di Stefano Lazzari.
Susan Mondschein si svegliò di soprassalto e gettò un’occhiata alla radiosveglia sul comodino alla sua destra.
Le cinque meno dieci.
Ricadde sul cuscino con un singulto soffocato e gettò uno sguardo verso Manfred, ancora placidamente addormentato accanto a lei.
Fortunatamente suo marito aveva il sonno pesante, e anche stavolta era riuscita a non svegliarlo… da quasi un anno andava avanti questa storia del sogno ricorrente, e lei, ben decisa inizialmente a non dar troppa importanza ai vagabondaggi onirici del suo spirito, si sentiva ora vacillare sempre più nel suo proposito, man mano che il sogno aveva iniziato a tracimare nel tessuto ordinario della veglia.
Aveva ancora senso continuare a tenersi tutto dentro, ora che il percorso onirico sembrava averla intrappolata in un segmento stagnante, sinistramente ripetitivo, e senza apparente riferimento col vissuto ordinario?
Succedeva questo: Susan guardava dall’alto una campagna sconosciuta, luccicante e odorosa di pioggia appena caduta da un cielo grigio uniforme… e lei era come sospesa sotto il tetto di una grande villa, ma non si sentiva solida, corporea come al solito: no, si percepiva gelatinosa, quasi liquida, una gocciolona che sarebbe potuta cadere da un momento all’altro o forse no, chissà per quanto ancora tenacemente abbarbicata all’estremità di quel tetto di campagna… e la terra al di sotto di lei non le appariva per nulla solida, al contrario le rimandava l’inquietante immagine di un infinito buco nero, pronto ad inghiottirla dentro un innominabile nulla…
Soltanto nelle ultime settimane, dalla fine dell’estate all’inizio dell’autunno, Susan aveva trovato il modo di colmare quell’orrido nulla durante la veglia: attività incessante e frenetica in ospedale – faceva l’infermiera – piena di straordinari, poiché ci fosse sempre un tutto che colmasse il nulla.
Naturalmente a nessuna delle sue colleghe era sfuggito il suo disagio, e a Susan non rimase che nascondersi dietro la sua nevralgia del trigemino, pur vera e fastidiosa, per giustificare le sue traiettorie inquiete, frenetiche e colme di sbirciate all’orologio: perché il tempo, contrariamente a quanto succedeva alle sue colleghe, per lei passava troppo in fretta…
Il suo iniziale proposito di tenersi tutto dentro le stava cadendo di dosso, come una pelle ormai avvizzita.
Pur non essendo uno strizzacervelli, Manfred Engelmann era un medico, era suo marito e la conosceva da più di vent’anni; di più, lo intrigavano le sfide apparentemente senza coordinate: chi meglio di lui?...
Le sfuggì un debole sorriso, intanto che si guardava allo specchio per gli ultimi ritocchi prima di uscire.
Aveva cercato, nevralgia del trigemino a parte, di smerciare a se stessa e poi al resto del mondo, la risibile balla dei quarant’anni ormai prossimi quale origine di un malessere che di anagrafico e ormonale non aveva proprio un bel niente.
Dunque, ormai aveva deciso: avrebbe raccontato tutto a Manfred, lui gli strumenti per la diagnosi li aveva di sicuro, la terapia sarebbe venuta di conseguenza.
Un atto di imperdonabile presunzione, questo era stato da parte sua, voler combattere quella battaglia da sola: che poi nemmeno tale poteva essere definita, casomai un perfido agguato dello spirito al quale lei, ormai l’aveva capito, non sarebbe più sfuggita senza un aiuto determinante…
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