sabato 3 giugno 2023

Il coro degli angeli

 di Anna Agostini.







L’ospedale dove mi trovo costretta da oltre due mesi dispone di larghi spazi da adibire a degenze ed ambulatori, servizi di diagnostica, pronto soccorso e molto altro; è dotato di un numero impressionante di posti letto ed accoglie ininterrottamente pazienti dei più svariati settori: dal materno-infantile al neonatale; dal pediatrico all’oncologico, al cardiovascolare (e certo ne ho dimenticato qualcuno). Oggi comunque è ricordato prevalentemente come una delle strutture più efficienti del Nord Italia per contrastare il dilagare dell’epidemia conosciuta col nome di Covid 19.
Per ragioni di privacy non ne citerò il nome né la città di appartenenza, che è anche la mia, e per gli stessi motivi non rivelerò esattamente chi sono limitandomi a rappresentarvi che la mia famiglia materna, che fa Rota di cognome, era imparentata, pensate, niente di meno che con un duca longobardo discendente dal più famoso Rotari, la cui dinastia si sarebbe distinta nel corso dei secoli per aver dato i natali a uomini d’armi, giudici e cavalieri.
Ma questa è sicuramente una leggenda, ce ne sarebbero tutti i presupposti.
Mi chiamo Floriana, ho appena trentacinque anni e sono affetta anch’io, come in questo periodo moltissime persone del mio paese, da Covid galoppante.
Come saprete, il morbo in questione si manifesta in una prima fase con sintomi moderati sicché all’inizio della malattia non accusavo che frequenti mal di testa, una febbre consistente che non mi abbandonava mai e che mi procurava un senso di debolezza perenne e un leggero mal di gola. Dopo meno di una settimana però il morbo non tardò a manifestarsi in tutta la sua virulenza portandomi presto a subire gravi difficoltà nella respirazione. Ciò mi procurò un ricovero d’urgenza nella struttura ospedaliera di cui vi parlavo e mi arreca oggi la concreta possibilità di essere trasferita all’interno della sua unità di terapia intensiva: quella più temuta. 
Tale morbo, come potete immaginare, oltre a procurarmi danni irreversibili ai polmoni, ha diminuito progressivamente le mie scorte di energia, già minate nell’ultimo periodo da una serie di eventi negativi  di vario genere: la morte di mia sorella appena qualche anno fa; l’abbandono del mio ultimo compagno per sua dichiarata incompatibilità di carattere con il mio, quasi in contemporanea al decesso di Ornella; e, da ultimo, praticamente a ridosso del mio avvenuto contagio, la scomparsa di mio padre e poi di mia madre - baluardi residui della famiglia - a causa sempre del maledetto Covid 19.
Per la verità il medico ospedaliero, il valente prof. F. di cui ormai sono diventata amica, d’accordo con il personale infermieristico presso cui ero e sono in cura, fa del suo meglio per rendere la mia dolorosa degenza quanto più confortevole possibile cercando di favorire in molti modi una risposta collaborativa da parte mia. 
La sua abilità è consistita nel far leva sul mio morale completamente a terra attraverso una forte capacità dissuasiva al pessimismo e soprattutto con la decisione di mettermi a disposizione una psicoterapeuta per due pomeriggi a settimana che mi aiutasse in tal senso. 
Quest’ultima concessione, che potrebbe sembrare a prima vista inconsueta, è avvenuta in ragione delle responsabilità che tutti gli operatori dello staff medico si assunsero sul mio conto, conseguenti alla circostanza che ero rimasta completamente sola e gravata da un triplice lutto familiare, come avevano documentato il mio asciutto stato di famiglia e le accorate parole della mia vicina grazie alla quale, nel momento cruciale della crisi, ero stata affidata alla ambulanza che mi avrebbe poi deposta nelle loro mani.
C’è chi parla molto male del servizio sanitario pubblico ma, per quel che mi riguarda, devo dire in tutta onestà di non essere d’accordo con costoro o, almeno, che nel mio caso non è stato così. 
Ho sperimentato e sto sperimentando, infatti, da parte di quasi tutto il team medico una sorta di attaccamento nei miei confronti che travalica ampiamente il dovuto e che, sia pure attraverso la fitta rete dei distanziamenti che tutti ormai ben conosciamo (camici, guanti, mascherine, occhiali protettivi e quant’altro) fa trapelare una notevole spinta al contatto umano e la volontà incontrovertibile di sprigionare quello spirito di empatia che dovrebbe accomunare sempre il personale curante con i degenti.
Se voi sapeste, infatti, quanto bisogno ci sia di conforto nel mondo e nella solitudine dei malati! 
Se voi poteste soltanto immaginare che cosa terribile possa essere lo stare tutto il giorno inchiodati su un letto bianco con l’occupazione prevalente, per non dire unica, di poter respirare e con la sola positiva prospettiva di scampare (forse) alla necessità di essere sottoposti agli interventi di quella apparecchiatura dolorosissima collegata “al tubo endotracheale che viene fatto passare attraverso la gola per raggiungere i polmoni” (ripeto esattamente le parole che ho sentito pronunciare da chi è stato testimone diretto o indiretto degli effetti di quel maledetto ventilatore da taluni definito “l’anticamera della morte”).
Ora vi starete chiedendo come e soprattutto perché trovi la voglia e la forza di scrivere da questo letto di lacrime, ma la risposta è presto data: non sono io che lo faccio direttamente né certo lo potrei sia per oggettiva impossibilità fisica sia per non contravvenire alle ferree regole del reparto che impongono silenzio assoluto e, come sapete, vietano il più possibile contatti esterni d’ogni sorta.
La verità è che c’è qualcun altro che lo fa per me. 
Vi ho già detto della psicoterapeuta e dunque è a lei che sottopongo senza alcun ordine i pensieri, via via che mi si presentano alla mente, nelle ore – sempre più rare, peraltro - di mia maggiore consapevolezza e lucidità ed è sempre lei che da remoto registra e ordina scrupolosamente in un file, almeno secondo quanto mi va assicurando, le parole che riesco a pronunciare con un filo di voce appena.
Solange si chiama la professionista, abbastanza giovane e anche carina, direi. Decidemmo, fin dall’inizio della sua presenza virtuale nella mia vita di malata, di ricordare e fissare insieme ogni preoccupazione o pensiero che considerassi degni di nota al solo e unico scopo di ottenere una significativa diminuzione della mia solitudine attraverso la condivisione con il mondo esterno di ciò che più mi turbava. 


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