lunedì 15 novembre 2021

Rossa e vecchia

 di Biagio di Carlo.






23:15

“Spero ti sia reso conto che la tua vita sta andando a puttane, seduto ad un bancone lercio di un bar lercio che continui a parlare al vento, al barista, che sta lì ad ascoltarti perché non può rifiutare i tuoi soldi. Puzzi e sei grasso, sei grasso e non t’importa. Fuori c’è troppa luce per ridursi così, almeno per chi ha un briciolo di amor proprio, ma tu hai perso tutto. Manca poco e ti lascio anche io.” 
Non pensavo di avere una coscienza, una di quelle voci dei film che ti guida tra mille peripezie lasciandoti illeso, forse non pensavo di meritarla oppure non la volevo nemmeno. Perché passi decenni perfezionando i tuoi fallimenti, sperando di conquistare un qualsiasi angolo nascosto, protetto dall’interesse altrui e finalmente libero di poter solo osservare, poi la tua stessa mente ti fotte e lo fa quando proprio non deve farlo, nel momento esatto in cui ero ad un passo dal toccare il fondo, quello che frasi del tipo “oltre non puoi andare” o “lì devi rialzarti e reagire” sono distanti anni luce dal descriverlo. 
È solo che cerchiamo tutti di essere estremamente buoni. Orribilmente buono, quando tocchi il fondo non ci trovi la sabbia del mare aperto, non puoi darti una spinta e tornare in superficie, ci trovi un materasso enorme, ricoperto di ogni tuo vizio, di ogni tuo difetto, insomma di tutto ciò che hai sempre desiderato ma che passava per immorale o scorretto o invidiabile. Su quel materasso ci affondi a peso morto, senza reagire. Senza opporre resistenza. Allarghi le braccia come a voler ricoprire più spazio possibile, fai lo stesso con le gambe, poi sbottoni tuoi jeans, chiudi gli occhi e godi di quel riposo immeritato e vergognoso. Pace, o meglio, rassegnazione, che poi è la stessa cosa. Questo è toccare il fondo, almeno raccontato dal vomito sui marciapiedi di barboni monogami presi a scoparsi il solito Johnny Walker; ed io ero ad un passo da poter raccontare al barista di quel materasso. Mi mancava tanto così, prima che decidessi di ascoltarmi e farmi incitare da una vocina incazzata che trapanava le mie orecchie. L’ho ignorata abbastanza, troppe volte si avvicinava ai miei pensieri quando ero in bilico e troppo volte ho deciso di buttarmi. Forse l’esagerata quantità d’alcol, forse l’affascinante atmosfera del bar completamente privo di fascino, forse altro, mi ha spinto a stare zitto e sturare gli accumuli di cerume che ho attaccati in faccia. Ho alzato lo sguardo dal bancone, caratterizzato dalla sagoma del mio mento sudaticcio, ho portato le mani all’altezza delle guance ed ho allontanato col gomito il bicchiere di birra calda.
È paradossale come iniziamo a riflettere nei posti meno opportuni, ho letto di un tale che ha scelto il nome di sua figlia sotto la doccia. Invece ad ispirare me era la maglietta del ragazzo al bancone che andava a destra e sinistra. Stava ferma, io andavo a destra e sinistra. 
“Prova o muori. Riesci e non morirai mai” c’era scritto . Ora, di frasi motivazionali ne ho lette tante, stupende, bellissime, incredibilmente motivazionali, di frasi necessarie al momento giuste, quella, era la prima. Fui fulminato, mi staccai di colpo dal bancone, buttai giù gli ultimi sorsi di piscio più che di birra, cercai eroicamente di non cadere e con le mani svegliai il mio viso indolenzito. Ero morto, quella fottuta maglietta aveva ragione, non ho mai provato, non ho mai avuto il coraggio di provare, molto più sicuro morire. Hai dei sogni? Cancellali, il motivo conduttore del mio passato è stato questo, me lo hanno iniettato, a volte lo facevo anche da solo. Perché se al mondo di oggi sommi la libertà di un ragazzino ottieni un’apocalisse e non va bene. È la nostra natura auto-sedarci, d’altronde nessuno vorrebbe vedersi estinguere, così mi imponevo di seguire dei canoni ben precisi, di restare nel limite creato per essere felici. Il limite era resistere. 
Nasci, cresci, studia, lavora, riproduci, muori. Il limite era resistere a questo schema.
Nasci e muori non puoi cancellarlo, ma già su cresci ho forti dubbi, poi parlare di limiti è parlare di come infrangerli, quindi di come creare caos e quindi di come uccidersi. Ma a questo nessuno ci ha pensato. 
Insomma, sono imploso. Non esploso. Quel filo da non superare mi stava stretto, ma non dovevo tagliarlo. “O Cosi o non sei un cazzo di nessuno. O così o dovrai donare un rene per sopravvivere un’ora in più” c’era scritto sulle magliette prima. Forse ho esagerato ma rende l’idea. Leggevo questo, non sapevo far altro che leggere questo. Non scavavo, non cercavo vie di fuga. Mi pisciavo sotto ed obbedivo. Ora sono qui, ridotto così. Con la vita di chi mi ha cresciuto e i sogni di chi mi ha distrutto. Ero intenzionato a diventare tutt’altro, convinto che sognare ad occhi aperti non possa fare così male. Qualcuno però mi ha strattonato e il velo magico che mi oscurava la vista cadde a pezzi. 
È la prima volta che penso al passato. È la prima volta che penso sinceramente al passato. Devi stare stretto in ogni abito del tuo presente per pensare a quanto fossero comodi i panni fuori moda di un tempo. 
Pensavo di avere mille scelte, che non dovessi aver paura di nessuno, che il sorriso dovessi procurarmelo da solo e che se fossi stato triste la colpa era solo e solamente mia. L’amore, il lavoro, i viaggi. Non vedevo l’ora. Scalpitavo. Cazzo, cresci. Tutte le teste adulte che mi circondavano sembravano così al loro posto, così incredibilmente realizzate, così stranamente adatte ad eseguire ed impartire ordini. Ed io, testa rincoglionita e piccola, succube e nient’altro. Felice ma succube. Felice perché stupida e ignorante, come era giusto crescere. Troppo poco esperta per capire che le teste adulte non facevano altro che recitare un copione, tramandato da generazione a generazione, senza subire mutamenti. 
Nasci, cresci, studia, lavora, riproduci, muori. Zitti, obbedite.

Estratto dal romanzo "Rossa e vecchia" di Biagio di Carlo, Midgard Editrice 2021.





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