martedì 2 agosto 2022

Diario delle ceneri

 di Lorenzo Peka.







Eppure quell’episodio mi aveva dato speranza.
Ricordo che la locanda era calda e luminosa, piena del vociare degli uomini, e dei guizzi delle braci sull’ottone dei candelieri.
«Non lo sai?!» aveva esclamato un tale, un mezzadro dai grossi baffi grigi seduto davanti a me, sgranando gli occhi. «Non l’hai mai visto? Non sai la paura che fa!» 
«Ho sentito qualcosa» avevo detto, asciutto.
Lui si era raggricciato, stringendosi le spalle. «Una cosa da far gelare il sangue. Io l’ho visto da lontano. Una cosa che non t’immagini, ragazzo.»
«Addirittura?»
Era saltato su come se lo avessi offeso.
«Mi prenda un accidente!» aveva imprecato. «Se ne va in giro sul cavallo più grande che abbia mai visto, con un mantellaccio nero, una falce dietro la schiena, e lame e catene da tutte le parti. Non si ferma mai, non ha amici – come potrebbe? – tutti fuggono quando passa... e... e sai cosa ci porta, attaccato alla sella?»
Non avevo cercato di indovinare.
Lui aveva spostato il boccale e si era sporto verso di me. «Ossa» aveva scandito sussurrando con forza, «ossa di rapitori. Capito, ragazzo? Di rapitori.» Aveva fatto un gesto di scongiuro. «Di quelli che ammazza. Le ha da tutte le parti: appese alla sella, ai quarti del cavallo, dovunque. Ha perfino messo in testa al cavallo il cranio di uno di quei maledetti cavalli infernali, a mo’ di testiera! Merda e sangue! Una sola di quelle ossa porta a chi la tocca la sfortuna nera, una iattura che ci vuole un esorcista. E lui se ne porta una montagna, come trofei di caccia! Deve essere un demonio, e così pure il suo cavallo, non c’è altra spiegazione.»
«Però ammazza i rapitori» avevo interloquito, mentre l’uomo tracannava un sorso dal boccale, come per sciacquarsi la lingua e riprendersi.
«Sì» aveva ammesso, «li ammazza. A centinaia. Più di tutte le coorti del re. Come mosche. Per questo lo chiamano il Mietitore, l’Ammazza-ombre e... in quegli altri modi che... beh...» Era rabbrividito. Poi aveva continuato: «C’è chi dice che è dalla nostra parte, che andrebbe considerato alla stregua degli eroi per questo, ma... non lo so. Uno del genere non può essere dalla parte dei vivi, no? È inquietante, ecco. Da’ retta a me, ragazzo, quel tale è maledetto. Maledetto.»
Dopo la sua sentenza, l’uomo era rimasto in silenzio.
Avevo finito la birra ed ero uscito dalla locanda.
Fuori non c’era nessuno. Il pergolato per gli animali era immerso nel buio della notte; l’intera locanda era immersa nella foschia della brughiera, che sembrava inghiottire tutti i suoni.
Avevo ripreso il mantello nero, lasciato a coprire la sella, e mi ero tirato il cappuccio sulla testa. Mi ero rimesso a tracolla il falcetto. Tutto abbastanza vero, avevo pensato con un mezzo sorriso amaro, richiamando le parole del mezzadro. Ma Nephasus non è poi così grande. Lo avevo accarezzato sul muso mentre lo conducevo fuori, prima di rimontare. Le ossa di rapitori occhieggiavano alla luce lunare, inumane come i loro proprietari.
Beh, che dire... Immagino che anche il Mietitore, l’Ammazza-ombre – o che altro – possa concedersi un po’ di naturale riposo, qualche rara volta. Perché, dopotutto, è un fragile umano come tutti gli altri. Non ho tatuaggi esoterici o marchi a fuoco sul volto, malgrado le voci che lo affermano; anche se a volte mi traviso con una sciarpa o della fuliggine, per evitare una fama che mi renderebbe più difficile trovare dove posare il capo. Un problema che, a dire il vero, diventa sempre meno rilevante: da mesi ormai non si trovano che villaggi abbandonati, e gli unici umani vivi che s’incontrano tra le vaste campagne sono vecchi e dementi abbandonati a loro stessi, soldati morenti e pellegrini appestati.
Ora sono passate due settimane da quando mi ero fermato alla locanda. Ho attraversato una foresta morta, punteggiata di rovine.
Dove sono passate le orde dei Caduti, i villaggi sono distrutti e la gente massacrata. Un orrore. Dove le persone sono appese agli alberi, invece, non sono stati i Caduti: si sono impiccate da sole, se non hanno potuto scappare. Così sugli alberi secchi fioriscono i cadaveri.
Così, sebbene senza mantello e cavallo nessuno mi riconosca, ho sempre un fremito quando entro in un luogo sicuro ancora popolato di vita umana: temo che il livore, e le macchie del male visto, subito e fatto, abbiano segnato e sgarbato anzitempo il mio viso, rivelando a tutti, come per istinto, che io sono lui.
Per questo, l’episodio della locanda mi aveva dato speranza. Quando abbandono le nere spoglie e nessuno sa, sento che l’oscurità non è ancora arrivata. Non fino in fondo, almeno.
Ma sono momenti sempre più rari, sperduti, come quella locanda sprofondata nella bruma con i suoi caldi occhi di brace accogliente. Dopo, ogni volta, la palude mi riaccoglie nel suo grembo, come una compagna in muta e fiduciosa attesa.
Le notti nella pianura bagnata sono fredde, e troppo umide per accendere un fuoco. 
Vengo preso da un dolore ai visceri, ormai divenuto usuale. Non è una ferita; non è una ferita esterna, almeno, non è una piaga. È un male. L’ultima volta che ho controllato, c’era solo una macchia sottopelle, una striatura livida. Ma non mi interrogo più di tanto: è normale che le cose marciscano, in tempi come questi. Andiamo verso un inverno che non potremo superare.


Estratto dal racconto "Diario delle ceneri" di Lorenzo Peka, vincitore a parimerito del Premio Midgard Narrativa 2022, presente nell'antologia "Hyperborea 6", Midgard Editrice 2022.




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