venerdì 24 aprile 2020

L’Uomo Spaventato

di Davide Schito






Milano, quartiere Lambrate.
Una sera d'inverno. Una fredda sera, di un altrettanto freddo inverno.
Ha appena smesso di nevicare, una nevicata lunga, costante, di quelle che in poche ore riescono a bloccare l'intera città, mai abbastanza preparata. Fuori, centinaia, migliaia di auto incolonnate, persino il suono penetrante dei clacson ovattato dal manto bianco.
Ma non nella piccola via privata.
Qui, il silenzio regna sovrano. Complice lo scarso passaggio, la via è deserta. La neve immacolata, eccetto per alcune impronte, ha raggiunto ormai i parafanghi delle poche auto parcheggiate.
Le due vetrine del locale sono completamente appannate. Il calore dell'aria all'interno, scontrandosi con i vetri gelidi, ha prodotto un sottile strato di condensa, tante piccole gocce che cadendo le une
sulle altre diventano sempre più grandi, come in un'innocua slavina.
L'interno, solitamente stracolmo di gente tutti i giorni della settimana, è ora deserto, ad eccezione di due uomini che occupano uno dei tavolini in fondo, appena sotto le grandi finestre di vetro
smerigliato che danno sul cortile interno del vecchio stabile di ringhiera.
Persino il barista, finito di lavare gli ultimi bicchieri, si è assentato uscendo dalla porticina di servizio posta vicino al bagno.
Nell'aria, una musica a basso volume. Anni 50, Platters, The great pretender. Così diversa dal rock sparato a tutto volume nelle sere del fine settimana, quando un variegato mix di studenti,
sfaccendati e uomini in carriera si accalcano di fronte al bancone in attesa di degustare le ottime birre artigianali prodotte nel piccolo birrificio sul retro.
Gli unici due avventori si scambiano una veloce occhiata attraverso il bicchiere pieno a metà di birra, mentre, sollevandolo in un movimento quasi sincrono, bevono due lunghi sorsi. Il tipo di birra che stanno bevendo è lo stesso: una Weiss, inconfondibile nel bicchiere la cui forma ricorda la Coppa del Mondo di calcio, ed il cui nome richiama la cattedrale simbolo di Milano.
Le similitudini tra i due, però, finiscono qui.
L’uomo seduto sulla destra è infreddolito, nonostante il riscaldamento del locale funzioni a pieno regime. E soprattutto è spaventato. Lo si capisce da come si muove, dal continuo movimento della testa e degli occhi che sembrano non voler stare fermi, ma continuano a scandagliare i dintorni alla ricerca di un potenziale pericolo. Non sappiamo il suo nome, per comodità ci riferiremo a lui usando l’appellativo di Uomo Spaventato.
Colui che gli sta di fronte, invece, sembra sicuro di sé. Spavaldo, quasi. Spalle larghe, dritte, è elegante. Indossa un completo, quasi sicuramente di sartoria, giacca, pantaloni e cravatta neri, camicia bianca. Fossimo in un film americano, potrebbe benissimo essere un agente della CIA o dell’FBI.
Da quando sono entrati, una decina di minuti prima, non hanno ancora aperto bocca. Si sono limitati a guardarsi, occhiate distratte e diffidenti tra un sorso di birra e l’altro.
È l’Uomo Spavaldo a prendere per primo la parola.
- Hai paura?
Nessuna risposta. L’Uomo Spaventato sembra bloccato, come se il freddo gli avesse paralizzato muscoli e corde vocali, impedendogli qualsiasi tipo di movimento che non sia bere o guardarsi attorno.
- Hai paura? – ripete l’Uomo Spavaldo, una punta d’impazienza nella voce. Una voce maschile anonima, priva di accento, quasi meccanica.
- Sì. Sì, ho paura. – risponde infine l’Uomo Spaventato passandosi le dita sugli occhi stanchi – Come mi hai trovato?
Un sorriso beffardo increspa ora le labbra dell’Uomo Spavaldo. Si aspettava questa domanda, in fondo gliela fanno tutti. Ogni volta. Il suo lavoro, si ritrova a pensare, può essere davvero ripetitivo a volte.
- Davvero ti interessa saperlo?
- No. Suppongo di no.
Sorso di birra. Per prendere coraggio, o almeno illudersi.
- Non credevo ora. Così presto. – prosegue l’Uomo Spaventato, cercando di non far tremare la voce roca. Ora sembra un po’ più sicuro di sé. O forse solamente un po’ più rassegnato, come un perdente che per un attimo ha avuto paura di vincere, ma che ora è tornato nella sua dimensione e aspetta il familiare momento della sconfitta con tranquillità.
Fruga nella tasca del pesante giaccone nero che indossa nonostante nel locale ormai si sia diffuso un discreto tepore. Estrae una foto, sgualcita dal tempo, i colori sbiaditi, un angolo strappato, una macchia di inchiostro che la sporca appena. E’ stata scattata con una di quelle ormai vecchie macchine fotografiche analogiche a rullino che rendevano necessario sviluppare le foto scattate per vedere se erano venute bene. Prima del boom delle digitali con le quali si scattano migliaia di foto inutili destinate a rimanere solo un cumulo di bit nell’hard disk di un computer, fino a quando un virus non renderà necessaria una formattazione.
La mette sul tavolino di legno, passandola verso il compagno di bevute.
- È a causa loro vero?
L’Uomo Spavaldo prende tra le dita la fotografia. La guarda, e nei suoi occhi azzurri gelidi come l’inverno che fuori dalla porta spinge per entrare, per un attimo passa come un velo. Ritrae una donna ed un bambino. Lei avrà sì e no trent’anni, indossa un maglione a losanghe e i suoi capelli sono mossi e cotonati come andavano di moda nei primi anni 90. Sorride, un sorriso radioso di
quelli che si fanno quando, almeno per un attimo, nell’istante dello scatto della foto, si riescono a mettere in un angolo i problemi e le preoccupazioni della vita di tutti i giorni. Cosicché, riguardando la stessa foto a distanza di anni, ci si possa illudere più facilmente che sia esistito un tempo in cui si  è stati felici.

Estratto dal racconto "L'Uomo Spaventato" di Davide Schito, vincitore del Premio Giallobirra 2011, dall'antologia Giallobirra 2012, Midgard Editrice


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