giovedì 25 febbraio 2021

La banda del vecchio orologiaio e altre storie d'amicizia

 di Giordano Gerundio.





Il vecchio Giovanni abitava in una bella città, un po’ magica, un po’ fiabesca, con le case di mattoni rossi, i tetti aguzzi e grandi torri che sembravano aver in testa enormi cappelli di strega. Giovanni, nonostante l’età, lavorava ancora e gran parte del suo tempo lo passava ad aggiustare orologi. Tutte le mattine, alle sette, puntuale proprio come un
cronometro, si svegliava, si lavava e beveva il tè.
Si sistemava poi con cura il panciotto e il farfallino e quando scoccavano le otto usciva di casa.
Era come se sbucasse dalle pagine di una fiaba: i capelli sembravano batuffoli di cotone, la camminata a scatti ricordava il tic-tac di una vecchia sveglia.
“Tic-tac”, “tic-tac”, attraversava le stradine del centro, passando a fianco della cattedrale.
Era solito alzare per un attimo lo sguardo alla bella facciata con il magnifico rosone e le alte guglie; poi proseguiva finché sbucava nella piazzetta do-ve aveva la sua bottega.
Orologiaio, come il padre e il nonno, da una vita ormai, avrebbe potuto benissimo starsene a casa a godersi la sua pensioncina. Ma Giovanni amava quel lavoro e il ticchettio degli orologi gli teneva compagnia, come i vecchi amici che andavano a trovarlo tutti i pomeriggi.
Il primo amico ad arrivare era sempre Mario, pipa in bocca e giornale sottobraccio. Salutava Giovanni con un borbottio, si sedeva nell’angolo più luminoso del negozio e iniziava a sfogliare il giornale.
Poco dopo arrivava il resto della banda: Peppino e Pasquale.
Prima ancora che si intravedessero dalla vetrina, si sentivano le loro voci e le loro fragorose risate.
Entravano nella bottega e prendevano posto accanto a Mario che, inforcati gli occhiali, iniziava a leggere, serio serio, il giornale.
Finito un articolo – guai a interrompere Mario quando leggeva! – i quattro amici commentavano quanto avevano ascoltato.
Quando Giovanni poi smetteva di lavorare, passavano il resto del pomeriggio a giocare a carte. Tra una partitina e l’altra, c’era sempre qualcuno che ricordava i bei tempi andati: quante avventure avevano vissuto insieme!
Un pomeriggio Peppino, guardando fuori, vide che leggeri fiocchi di neve scendevano dal cielo e scoppiò a ridere. Gli altri lo guardarono perplessi e allora lui disse: “Ricordate quando ci fu quella grande nevicata? La città era sommersa di neve, ma Giovanni a tutti i costi s’era ripromesso di consegnare un grande orologio a pendolo, in bicicletta per giunta.”
Rise ancora, poi continuò: “Ricordate che gran scivolone fece lungo la discesa della stazione? Il pendolo schizzò giù come un razzo e si schiantò su un binario proprio mentre il cucù rintoccava le sei precise!”
Tutti gli amici risero, tranne Pasquale.
“Fu vent’anni fa, non è vero?” chiese, sforzandosi di ricordare.
“No. No”, rispose Peppino. “È stato ben prima perché io abitavo ancora nella casa vecchia.”
“Mah, a me sembrava fosse successo molto dopo”, disse Giovanni.
Essi amavano rifugiarsi nel passato: lì dentro si
sentivano al sicuro! Per quanto difficile fosse stato, in qualche modo lo avevano affrontato; il presente e
soprattutto il futuro, invece, erano pieni di incertezze. E poi dalla vita i quattro amici non si aspettavano granché.
Un bel giorno, un avvenimento cambiò completamente il loro destino e quello di un nuovo amico.
Da qualche tempo, proprio vicino alla bottega di Giovanni, era venuto ad abitare un bambino con la sua mamma.
La donna lavorava tutto il giorno, perciò Emmanuel passava molto tempo da solo. Spesso si fermava vicino alla vetrina ad ammirare quegli orologi.
Un pomeriggio Giovanni sollevò il capo dal suo bancone e vide il bambino fermo con il naso appiccicato alla vetrina.
Faceva molto freddo, il suo respiro caldo aveva formato intorno al volto una piccola nuvola. Giovanni allora lo invitò cordialmente: “Entra, entra pure! Non restare lì al freddo.”
Il bambino non riuscì a sentire la voce dell’orologiaio, ma capì che cosa gli diceva dai gesti della mano. Aprì la porta ed entrò. Giovanni gli venne incontro premuroso: “Vieni dentro, bambino. Come ti chiami?”
“Mi chiamo Emmanuel, signore.”
“Macché signore, io sono Giovanni. Ora togliti il cappotto che qui fa caldo”, disse sorridendo il vecchio orologiaio che dandogli una scompigliata ai capelli, aggiunse: “Resta quanto vuoi.”
Il bambino si guardò intorno meravigliato. Centinaia di orologi si mostravano ai suoi occhi attenti: appesi alle pareti, poggiati sugli scaffali, sistemati nelle vetrinette, sembravano dirgli con la musica delle lancette: “Benvenuto, sei nella casa del tempo!”
Anzi dei tempi! Perché molti orologi segnavano il tempo in perfetta sintonia, altri, invece, sembravano andar di fretta e correvano in avanti, altri se la prendevano comoda e rimanevano indietro tranquilli… alcuni, infine, erano fermi come se fossero stanchi di stare al passo con il tempo.
Poco dopo arrivò Mario, salutò Giovanni e si sedette al solito posto con le gambe accavallate. Mentre stava per aprire il giornale, si accorse di Emmanuel e disse incuriosito: “Ma chi è questo bambino?”
Il piccolo, che stava osservando con attenzione un grande orologio a pendolo, si girò verso di lui e rispose: “Mi chiamo Emmanuel, signore.”
Giovanni, sorridendo, precisò: “È uno che ama gli orologi, come noi.”
Quando arrivarono Peppino e Pasquale, grande fu la loro contentezza nel vedere che la compagnia si era allargata: Emmanuel restò con i quattro vecchietti fino all’ora di chiusura e, da quel giorno, incominciò ad andare a trovare Giovanni tutti i pomeriggi, dopo aver fatto i compiti.
Era lui ora che teneva in ordine il negozio e spolverava tutti gli orologi, e il vecchio orologiaio incominciò pian piano a insegnargli i segreti del mestiere.
Un mestiere fatto di pazienza e precisione, doti necessarie per prendersi cura degli orologi meccanici, cioè di quelli che, come diceva Giovanni, hanno un cuore.
Un cuore fatto di bilancieri, oscillatori, ingranaggi piccoli e piccolissimi.

Estratto da La banda del vecchio orologiaio e altre storie di amicizia di Giordano Gerundio, Midgard Editrice 2020



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