martedì 17 luglio 2018

La Guerra del Sale

di Fabrizio Bandini








Volgendo al termine l’anno del Signore 1539, Papa Paolo III Farnese decise un aumento della tassa del sale di tre quattrini la libbra, in tutto il territorio dello Stato Pontificio.

Si doveva combattere il turco infedele e il protestante traditore di Santa Romana Chiesa.

Servivano nuovi denari, insomma.

La richiesta di tale aumento provocò subito lo sdegno di numerosi Comuni, fieri delle loro antiche libertà, che continuavano a godere ancora in parte sotto il governo papale.

A Ravenna si ebbero tumulti e l’agro romano cominciò a ribollire.

Quando la notizia giunse a Perugia, la fiera e altera città umbra, turrita e guerriera come nessun’altra, facitrice di stirpi di bellicosi condottieri, un fremito di rabbia la percorse tutta.

Il Farnese, che aveva già abbattuto la centenaria e gloriosa Signoria dei Baglioni, stirpe fiera e ferocissima, bandendone dalla città i membri, ora, con questa pesante tassa, che negava i privilegi concessi a Perugia dai Pontefici Urbano VI, Martino V ed Eugenio IV, si preparava a sottometterla definitivamente.

Almeno questa era la sensazione che pervadeva la maggioranza dei perugini, dai nobili ai popolari, dai mercanti agli uomini d’arme.

Fu un attimo e la città si ribellò.

Fra il popolo si sparse la voce che la tassa veniva imposta non per la difesa della Fede contro il turco e il luterano, ma bensì per gli sperperi della curia romana, di Costanza, la figlia del Papa, e per i denari che il Farnese dava all’Imperatore Carlo V, per tenerselo amico, che oramai l’intera Italia e mezza Europa erano sotto il dominio di quel potente sovrano.

In quei freddi mesi del principio del 1540 era Capo dei Priori di Perugia Alfano Alfani, vegliardo saggio e posato.

Presagendo grandi rovine egli tentò inutilmente di convincere gli altri Priori e i più eminenti nobili della città a non opporsi al volere del Pontefice, che era una pura follia ribellarsi a lui in quei burrascosi frangenti.

Nessuno gli volle dare ascolto.

Tre ambasciatori della città, Marcantonio Bartolini, Sforza degli Oddi e Mariano dei Bizzocchetti e Narducci, gentiluomini distintissimi, furono inviati a Roma portando con sé una serrata e drammatica supplica scritta dal famoso letterato Luca Alberto Podiani.

Il Papa n’ebbe a male ed in un moto di rabbia ordinò agli ambasciatori di ubbidirgli, sennò avrebbe usato contro la città ribelle le chiavi di Pietro e la spada di Paolo.

Subito dopo arrivò in Perugia un ambasciatore della curia romana che intimava con tono fermo ai Priori l’accettazione dell’aumento della tassa del sale, pena la privazione dei privilegi, l’interdetto e la confisca dei beni.

Il povero Alfani, in difficoltà, assicurò al messaggero papale l’obbedienza della città, ingarbugliando ancor di più la faccenda.

Ma i perugini non la pensavano allo stesso modo.

La città fremeva di rabbia.

La rivolta dilagava già per le anguste vie, da Porta Sole alla Piazza Grande, da Colle Landone, dove sorgevano le severe torri e le magnifiche case dei Baglioni, sino a Porta S. Pietro.

Si preparavano spade, scudi, armature, armi d’ogni genere.

Qualche ardito già si lamentava che il Farnese era troppo lento nel muovere guerra e che ben presto avrebbe assaggiato il ferro dei perugini.

La stessa esaltazione che aveva incendiato Firenze dieci anni prima, al tempo del celebre assedio degli Imperiali, ora scorreva per Perugia, la città indomita e marziale, la città della battaglia dei sassi, di Braccio Fortebraccio, degli Oddi e dei Baglioni.

In ogni caso si volle decidere consultando la cittadinanza se accettare la tassa sul sale oppure no.

Il popolo fu riunito nelle cinque maggiori chiese delle principali Porte della città, S. Domenico per Porta S. Pietro, S. Francesco per Porta S. Susanna, S. Agostino per Porta S. Angelo, S. Fiorenzo per Porta Sole e S. Maria dei Servi per Porta Eburnea.

Gli animi ribollivano, oramai inaspriti, esasperati.

Nella gotica S. Maria dei Servi, tempio dove riposavano alcuni dei magnifici Baglioni, come il celeberrimo Braccio I, e molti illustri dottori della Sapienza, la votazione fu chiarissima.

Si propose che chi accettava la tassa del Farnese si radunasse nel coro.

La bella Chiesa si vuotò in un attimo.

Di fronte a questi eventi i Priori decisero di eleggere un Consiglio di venti gentiluomini, per trattare la difficile questione con il Papa.

Ma la cosa non piacque alla fazione più esagitata, che quei nomi parevano troppo moderati.

Così una folla infuriata irruppe a Palazzo e i Priori si videro costretti ad annullare tutto, temendo di essere gettati dalle finestre del venerando edificio, come era consuetudine in quegli anni burrascosi.

I perugini quindi furono di nuovo convocati nelle cinque chiese e si pervenne alla nomina dei Venticinque Difensori di Giustizia de la Città di Perugia, che dovevano trattare con il Farnese, senza indietreggiare di un pollice.

Fra loro vi era il fior fiore della nobiltà e alcuni popolani: Gentile Graziani, Lorenzo Baglioni, Bartolomeo Montevibiani, Benedetto Tucci e Ciancio Ceccarini per Porta S. Pietro; Pier Filippo Mattioli, Bernardino Montesperelli, Malatesta Ranieri, Niccolò Tei e Alberto Guidantoni per Porta Sole; Vincenzo della Penna, surrogato da Carlo Della Penna, Bartolomeo della Staffa, Cornelio degli Oddi Novelli, Mariano dei Bizocchetti e Narducci, e Cesare de’ Merciari per Porta S. Angelo; Francesco Maria degli Oddi, Giulio della Corgna, Tindaro Alfani, Girolamo Franchi e Bernardino Dionigi per Porta S. Susanna; Annibale Signorelli, Polidoro Baglioni, Marco Barigiani, surrogato da Marco Boncambi, Marcantonio Bartolini, e Borgia Sulpizi per Porta Eburnea.

Il 17 marzo 1540 arrivò la scomunica papale sulla città ribelle.

Le campane delle chiese suonarono a morto.

Era la guerra.

I Venticinque, insediatisi nella sala del collegio della Mercanzia, presero il controllo della situazione, esautorando gli stessi Priori nelle decisioni più importanti.

Furono approntate le milizie cittadine e segnati i turni di guardia per la città e per le mura possenti di travertino.

Paolo III, ben conscio del valore guerriero dei perugini, meditò a lungo sul da farsi, poi, in pieno concistoro, annunciò in mezzo ai cardinali di voler ridurre all’obbedienza quella città così ribelle con la forza delle armi.

Il Cardinal Iacobacci, Legato in Umbria, tentò un’ultima mediazione, raggiungendo Foligno.

Ma i Venticinque furono irremovibili, non fu permesso nemmeno a Luca Alberto Podiani di recarsi ad incontrarlo.

Le trattative fallirono ancor prima d’iniziare.

Venne aprile e comparvero nel territorio perugino le prime armate pontificie, guidate da Pier Luigi Farnese, figlio del Papa Paolo III, Duca di Castro e Gonfaloniere di Santa Chiesa.

Personaggio torvo, libidinoso e senza scrupoli, che s’era già macchiato di obbrobriosi crimini.

I perugini si affidarono al Cristo.

Il 5 aprile, di notte, fu issato sopra la porta del Duomo, che guarda la Piazza Grande, un grande Crocefisso.

Per tre sere, all’imbrunire, l’intera città si mosse in processione da S. Domenico, lentamente, pregando, fin sotto le scale del Duomo.

Avanzavano i magistrati, i nobili e le confraternite.

Mancavano del tutto i religiosi invece, visto che sulla città pendeva l’interdetto papale.

Davanti al grande Crocifisso s’inginocchiava in preghiera una folla, scalza, supplicante, che si percuoteva le spalle con i flagelli, in un’atmosfera densa e drammatica.

Pure i soldati della milizia passando per la Piazza Grande s’inginocchiavano e abbassavano le bandiere davanti al Crocefisso.

La terza notte, nella piazza illuminata dalle torce, davanti ad una folla straripante, in preghiera, il Cancelliere dei Priori Mario Podiani fece un commovente discorso e depose le chiavi della città ai piedi del Crocefisso.

La folla eruppe in un grido alto, per tre volte, –Misericordia! Misericordia! Misericordia!-.

L’armata papale intanto si stava radunando fra Foligno, Assisi e Bastia.

Ottomila italiani e ottocento tedeschi, guidati dai condottieri Pier Luigi Farnese, Alessandro Vitelli, Girolamo Orsini, Giambattista Savelli, Niccolò da Tolentino e Teobaldo Starnotti da Cerreto.

A cui s’aggiunsero, pochi giorni dopo, tremila spagnoli, inviati dal viceré di Napoli, Don Pedro de Toledo.

Un’armata imponente.

Perugia poteva opporgli solo le milizie cittadine, non molto numerose, e duemila fanti, per la maggior parte senesi.

L’armata del Farnese si muoveva con lentezza, senza fretta, con la calma di chi è ben cosciente della sua forza.

In quei giorni primaverili si ebbero solo alcune scaramucce far i due eserciti.

I Venticinque speravano nell’aiuto delle città vicine, come Spoleto, che aveva dato segno di ribellarsi al Papa, e addirittura nell’intervento dell’Imperatore Carlo V.

Ma ben presto arrivò la notizia che Spoleto recedeva dalla rivolta, per non inimicarsi il Pontefice, e Carlo V, invece, da Anversa mandò a dire che si doveva obbedire.

Ai Venticinque rimaneva una sola carta in mano: invitare il giovane e bellicoso condottiero Rodolfo II Baglioni, figlio del grande Malatesta IV Baglioni, ultimo Signore di Perugia, a rientrare in città, nella sua Perugia, e a guidare la difesa contro la potentissima armata del Papa.

Rodolfo si trovava in Toscana, al servizio di Cosimo de Medici.

Gli fu inviata rapidamente un’ambasceria.

Il giovane Baglioni rispose, riflessivo e cauto, che per un’impresa di tal fatta servivano denari, molti denari, armi, vettovaglie e tutto il resto.

Il condottiero si rendeva ben conto della sproporzione delle forze in campo e temeva di ritrovarsi alle strette, come il suo amato padre Malatesta all’assedio di Firenze.

I Venticinque e i Priori non si scoraggiarono, si diedero a cercare denari, ori, argenti, in maniera spasmodica, ed infine inviarono una nuova ambasceria a Rodolfo Baglioni.

Questi si dibatté di nuovo nel dubbio.

L’impresa sembrava disperata, resistere alle forze del Farnese quasi impossibile, forse se ne poteva cavare solo un onorevole accordo.

Ma poi gli balenò alla mente Perugia, la sua amata città, le torri e palazzi dei Baglioni, nel Colle Landone, la città dei suoi avi, di Pandolfo, Malatesta I, Braccio I, Guido, Rodolfo I, Gianpaolo e Malatesta IV, suo padre.

Ripensò alla Signoria dei suoi avi, quella Signoria che era sua, che gli spettava di diritto, quella Signoria che il Papa gli aveva tolto.

E allora si decise.

Sarebbe accorso a Perugia.

Sì.

Sarebbe tornato nella sua città, per difenderla.

Ottenuto il permesso da Cosimo, mosse dal fiorentino con le sue truppe, e si diresse verso Perugia.

A Cortona il giovane Baglioni ebbe un drammatico incontro con l’amata madre, Monaldesca.

Questa tentò in tutti i modi di convincere il figlio a desistere dall’impresa, che era una pura follia e che non c’era da guadagnarci nulla.

Il ventiduenne Baglioni scosse la testa, le disse che oramai aveva dato la sua parola, e, seppur commosso, tirò dritto.

Nelle sue vene scorreva il sangue di Casa Bagliona, indomito e feroce, celeberrimo in tutta Italia.

Il dado ormai era tratto.

Mandati avanti i suoi capitani, Girolamo della Bastia e Pantaleone del Menna, Rodolfo Baglioni entrò in Perugia, per Porta S. Susanna, fiero e marziale, con un magnifico seguito di fanti e cavalieri, la sera del 16 maggio, che era la Domenica di Pentecoste.

Giunto velocemente in Piazza Grande smontò da cavallo e solennemente s’inchinò davanti al Crocefisso, in silenziosa preghiera.

Il popolo di Perugia alla notizia accolse festante da tutti i vicoli e portò in trionfò il giovane condottiero a Palazzo dei Priori, fra urli di gioia, spari, fuochi, suoni di trombe e di campane.

L’allegria della gente non fu frenata neanche dalla spaventosa bufera che si abbatté poco dopo sulla città, con tuoni, grandine e fulmini.

Rodolfo Baglioni era tornato.

Questo bastava.

Il popolo era in delirio per lui.

Il Baglioni cenò a Palazzo dei Priori e quella notte dormì in Canonica, dove avevano soggiornato Papi e Cardinali e si erano tenuti Conclavi.

Nei giorni successivi Rodolfo perlustrò la città, passò in rivista le milizie, si diede a fortificare le mura presso l’Ospedale del Cambio, in Porta S. Pietro, e presso S. Cataldo, in Porta Eburnea.

Nel frattempo la potente armata del Papa si muoveva contro il Castello di Torgiano, alla confluenza fra il Chiascio e il Tevere, ben difesa dal valente capitano Andrea D’Arezzo e dal prode perugino Ascanio della Corgna, con due compagnie di fanti.

L’armata farnesiana di trovò davanti un ostacolo imprevisto.

Per giorni assaltarono il Castello, senza averne ragione.

I perugini si difendevano con un coraggio e con valore incredibile, infliggendo ai nemici numerose perdite.

Anche Pier Luigi Farnese rischiò di lasciarci la pelle.

Un giorno, mentre attraversava il fiume sul ponte di Rosciano, con la sua cavalleria, fu individuato dai fanti del Castello, che gli tirarono una bella archibugiata addosso.

La palla gli passò vicino e colpì la groppa del suo cavallo.

Visto che Torgiano non cedeva, i condottieri del Papa, riunitisi, decisero di lasciare Alessandro Vitelli all’assedio del Castello, con un buon numero di feroci spagnoli, mentre il grosso dell’esercito avrebbe proseguito verso Perugia.

Così fu fatto.

L’armata del Pontefice arrivò a Ponte S. Giovanni e qui ebbe un piccolo scontro con le forze perugine.

Poi si mise a girare il contado, intorno alla fiera città, devastandolo completamente, incendiando e bruciando tutto.

Dalle torri di Perugia si vedeva ogni giorno in lontananza alzarsi il fumo degli incendi.

Bruciavano case, palazzi, ville, castelli.

Il Farnese non aveva fretta, come un grosso gatto che gioca con il topo si contentava di assediare la città e di aspettare, lanciando di tanto in tanto rapide incursioni contro Perugia.

Come il giorno in cui, improvvisamente, l’esercito papale irruppe nel borgo di Fontenuovo e lì scoppio una feroce battaglia.

Rodolfo Baglioni gli inviò contro una schiera di trecento valorosi e posti dei cannoni in Porta Sole si mise a bersagliare i nemici con potenti colpi.

I farnesiani furono messi ben presto in rotta.

In Perugia intanto scoppiavano feroci liti e torvi malumori.

Rodolfo Baglioni, constatato che i denari e i viveri promessi erano ben poca cosa, si scagliava contro i Venticinque, urlando che lo avevano ingannato, che non avevano i mezzi neanche per iniziare una guerra, e minacciava di andarsene con i suoi soldati.

I Difensori lo pregarono di restare e così, dopo aver sbollito la rabbia, fece.

Ma il malumore del popolo perugino cresceva contro il governo dei Venticinque, molti cittadini li ingiuriavano e li minacciavano oramai apertamente, con sempre maggior veemenza.

Si parlava di scacciarli, di ucciderli, di tagliare loro la testa senza pietà.

L’aria di Perugia si era fatta densa, pesante, cupissima.

Le liti fra fazioni nella città non avevano tregua e su litigava su tutto.

Il 25 maggio Rodolfo fece convocare un consiglio generale, in cui si discusse sul da farsi.

Il venerando Luca Alberto Podiani fu il primo ad accennare alla possibilità di arrendersi, visto la difficoltà estrema in cui si trovava la città.

I più fecero finta di non averlo sentito.

Il 30 maggio arrivò la ferale notizia che Torgiano, dopo un’eroica resistenza, si era arresa alla truppe del Vitelli.

La notte di Perugia diventò ancora più oscura, se è possibile.

Il giorno successivo, il primo di giugno, fu convocato un nuovo consiglio generale.

Ivi si scontrarono il partito della guerra, che voleva resistere ad oltranza, finanziando la difesa con altri ventimila scudi, e il partito della resa, che proponeva d’inviare un’ambasceria a Papa Paolo III.

Anche il Baglioni consigliava la resa, di salvare almeno il salvabile, di evitare l’orrido saccheggio dei nemici, prima che fosse troppo tardi.

Dopo un feroce e accanito discutere si mise ai voti e vinse il partito della resa, con la proposta d’inviare Benedetto Montesperelli e Orazio della Corgna a Roma, a chiedere perdono al Pontefice.

Ma la confusione era tale in città che non se ne fece nulla.

Il Montesperelli e il Della Corgna non partirono mai.

Un’atmosfera terribile e frenetica ammorbava Perugia.

Due giorni dopo, il 3 giugno 1540, nel monastero di Monteluce, Rodolfo Baglioni firmò la resa della città con Girolamo Orsini, capitano dell’esercito pontificio, con cui aveva già avuto un abboccamento nei giorni precedenti, in S. Costanzo.

Venne pattuito che Rodolfo sarebbe partito con i suoi soldati in ordine di battaglia e con le bandiere spiegate; quanti volevano fuggire da Perugia portando con sé i loro beni potevano farlo entro tre giorni; che Pier Luigi Farnese sarebbe entrato in città con i suoi soldati italiani e l’avrebbe mantenuta nel medesimo assetto di prima della guerra; che non sarebbero entrati i soldati spagnoli e che sarebbe stata rispettata la vita e i beni dei cittadini e l’onore delle donne.

Era la resa migliore che si poteva ottenere.

I Venticinque, sentendosi compromessi, si diedero alla fuga, con le famiglie, i figli e i beni che potevano portare con sé, alla volta di Firenze, Siena ed Urbino.

Alcuni si erano dati alla macchia ancor prima della resa, vista la mala parata.

Rodolfo Baglioni abbandonò Perugia il 4 giugno, con le sue bandiere al vento e i suoi uomini d’arme.

Lasciava per sempre Colle Landone, le belle case e le severe torri dei suoi avi.

La Signoria dei Baglioni era tramontata definitivamente.

Il giorno seguente entrava nella città Pier Luigi Farnese, da Porta S. Antonio,  con i suoi capitani, il Savelli, l’Orsini e il Vitelli, con millecinquecento fanti e trecento cavalieri, che lanciavano urla sguaiate di vittoria.

I Priori, usciti in solenne processione dal Palazzo, per andare incontro al Farnese, furono ignominiosamente fatti tornare indietro e subito dopo ebbero l’ordine perentorio di tornare alle proprie case.

Veniva sciolta così, dopo due buoni secoli, quella veneranda istituzione.

Perugia era stata vinta e ora avrebbe dovuto sopportare le angherie e le prepotenze dei vincitori.

Alessandro Vitelli, rancoroso verso i perugini per passati scontri, fissava la città con odio e pretendeva il saccheggio, che il trattato stipulato a Monteluce fra il Baglioni e l’Orsini gli pareva troppo leggero.

Visto che il Farnese non gli dava retta meditò con i suoi accoliti di simulare nottetempo una rivolta baglionesca in città, in modo da avere il pretesto di scatenarsi in un selvaggio sacco.

Girolamo Orsini, il capitano più vicino ai Baglioni, lo venne però a sapere e lo riferì a Pier Luigi Farnese.

Così saltò il diabolico piano escogitato dal Vitelli.

Ma questi, sempre più incarognito, non mollò la presa.

Pretese dapprima la grande campana bronzea del Palazzo dei Priori, e visto che il Farnese non gli concedeva nemmen quella, si dovette accontentare di una delle lumiere di ferro dello stesso, che riportò come trofeo di guerra nel suo palazzo di Città di Castello.

Gli accordi presi da Rodolfo Baglioni nel monastero del Monteluce vennero da subito beatamente ignorati.

I soldatacci spagnoli furono fatti entrare in città, come i lanzichenecchi tedeschi, e ben alloggiati, tanto che le più belle ragazze di Perugia dovettero fuggire e nascondersi, per evitare turpi violenze.

I Venticinque furono dichiarati ribelli, esiliati, con le loro famiglie, confiscati tutti i loro beni, e demolite le loro case.

Due di loro, dopo esser stati catturati, vennero anche sommariamente giustiziati.

Si trattava di Carlo Graziani e di Borgia Sulpizi, la cui testa fu issata all’inferriata della fontana.

Orrido spettacolo.

I loro vicini e amici, invece, furono costretti a dare una mano a scarcare le loro case.

I magnifici Priori furono ben presto sostituiti dai Conservatori dell’Ecclesiastica Obbedienza, che davanti al Legato pontificio dovevano giurare obbedienza al Papa.

Paolo III tolse l’interdetto alla città ribelle, ma pretese che venticinque cittadini andassero ai suoi piedi, a Roma, ad implorare perdono, con le corde al collo, come buoi ben aggiogati.

Cosa che puntualmente fecero.

Ma la punizione di Perugia non era finita.

Il Papa, temendo una possibile riscossa dei Baglioni, mai domi, e nuove ribellioni di quella città marziale e riottosa, volle che vi fosse costruita una grandissima fortezza.

Il progetto spettò ad Antonio da Sangallo il giovane, famoso architetto dell’epoca.

Il 26 giugno 1540, dopo una non troppo lunga assenza, tornarono in città Pier Luigi Farnese ed Alessandro Vitelli, e arrivati a Colle Landone, nel bellissimo quartiere dei Baglioni, cominciarono a studiare dove costruire la grande rocca.

Due giorni dopo, il 28 di giugno, cominciò la demolizione della magnifica casa di Braccio Baglioni, con le sue torri, e della Sapienza Nuova.

I perugini dovettero non solo assistere all’orrida demolizione del bellissimo quartiere dei Baglioni, ma parteciparvi pure, attivamente, con picconi e badili.

Una tristezza cupissima avvolse tutta la città.

Vennero giù in poco tempo le magnifiche case e le torri dei Baglioni, di Braccio, di Rodolfo, di Gentile e di Malatesta, con la torre dell’orologio.

L’etrusca Porta Marzia, bella e antichissima, venne inglobata su di un lato della fortezza.

Il quartiere dei Baglioni e l’intero nobilissimo Colle Landone, furono totalmente devastati, con violenza brutale, via Bagliona e le altre belle strade sepolte sotto la possente fortezza.

Con loro sparirono la Sapienza Nuova e tredici antiche chiese, fra cui S. Ercolano di Sopra, S. Stefano e la bellissima S. Maria dei Servi.

Scomparvero le medievali e nobili piazze dei Baglioni e di S. Maria dei Servi, detta anche di Malatesta.

Vennero distrutti due monasteri, ventisei torri e più di cento case.

Il campanile di S. Domenico fu mozzato e per avere materiale da costruzione non si esitò a buttare giù anche la nobile ed antichissima Porta del Sole, di origine etrusca, all’imbocco di via dei Calderari.

In poco più di due anni la poderosa rocca era costruita.

La bella Perugia, con le sue armoniche costruzioni etrusche, romane, medievali e rinascimentali, ne usciva sfigurata, guastata per sempre.

Tanto era costato ribellarsi alla tassa del sale.







Racconto ispirato dalla Storia di Perugia di Luigi Bonazzi, dalla Storia di Perugia di Ottorino Guerrieri, da I Baglioni di Baloneus Astur e dalle cronache dell’epoca.

Immagine: particolare delle "Storie di San Ludovico da Tolosa e di Sant'Ercolano" di Benedetto Bonfigli

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