martedì 19 settembre 2023

Un Londinese alla Corte di re Artù

 di Marco Bertoli.






Un’uggiosa serata di ottobre era calata sopra l’enorme latrina al cui fetore finiscono per contribuire, oggi o domani, tutti i bighelloni e i farabutti dell’Impero. Le gocce di pioggia erano dapprima un picchiettio di aghi sopra i vetri poi si trasformavano in diamanti che riflettevano le luci dei lampioni. Il frusciare delle carrozze nella strada acuiva la sensazione di umidità che bagnava Londra.
Sprofondato in poltrona, i tacchi delle scarpe sul muso della pelle d’orso stesa a tappeto, posai sulle gambe il libro che avevo scelto per trascorrere un paio di ore nell’attesa di andare a coricarmi. Arricciai un baffo mentre elevavo un silenzioso omaggio all’inventiva profusa da Samuel Langhorne Clemens nello scrivere un romanzo sui viaggi nel tempo. Il mio amico mi rimproverava a ogni piè sospinto di lasciarmi trascinare dall’immaginazione nel descrivere sullo Strand i pericoli e le avventure che affrontavamo, tuttavia le vicende narrate da Mark Twain in A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court erano senza dubbio assai più immaginifiche. Il pensiero ozioso di come il Consulting detective, così s’incaponiva a definire la professione che esercitava, si sarebbe comportato al posto di Hank Morgan mi strappò un sorriso. Il trastullo della fantasia durò quanto una briciola di pane inquadrata da un piccione di Trafalgar Square. Subentrò, infatti, l’inquietudine. Con gli occhi della mente lo osservai battere la ragnatela di viuzze che avviluppava i Docks, dedito a una caccia in cui erano d’obbligo il travestimento e altrettanto, purtroppo, la mia assenza.
Nonostante le fiamme del camino cantassero allegre, un brivido che mescolò apprensione e freddo mi zampettò lungo la schiena. Un rapido consulto con il Watson dottore e decisi che un bicchiere di brandy terapeutico avrebbe sortito l’effetto di calmare i nervi e riscaldare la mia carcassa.
Mi strappai con un lamento alla morbidezza della poltrona ma non era destino che raggiungessi la meta: il lampo e il fragore di un’esplosione mi scaraventarono sul pavimento.
Una bomba! fu la considerazione istintiva che mi balenò nel cervello. Impossibile! mi contraddissi subito. Era dal mattino che non uscivo dall’appartamento e la signora Hudson non mi aveva consegnato nessun pacco dall’aria sospetta. La deflagrazione della granata sparata da un RML 9-pounder 6 cwt gun! la successiva. Rifiutai l’idea poiché di maggiore assurdità. Anzitutto perché ero al 221B di Baker Street e non sul campo di battaglia di Maiwand. Secondo, i quotidiani non avevano riportato la notizia che la E Battery della Royal Horse Artillery avrebbe tenuto esercitazioni a fuoco nella capitale. Per giunta non c’era fumo nella stanza né annusavo l’odore della polvere da sparo bensì un lezzo che mi ricordava la puzza di capra. Una terza ipotesi non ebbe agio di accodarsi alle anteriori.
Non appena mi ripresi dall’intontimento e i nervi oculari ritornarono a svolgere le proprie funzioni, la bazza mi precipitò sullo sterno. Ritto davanti a me c’era l’individuo più segaligno e pittoresco che avessi incontrato in vita mia. Una chioma di capelli candidi lunghi a sfiorare le spalle incorniciava un volto dalla fisionomia così spigolosa da chiedersi se qualcuno avesse mai osato accarezzarlo. Indossava una veste di pelo d’origine ovina che lambiva le ginocchia; era stretta in vita da una cinghia di cuoio in cui era infilato un falcetto di metallo. Dallo scintillio dedussi che era d’oro. Un paio di sandali d’erba intrecciata e una collana da cui penzolavano ossicini, conchiglie e piume ne completavano l’abbigliamento. Nonostante il mio stato confusionale mi ricordò le descrizioni dei druidi cantati nelle saghe celtiche.
Al contrario del mio stupore, lo sconosciuto non mostrava segni di turbamento per l’essere apparso dal nulla all’improvviso. Uno sguardo da falco artigliò il mio, quindi il tizio pronunciò una raffica di versi. Dedussi che mi stesse parlando però non afferrai il significato di quello sproloquiare e neppure mi riuscì di ricondurlo a qualcuno dei linguaggi usati nelle contrade civili.
Alla mia assenza di reazione una smorfia di stizza gli congiunse in un arco le siepi delle sopracciglia. Roteò per un attimo un mignolo scheletrico, emise una coppia di grugniti e d’un tratto il blaterale divenne comprensibile.
«Il dottor John H. Watson suppongo» scandì in un inglese in cui colsi l’accento tipico della Cornovaglia.


Estratto dal racconto "Un Londinese alla Corte di re Artù" di Marco Bertoli, vincitore a parimerito del Premio Midgard Narrativa 2023, presente nell'antologia "Hyperborea 7", Midgard Editrice 2023.




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