Buongiorno Anna, parlaci del tuo nuovo romanzo, come nasce?
Buongiorno, Fabrizio.
Se dovessi definire in poche parole il romanzo, direi che è il risultato assolutamente spontaneo di un intreccio quasi perfetto di arte e psicologia.
Mi spiego meglio e, mentre mi affretto a dichiarare che non sono né una storica dell’arte né una psicologa, ammetto di essermi lanciata nella narrazione in un faccia a faccia con alcuni dipinti di fama (sette, per l’esattezza), in una sorta di full immersion che mi ha poi generato sensazioni e, su queste, fatto innescare racconti completamente diversi ed estranei fra di loro, aventi tutti peraltro una matrice comune, ovvero un rimando interiore catturato dal dipinto stesso, dipinto che ho sentito il bisogno di visualizzare a mio uso e consumo. A volte nel suo insieme, altre volte in un suo preciso particolare, nemmeno troppo rilevante.
È ovvio che ciò presuppone da parte mia amore per l’arte figurativa in genere ed anche una notevole predisposizione per l’analisi dei caratteri e dei sentimenti coinvolgenti la gente, il prossimo, le persone in cui comunemente ci si imbatte… come vogliamo chiamarle.
Anche la vicenda principale che lega i diversi racconti, del resto, rimane ben vincolata all’intreccio di cui parlavo, “camminando” principalmente essa pure sul terreno dell’arte e su quello delle riflessioni psicologiche.
Capisco, peraltro, che la vicenda portante, cioè quella facente capo a un dipinto immaginario e che in definitiva dà il titolo al romanzo, può incuriosire maggiormente il lettore rispetto alle storie-corollario che la arricchiscono, e dunque non ho nessun problema ad ammettere che la cornice dolorosa del Covid del primo periodo e la voglia di giocare con un po’ di mistero sono stati fondamentali nella genesi e nell’organizzazione dell’opera vista nel suo insieme.
E non sarei del tutto esaustiva, d’altra parte, se omettessi di spiegare le ragioni (ammesso che così si possano chiamare) che mi hanno fatto decidere di soffermarmi su un dipinto piuttosto che su un altro. Le ragioni della scelta, voglio dire.
In realtà, non c’è stata scelta. E come avrei potuto operare una selezione su decine e decine e decine di capolavori pittorici di tutti i tempi? E su quali basi?
E nemmeno posso dire che i sette dipinti prescelti per la costruzione delle storie secondarie siano stati quelli fra i miei preferiti in assoluto.
No, diciamo che ciascuno di essi si è spontaneamente fatto largo, durante la composizione dell’opera, affiancando e sottolineando la dinamica dei diversi personaggi. Insomma, una volta ancora sono subentrate la psicologia, la fantasia, l’elaborazione scenica con le quali un’immagine, piuttosto che un’altra, è riuscita a collegarsi al racconto ed a formarvi delle aderenze.
Quali sono le tematiche più importanti del libro?
Il tema in assoluto potrei dire che è la ricerca.
Si parte dalla appassionata ricerca di Solange della chiave del mistero che avvolge, attraverso un quadro emblematico, l’aristocratica famiglia lombarda di Floriana e ci si imbatte via via in una serie di contro-ricerche che avvengono per caso, nel profilo della narrazione e lungo il tratteggio dei personaggi maggiori e minori della storia.
Inseguimento della verità, dunque, in primis, ma anche costante tentativo di dare risposte a dubbi e domande, di maturare approfondimenti e ripensamenti legati alla esistenza, nell’ambito dei quali ciascun protagonista delle vicende narrate scandaglia se stesso attraverso un esame dei fatti passati od una attenta osservazione dei fatti che lo riguardano nel momento presente.
È quanto avviene, in definitiva, al vecchio custode del Museo di Amsterdam quando, per capire i vertici artistici di Van Gogh e con essi, al contempo, anche la propria identità, non trova di meglio che tuffarsi idealmente dentro un celebre quadro del Maestro - nella fattispecie, “I mangiatori di patate” – in una sorta di immedesimazione piena e totale con l’Autore.
O ciò che si verifica nella deliziosa, adolescente testolina di Gaia, preda di un momento di forte tensione amorosa, quando si scatena in lei un vero e proprio processo di trasposizione tra se medesima e l’effige della fanciulla di Hayez (la protagonista di “Il pensiero malinconico”), realizzandosi così in poche battute nel suo intimo la avvenuta e totale sostituzione dell’una (se stessa) con l’altra (l’immagine dipinta), l’avvenuto scambio di posto dei due elementi che le sembrano improvvisamente costituire un insieme perfetto.
Ma i temi potrebbero essere tanti altri naturalmente: - il tema dell’inconscio (e basta pensare alla chiosa di Gemma, personaggio essenziale del racconto ispirato a Giselle, lei che non esita a scrivere nel suo blog che l’acqua ci attrae facendo leva sul nostro mondo interiore… e su tutto ciò che abbiamo voluto rimuovere o dimenticare); - la lettura in chiave onirica delle proprie intuizioni e sensazioni, come si verifica nella storia dedicata alla Alberta, in cui l’arte parla anche attraverso i sogni mentre le impressioni giocano continui rimandi ad un futuro che in un certo modo gli stessi sogni presagiscono; - l’eterna lotta individuale tra disperazione e speranza, tra sconfitte e persistente voglia di ripartire (e il personaggio Judy ne rappresenterebbe, credo, un colorato prototipo).
Ci sono infine le due grandi questioni: la libertà, totalmente messa al servizio della fantasia e l’amore, ricco della sua festa di ombre e di luci, evidenziati rispettivamente nell’armonizzazione di un evanescente bozzetto teatrale a sfondo natalizio e attraverso l’incontro-scontro idillico-erotico di un uomo e di una donna alle prese ciascuno con i propri destini spezzati e con la tutela, nel reciproco confronto, del proprio equilibrio identitario.
In definitiva, non posso che ribadire che arte e psicologia fanno capolino da per tutto senza escludere, dall’inizio fino alla fine, il benefit di un po’ di mistero e di un finale moderatamente a sorpresa. Ma qui mi fermo per non spoilerare più del necessario.
I personaggi del romanzo sono tutti di tua invenzione oppure no?
Come ho avuto modo di precisare nella prefazione del romanzo, la storia che ho voluto raccontare rappresenta totalmente una finzione letteraria e dunque, come si suole dire, ogni eventuale analogia riscontrabile tra i personaggi e i fatti narrati e qualsivoglia altra persona od avvenimento reale va ritenuta meramente casuale e priva di riferimenti di sorta.
L’ho ripetuto già in altra sede: non sarei mai capace di scrivere sotto forma di narrativa pura qualcosa di biografico o, peggio ancora, di autobiografico.
Non lo farei per diverse ragioni e, ciò che più conta, non ne sarei mai capace.
Attribuire ad un personaggio di fantasia fatti realmente accaduti da qualcuno che abbia un nome e delle fattezze precise, o dare a quel medesimo personaggio pensiero e parola uguale o simile al modo di essere e di comportarsi di quella stessa persona lo troverei, forse mi sbaglio, una mancanza di rispetto, una forma di pubblicità nei confronti di quella medesima persona realmente esistente del tutto gratuita e in ogni caso non richiesta.
Questo che significa concretamente? Che i personaggi del romanzo sono stati fatti muovere tutti in modo asettico, come tanti burattini senz’anima e senza adesione alla mia vita ed alle mie personali esperienze? No, è evidente. Ed è evidente soprattutto che ciò sarebbe stato impossibile: per me, come per qualsiasi altro scrittore.
Il singolo personaggio che ho creato e sviluppato, infatti, ha ricevuto vita, se così posso dire, e agito e parlato con le parole di tante persone messe insieme, tutte ben concrete e reali; non è stato che la risultanza di tanti fatti realmente accaduti a me o alle persone con le quali ho avuto modo di imbattermi nel corso della mia esistenza, tutti assimilati e combinati insieme. Frullati, forse è il caso di dire. Frullati e, da ultimo, lavorati con l’immaginazione e con i suoi colori.
In questo, naturalmente, le città e le location disseminate lungo la storia, nonché le esperienze e le suggestioni dirette e indirette che le stesse potevano suggerire, hanno giocato la loro parte nel mettere a servizio della mia penna informazioni e realtà ben circoscritte e precise: così è avvenuto per la descrizione dell’habitat del Covid bergamasco, ad esempio; per la ricostruzione in modo piuttosto concreto degli splendidi paesaggi del Maine o della lussuosa nave da crociera, elegante cornice dell’incontro amoroso tra Lorenzo ed Aurelia; per la struttura del Museo Diocesano milanese Carlo Maria Martini; per le tecniche di assunzione di personale svolte da importanti società nel campo del decor furniture e per molto altro.
Mi fermo qui, Fabrizio, sperando di essere stata chiara sul punto.
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