aveva ormai imparato a nuotare.
“Stai attento, non andare da solo là dove non tocchi”, gli diceva la sorella preoccupata. Non era ancora pronta a lasciare il fratellino a nuotare da solo. Ma lui si tuffava allegramente e sguazzava senza timore continuando felicemente a ridere.
 Si erano accorti di lui anche i coniugi Pocodibuono. Da un po’ di tempo venivano nella foresta a osservare le scimmie di nascosto. Si nascondevano dietro grossi tronchi di alberi e le seguivano cercando di individuare quale fosse quella che poteva essere facilmente imbrogliata. Certamente, come si sarà già intuito, i coniugi Pocodibuono non erano persone per bene e nessuno gradirebbe averli come parenti. Ugo e Tremenda Pocodibuono erano una coppia abituata a comportamenti disonesti. Tremenda da nubile portava addirittura il cognome Truffatori. Evidentemente tutti e due avevano tra gli antenati certi malviventi e avevano ereditato oltre al cognome anche l’attitudine agli affari loschi.
Per loro non era stato difficile capire che lo scimmiotto Tim era il più ingenuo di tutte quante le scimmie che vivevano in quel meraviglioso intrico di alberi e vegetazione lussureggiante. I coniugi Pocodibuono avevano elaborato nei minimi dettagli il loro piano. Così quel giorno avevano fatto esplodere un paio di grossi petardi nella foresta e le scimmie, sorprese e spaventate dal boato, avevano cercato di scappare e nascondersi. Con tutta quella confusione e in un attimo di distrazione lo scimmiotto Tim si era ritrovato da solo. Anche lui era sbigottito e forse, per la prima volta in vita sua, non rideva per qualcosa.
“Vieni, caro Tim, non aver paura”, lo chiamarono i coniugi Pocodibuono sorridendo. “Abbiamo una bella sorpresa per te”, gli dissero dolcemente.
“Avete una sorpresa per me? Ma che cos’era quel rumore strano prima, mi sapete dire? Mi sono un po’ spaventato. Non ho mai sentito un rumore del genere. Di sicuro non era un tuono perché ho imparato a riconoscerli”, disse lo scimmiotto a quei due sconosciuti.


Estratto dall'antologia Hyperborea 9, Midgard Editrice.


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lunedì 8 settembre 2025

The Diary

 di Giovanni Becciu.









Il sole era ormai calato da tempo ed il buio aveva avvolto la città.
Controllò le lancette del suo orologio e constatò che segnavano le 22:17.
Da quando ormai l’elettricità aveva cessato di funzionare i quartieri delle grandi e piccole cittadine venivano avvolte dal buio e niente, se non altri mezzi di fortuna, potevano contrastarlo.
Solo le stelle e la luna, quando il cielo non era completamente coperto di nuvole, illuminavano lievemente le strade ed i quartieri di quella città alla periferia di Roma.
Marika aveva deciso di addentrarsi, lentamente e tenendo stretta la sua accetta, nel quartiere di case popolari vecchio di cent’anni.
Si fermò per sistemarsi sulle spalle lo zaino che, inesorabilmente dopo giorni passati a vagare, si era ormai fatto molto leggero. 
Era difatti rimasta senza acqua e viveri ed era stato proprio per quel motivo che aveva deciso di esplorare, e magari compiere una piccola razzia, quel quartiere pieno di abitazioni abbandonate ormai da tempo.
Era infreddolita a causa della bassa temperatura invernale e, scrutando il cielo coperto da grandi nuvole cariche di pioggia, capì che il tempo non sarebbe migliorato. 
In lontananza sul cielo di Roma vedeva di tanto in tanto qualche lieve bagliore dovuto ai fulmini. Dedusse che quel temporale, che stava già investendo la capitale, non avrebbe tardato ad arrivare e che le serviva un rifugio per superare la notte. 
L’ennesima notte.
Avanzò lentamente verso una palazzina di tre piani guardandosi attorno terrorizzata dal silenzio irreale che di solito, come spesso le era accaduto di constatare, preannunciava qualcosa di orrendo.
Raggiunta la palazzina iniziò a salire le scale con la massima cautela sperando di non avere brutte sorprese. 
Il mondo era andato a farsi fottere e i cervelli marci ne avevano ormai fatto la loro casa e chi aveva saputo mantenere il proprio cervello ancora sano, e non erano molti, lottava quotidianamente per la propria sopravvivenza.
Mentre stava salendo le scale silenzio, che come già detto che avvolgeva ogni cosa, venne rotto da un urlo agghiacciante.
Da qualche parte una donna era stata vittima, o almeno così immaginò, dei cervelli marci o peggio ancora era rimasta vittima di qualche gruppo di banditi.
Difatti il mondo non solo era caduto preda di quei mostri divoratori di vivi ma era anche infestato da quegli esseri umani che già prima della fine spadroneggiavano nelle città con le loro pratiche abiette e criminali.
Lo stato, la civiltà o la società civile, come più spesso veniva definita, era ormai del tutto crollata ed assente lasciando spazio alla storica ed antica legge del più forte. 
Raggiunto senza problemi il secondo piano, ma non senza aver prima tentato la fortuna cercando di aprire le porte degli appartamenti del primo piano, si trovò dinnanzi a una porta con le chiavi inserite nella serratura. 
In un primo momento Marika si guardò attorno incredula temendo una sorpresa da parte di qualche mal intenzionato o qualche razziatore isolato.
Quando finalmente si assicurò di non correre rischi decise di aprire la porta ma, una volta in procinto di girare la chiave, vide che c’era attaccato sopra con un pezzetto di scotch un foglio di carta con su scritto qualcosa.


Estratto dall'antologia Hyperborea 9, Midgard Editrice.


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venerdì 5 settembre 2025

Confutare Doyle. Conversazione su Spiritismo e cani sapienti

 di Giordano Giorgi.





Nel racconto si parla di un’intervista a Arthur Conan Doyle, pubblicata con il titolo “Spirit of Conan Doyle's Collie” sulla rivista “Mystery magazine” del 15 luglio 1922, che accludo in calce al racconto.


– Ho letto la sua intervista sul Mystery Magazine – feci quella mattina rivolgendomi ad Arthur Conan Doyle che s’attardava, come ad attendervi l’ora di pranzare, presso il club di cui eravamo soci entrambi.
– Quale? – mi interrogò.
– Quella sui “cani sapienti”.
– Non ricordo.
– Quella dove lei parla di quella chiaroveggente che avrebbe avvertito la presenza dello spirito del suo cane, un collie se ben ricordo, all’interno di casa sua.
– Ah, si – fece Doyle, osservandomi. – Devo ammettere che il giornalista non mi risultò particolarmente simpatico.
– In qualche modo, la tal cosa si evince, caro Doyle. Articoletto striminzito, frasi laconiche.
– Gli articoletti striminziti non sono rari sul Mystery Magazine, mio caro amico. Ma se leggerà il mio Wanderings of a Spiritualist troverà molto di più, ed espresso in modo migliore.
– Ci ho ragionato però un po’ su – replicai. Quell’articoletto presenta qualche spunto di riflessione. 
– Riflessione, o desiderio di critica?
Aveva colto nel segno. – Caro Doyle, sappiamo piuttosto parecchio a vicenda l’uno dell’altro, e lei sa che mi trovo completamente in disaccordo con le sue teorie riguardanti la vita oltre la morte.
– Lo so. E ammetto che quando è da conversarci in merito, preferisco farlo con amici di cui so di poter contare a sostegno. Ma ormai che ci siamo,  lei mi dirà cosa ha trovato di tanto … riflessivo nell’articolo.
Conoscevo l’attempato scozzese piuttosto bene. Il risentimento era scomparso, pronto a lasciare il posto alla curiosità propria dell’uomo di logica di cui aveva dato prova d’essere.
– Bene. Allora, lei sostiene che una mediu
– Una chiaroveggente.
– Una … chiaroveggente, entrando in casa sua, abbia detto “che bel cane”, nonostante in quel momento non ci fossero cani presenti.
– Esatto.
– Il cane al quale faceva riferimento era il suo collie, morto da parecchio tempo.
– Esatto.
– La chiaroveggente, però, ha detto di avvertirne la presenza in casa.
– Esatto. 
– … Bene – continuai. – sempre l’articolo dice che lei, quale prova di genuinità, chiese alla chiaroveggente di che colore fosse il pelo dell’animale che diceva di avvertire presente in sala. La donna disse “del colore di quel tavolo”, e lei parve entusiasta, poiché era proprio il colore del manto del suo collie defunto.
– Lei ha detto tutto correttamente, amico mio.
– Ma, mio caro Doyle! Lei non ha ipotizzato che la signora “chiaroveggente” possa essersi informata a priori in merito al suo collie? Colore del pelo, nome … Sono informazioni semplicissime da reperire! 
– L’articolo – replicò Doyle con fare composto, ma autoritario – proponeva questo come uno di altri numerosi esempi in merito alle incommensurabili capacità psichiche e intellettive degli animali. C’è ad esempio il caso di Darkie …
– Ed io proprio a Darkie volevo arrivare! A tal proposito, vorrei invitarla tra qualche giorno a casa mia. Le mostrerò un cane che sono propenso a credere abbia le stesse peculiarità del cane di cui parlava nell’articolo.
– Attendo allora il suo invito – stabilì Doyle con un tono definitivo che andava a porre termine alla conversazione. Mentre mi accomiatavo, lo vidi pensieroso, mentre si accarezzava i baffoni disordinati che ricordavo ben più affascinanti e maestosi al tempo dei suoi primi, e veri, successi letterari.


Estratto dall'antologia Hyperborea 9, Midgard Editrice.


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lunedì 1 settembre 2025

Cacciatori e prede

 di Pier Francesco Grazioli.






Mi chiamo William Davis, e sono un soldato britannico appartenente ad un'unità SAS.
Forse dovrei dire che ne sono l'unico superstite... 
Sì, perché di tutti i componenti del gruppo, credo di essere il solo ancora vivo; ma per quanto? 
Sono certo che loro mi troveranno, ma avranno solo il mio cadavere.  
Prima, però, devo trascrivere su questo diario, l'incredibile vicenda della quale io e gli altri siamo stati protagonisti.
Un 'orrore indicibile ed inaspettato ci si  scatenò addosso, eliminando in pochi minuti un gruppo di commando perfettamente addestrati.
Ancora non riesco a rendermi conto dell'accaduto, e di come io abbia fatto a fuggire da quella trappola mortale; perché di questo si trattava...  
Ora, in questa grotta, sono momentaneamente al sicuro; ma quando calerà la notte, loro verranno a cercarmi.
Sto cercando di trovare una logica in ciò che è successo; e se avessi visto giusto, avrei la prova che solo un'astuzia diabolica e feroce che supera i confini della razionalità, avrebbe potuto ordire una trappola simile.  
E ciò, naturalmente, spiegherebbe anche le circostanze della mia fuga.
Sherlock Holmes diceva: “Quando si è considerato ed eliminato l'impossibile, tutto ciò che rimane, anche se improbabile ed incredibile da credere, è la verità!”



                                                                ***


Egitto 1942,  a sud ovest dell'oasi di Siwa... 

L'oscurità stava già calando quando arrivammo in prossimità del nostro obbiettivo.
Eravamo venuti a conoscenza della presenza di un piccolo aeroporto presidiato dalle forze dell'Asse che, in quel periodo, avevano occupato l'oasi di Siwa; ed il nostro compito era di distruggerlo.
Il nostro gruppo, era costituito da due ufficiali e dieci soldati; tutti distribuiti su di un camion. 
Chevrolet e due Willys jeep armate di tutto punto. 
“Fermiamoci qui. Questo avvallamento va più che bene per lasciare i mezzi” disse il maggiore Turner.
Poi, ad un suo cenno, ci riunimmo tutti vicino alla jeep di testa, sul cofano della quale, il tenente Collins aveva appoggiato una mappa della zona. 
Mentre i due ufficiali curavano gli ultimi dettagli del piano, su ordine del maggiore, due soldati andarono a dare un' ultima occhiata all'obbiettivo salendo silenziosamente la piccola collina.
Sotto di loro, illuminato dalla pallida luce lunare, comparve un piccolo campo d'aviazione delimitato da una recinzione e chiuso da una sbarra. Ai lati di quest'ultima, vi erano due garitte protette in parte da dei sacchi di sabbia. 
“Sembra sia proprio un piccolo aeroporto” disse il caporale Masterson passando il binocolo all'altro soldato.


Estratto dall'antologia Hyperborea 9, Midgard Editrice.


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venerdì 29 agosto 2025

Case chiuse

 di Marco Bertoli.






Roma, 20 febbraio 1958.

Attraverso le lenti degli occhiali di celluloide l’onorevole deputato esaminò il foglio che gli era stato appena porto da un commesso. Nello scorrere il paio di righe, corrugò i baffetti nella larva di un sorriso. Schiarì la gola e assunse un’espressione ieratica. Sollevò la testa e scandì dall’alto del pulpito: «Presenti alla votazione: cinquecento. Votanti cinquecento, astenuti nessuno. Favorevoli trecentottantacinque, contrari centoquindici. La Camera approva.»
Nel frastuono degli applausi si dissolse l’“Addio Wanda” con cui salutò la fine di un’epoca.


Padova, gennaio 1959.

Il gelo della notte si solidifica nei granellini di nevischio che graffiano le guance. Rincantucciata nel cono di luce proiettato dal lampione, Federica affonda le mani nelle tasche del cappottino. Il pensiero vola a ‘Le delizie di Madame Le petit chaton’. Il rimpianto per il calduccio dell’alcova in cui esercitava è una nuvoletta di fiato attorno al naso. Si dissipa in un attimo. Nonostante le comodità, eri comunque una schiava commenta fra sé mentre batte sul marciapiede i piedi intorpiditi. Allora come adesso.
Una coppia di fanali che affetta la nebbia tronca la parentesi filosofica. Nonostante la tragicità della propria situazione, si augura che segnalino l’arrivo del primo cliente. Il borbottio del motore di una Fiat 1100 che procede con lentezza prima di accostare e fermarsi concretizza l’auspicio. Al suo sbottonare il paltò corrisponde il cigolio di un finestrino che viene abbassato a trequarti.
«Quanto?» domanda un volto smunto da ragioniere.
«Sono millecinquecento lire» risponde Federica. Scorge l’indecisione ondeggiare nelle pupille dell’uomo. Timido o spilorcio? Agita ciò che è trattenuto a fatica dalla scollatura. «Una quinta non è da tutte, bello mio.» Il dondolio dell’esca ottiene lo scopo.
«Monta.»
Nell’aprire lo sportello, la giovane non s’accorge del ghigno da squalo che deforma la bocca dell’uomo.


Estratto dall'antologia Hyperborea 9, Midgard Editrice.


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martedì 26 agosto 2025

Intervista a Giulio Togni

 




Buongiorno Giulio, come nasce la tua nuova opera L’uomo galleggiante?

Buongiorno, desideravo tanto scrivere un libro sul nuoto che è il mio sport preferito e che pratico personalmente. Mi piaceva l’idea di scrivere una trama originale che parlasse di un grande nuotatore, seppur inventato. E mi interessava mischiare toni epici alla ironia che sempre è presente nei miei libri.
 
 
Quali sono le tematiche principali del libro?
 
Il libro affronta la tematica del campione che capisce di essere ad un passo dal suo declino ma che grazie a doti importanti come la forza di volontà, la determinazione e la grande motivazione a non mollare mai riesce a superare i propri limiti fisici e a vincere, nonostante altri atleti più prestanti e giovani. È un inno alla forza interiore.


Il nuoto ti piace molto come sport e come pratica?

Da molto anni ormai pratico il nuoto costantemente e sono riuscito ad ottenere piccole grandi soddisfazioni personali come per esempio le traversate dello Stretto di Messina e quella da Ponza al Circeo a squadre. Nuotare in mare aperto è per me sinonimo di grande libertà.



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