di Fabrizio Bandini
Il programma comunque viene portato avanti testardamente.
Solo Fernanda Pivano in quegli anni lo trascina di nuovo nel gorgo della vita.
Ma anche con lei fallisce.
Non resta allo scrittore che tornare nel suo doloroso carcere, nella malattia, nella nevrosi.
Per poi accorgersi, dopo qualche tempo di lacerante sfibramento, che la sua solitudine non è più voluta, eroica, stoica, ma oramai è imposta, subita, destinale.
Così si confida alla Pivano: “In un lungo periodo, P. raggiunse una sua stoica atarassia attraverso la rinuncia assoluta ad ogni legame umano, se non quello, astratto, dello scrivere.
Si sentiva come intontito e chinava il capo, e cercava di scrivere.
Ma di mese in mese e di anno in anno scriveva sempre meno: la vita in lui si prosciugava.
Diventava un fantasma.
Pure P. teneva duro, perché sapeva che un franamento verso le creature, verso qualunque creatura, sarebbe stato soltanto una ricaduta, non una rinascita…
Invece avvenne il franamento, e P. cercò di fermarsi a mezza strada, e non ci riuscì.
Adesso sconta ogni istante della fittizia solitudine che si era creata.
La vita si vendica con una solitudine vera.
Sia come vuole la vita” (19).
Sono gli anni fatali in cui Pavese incontra la psicanalisi, l’etnologia, la storia delle religioni, l’antropologia, in cui legge assiduamente Freud, Frazer, Lévy-Bruhl, Jung, Frobenius, Kerényi, Eliade, Vico, i classici greci.
È la scoperta del selvaggio, dell’inconscio, del mitico.
La vita di Pavese accelera, comincia a seguire “un lavoro sempre più incalzante”, “una ricerca interiore sempre più marcata” (20).
Egli si tuffa nel mondo vischioso e affascinante del mito, del pensiero arcaico, scopre “nel suo inconscio un simbolismo legato alla campagna e alla sua infanzia”, si interessa a “temi legati al mondo agreste”, alla sua “aggressività inconscia”, al “gusto erotico per le situazioni di sangue e di violenza” (21).
Da quel momento in poi il mito diviene l’elemento ispiratore centrale della sua arte (22).
Pavese non studia il mito, semplicemente lo vive (23).
Scende nelle profondità, scopre simboli e archetipi, vede destini operanti ovunque nella Physis, scopre leggi, primordiali e implacabili (24).
E le subisce.
La Natura stessa non fa che celebrare ai suoi occhi un rito, impassibile, crudele, sanguinaria (25).
O meglio: la Natura stessa, nella sua essenza, è rito.
Un cadenzato nascere, vivere e morire, a cui nessun essere può sfuggire. Essa è rito, sacrificio, destino, furioso divenire, panta rei, Samsara.
Come dice Anassimandro: “Le cose fuori da cui è il nascimento alle cose che sono, peraltro, sono quelle verso cui si sviluppa anche la rovina, secondo ciò che dev’essere” (26).
Pavese seguendo questi segni svilupperà negli anni successivi una poesia mitica, monotona, ripetitiva, ritornante, come gli atti cultuali, i riti, i misteri, i miti (27).
Un’arte poetica che evochi la mitologia, che sia mitologia (28).
Una poesia che accenni, come le sentenze oscure-luminose di un oracolo (29), come le sentenze del dio di Delfi (30).
L’impresa è difficilissima, titanica, solo pochissimi vi riescono.
Ma Pavese vi si arrischia – sino al termine della sua vita – tuffandosi nel mondo mitico dell’infanzia, dell’inconscio, dello stato aurorale delle profondità della coscienza (31), come un cabalista alla ricerca delle scintille divine.
Il rischio è di possedere il mito, portarlo a chiarezza, dandogli forma con la poesia, non viverlo più e così distruggerlo (32).
Per questo la poesia deve essere mitica, come una fede, un evento unico, una rivelazione inaudita, un mistero.
Ciò che Baudelaire ha nominato <<exstase>>.
Il raccogliersi e l’abbandonarsi davanti all’assoluto, al gesto primordiale, all’unico (33).
Tutto questo però non lo aiuta a sanare la frattura.
La Natura, con le sue leggi e i suoi riti, gli appare selvaggia, oscura, barbara, crudele, inaccettabile, ingiusta.
Cosa proibita emersa dall’inconscio, superata, censurata violentemente (34).
E ora ci deve fare di nuovo i conti.
Inoltre la Physis gli si presenta come destino, dove tutto è già deciso, “predetto, voluto dal Dio” (35).
Estratto da "Solitudine e malattia in Cesare Pavese" di Fabrizio Bandini, Midgard Editrice.