martedì 29 novembre 2022

La macchina del Diavolo

 di Oscar Bigarini.






Montecastello di Vibio – Umbria - Primavera 1430

Niccolò Juli era una persona tranquilla, amava la natura, i suoi unici amici erano il cane Taddeo, la capretta Isabella, il gatto Rocco, e il somarello Giacinto.
La sua grande amica Matteuccia era stata giustiziata a Todi, il 20 marzo 1428, sul rogo, e lui, sconsolato, nel luglio dello stesso anno, aveva lasciato il  lavoro di farmacista a Todi, venduto la bottega dove esercitava il suo lavoro e con il ricavato aveva acquistato un appezzamento di terra posto a circa tre chilometri dal paese di  Montecastello di Vibio, un’ incantevole rocca medievale, poco distante da Todi e Perugia. 
Con l’aiuto di alcuni amici contadini, si era costruito sul terreno acquistato una piccola casa di tufo, poi aveva cominciato a dissodare un campicello, e nel gennaio 1430, a circa tre chilometri da Montecastello di Vibio, si era ritirato con i pochi denari, gli amati libri e gli amici animali.
Viveva ora in quella casetta di due ambienti; nell’ambiente più grande c’era il camino, il letto, il tavolo sul quale mangiava e scriveva, una madia per il pane e la farina che otteneva dal frumento coltivato nel campicello. Gli altri alimenti necessari per vivere, quali formaggi, legumi, insaccati,… erano conservati in una credenza posta accanto alla madia. Uno scaffale, agganciato al muro sopra il letto, conteneva in maniera ordinata i libri e i manoscritti di Niccolò. L’altro ambiente, più piccolo e comunicante con il primo, ospitava i giacigli di paglia dei suoi quattro amici animali, ai quali Niccolò, con amore, non faceva mai mancare nulla, cibo e acqua in abbondanza; entrambi gli ambienti disponevano di una finestra per l’illuminazione e di un proprio ingresso dall’esterno.
Dietro la casa, Niccolò aveva costruito, sempre in tufo, un magazzino, nel quale conservava gli alambicchi, le ampolle, gli utensili, i piccoli macchinari, che aveva utilizzato nel precedente lavoro a Todi; tutti oggetti che dalla morte di Matteuccia, non aveva più utilizzato, in quanto il forte dolore che si era impossessato della sua mente gli aveva tolto tutte le sue velleità creative.
Tra la casa e il magazzino, prima di arrivare al campicello, aveva costruito un piccolo stagno dove galline, anatre e oche si abbeveravano e scorrazzavano felici all’aria aperta.. 
L’ appezzamento di terra di Niccolò, era una piccola radura pianeggiante circondata da un fitto bosco, attraversato da una sola strada che partendo dalla sottostante valle umbra, passando vicino a casa di Niccolò, arrivava alle porte di Montecastello di Vibio. 
Niccolò era prossimo ai cinquanta anni, di statura media, magro, portava una barba bianca, non troppo lunga ma sufficiente a coprire le rughe del viso; l’uomo, in genere, indossava una lunga camicia, usurata, ma sempre abbastanza pulita, oppure un farsetto, molto consumato, probabilmente avuto come compenso da un ricco signore per dei servigi prestati, delle lunghe braghe di tela completavano l’abbigliamento. In inverno Niccolò usava indossare un mantello per  ripararsi dal freddo, non se lo toglieva nemmeno per dormire.
Preso dai suoi pensieri, di carattere principalmente speculativo e scientifico, Niccolò era con la mente quasi sempre assente dal mondo che lo circondava, la gente doveva ripetergli spesso due o tre volte le cose, prima che lui si distogliesse dai suoi pensieri, e interagisse con l’interlocutore. 
L’amata moglie Bianca era morta quattro anni prima, nel 1426,  tra strazianti dolori, colpita da una brutta malattia allo stomaco, a nulla erano servite le cure che l’amica Matteuccia le aveva prestato attraverso pozioni medicinali, ricavate da erbe, oppure con  misteriosi unguenti. 
Nei quattro mesi della malattia di Bianca, l’unico conforto per Niccolò erano state le lunghe conversazioni con Matteuccia: lei aveva cercato di consolarlo,  di fargli coraggio, di distrarlo dai brutti pensieri portando la conversazione verso argomenti di comune interesse, tra i quali l’uso delle erbe per preparare infusi ed unguenti medicinali o l’anatomia dell’essere umano. 
Matteuccia di Francesco, era nata a Ripabianca nel 1388, esperta conoscitrice di erbe, preparava medicinali per guarire le malattie del corpo e dell’anima delle persone, non poche in verità, che si rivolgevano a lei. Tra i suoi clienti e protettori c’era anche Braccio Fortebracci, indomito condottiero, signore di un ampio territorio dell’Italia centrale che comprendeva anche Perugia, la città della sua famiglia. 
Paradossalmente, l’amicizia del celebre personaggio, anziché aiutare la donna nella sua attività di guaritrice,  fu uno dei motivi che portarono l’Inquisizione a decretare la condanna a morte di Matteuccia, a seguito dell’accusa di stregoneria. L’esecuzione della donna fu infatti un modo per colpire Braccio da parte del Papa Martino V, in quanto il condottiero contendeva i territori dell’Italia centrale proprio al pontefice. 
Matteuccia prestava le sue cure amorevoli soprattutto alle donne, donne logorate dalle numerose gravidanze, donne sfinite dal peso della famiglia, donne sottomesse al volere dei parenti. La guaritrice desiderava solo essere libera di fare le sue scoperte, pensava che essere un’ esperta di erbe l’avesse  potuta tenere al riparo dalla cattiveria del mondo. Ma così non fu. 
Nel  processo, svoltosi a Todi ad opera del “Tribunale dei Malefici”, i capi di imputazione contro Matteuccia furono trenta, tra questi: l’ accusa di aver convinto un aiutante di Braccio a recuperare le carni di un uomo annegato per realizzare un olio medicamentoso, l’accusa di essere in grado di trasformarsi in una gatta,  quella di aver volato sopra un capro fino al famoso noce di Benevento, il luogo in cui si diceva le streghe si incontrassero in presenza del demonio, e infine di aver bevuto il sangue di molti bambini. 
Alla donna non fu data la possibilità di difendersi e salvare la propria immagine, di contrastare la feroce battaglia scatenata contro di lei, di spiegare che l’unica sua intenzione era la conoscenza della  medicina, dell’anatomia del corpo umano, per trovare il modo, attraverso le erbe, di contrastare le malattie. 
Durante il processo, nessuno la  aiutò, compresi i membri della sua famiglia, alla fine, anche grazie alla pratica della tortura, risultò rea confessa.
Il 20 marzo 1428, a 40 anni, fu bruciata viva a Todi, in piazza del Montarone, contro di lei intervenne persino Bernardino da Siena. 
Niccolò aveva in comune con Matteuccia l’interesse per le erbe medicinali. Insieme, nella bottega di farmacista di Todi, preparavano, non visti dalla gente, pozioni ed unguenti che poi dispensavano ai malati più poveri. Per l’uomo, come detto in precedenza, questa attività e l’amicizia della donna, furono di grande aiuto per affrontare il dolore derivante dalla malattia , prima, e dalla morte, poi, dell’amata moglie Bianca.
La frequentazione della maga guaritrice aveva sollevato anche nei confronti di Niccolò sospetti di stregoneria da parte delle istituzioni ecclesiastiche, ma questi sospetti non erano mai sfociati in accuse vere proprie, grazie alla riconosciuta bontà delle sue medicine e l’assidua e costante sua presenza alle celebrazioni religiose. Niccolò era un buon Cristiano.
L’uomo, oltre lo studio delle erbe e la preparazione dei medicinali, aveva anche un'altra grande passione: lo studio delle scienze matematiche, fisiche e chimiche, con una predilezione per la meccanica.
Nel campo della matematica aveva letto le opere dell’ Italiano Leonardo Fibonacci e quelle del francese Nicola d’Oresme, per quanto riguardava la meccanica possedeva  disegni delle macchine progettate dai greci e dai romani sia per scopi civili che bellici, spesso li guardava, aveva in mente di costruirne di più evolute.
Aiutandosi con le nozioni apprese attraverso studi scientifici da autodidatta, aveva costruito geniali arnesi che l’aiutavano nel lavoro di farmacista nel periodo tuderte, come apparecchi di pesatura, trituratori meccanici per erbe, agitatori per soluzioni liquide, macchine a pedali per tagliare il legname, ventilatori a manovella per aerare la casa dal fumo, candele fortemente illuminanti fatte di una speciale cera, etc…. 
Prima della malattia di Bianca la vita di Niccolò era stata abbastanza felice.
Non avevano avuto figli, ma i due erano stati una coppia molto unita, piena di iniziative, i coniugi si sostenevano a vicenda, superavano insieme le avversità, quali epidemie, carestie, invasioni,….. tutti avvenimenti che la dura vita di quel tardo medioevo dispensava abbondantemente.
Ma dopo la morte di Bianca, per Niccolò la vita nella casa di Todi non fu più possibile, le incombenze quotidiane diventarono per lui ogni giorno sempre meno sopportabili, ogni azione che doveva compiere, ogni oggetto che doveva maneggiare, gli ricordavano l’amata sposa e i pensieri che sopraggiungevano lo  rendevano  incapace di compiere le azioni più semplici.
Confortato da Matteuccia resisté ancora a Todi per due anni, ma dopo la morte dell’amica, subentrò in Niccolò uno stato di completa apatia verso il mondo, non ebbe più interessi scientifici, né di altra natura, la sua fervida mente fu bloccata dal dolore, l’unico suo pensiero fu di fuggire dalla città dove aveva vissuto felice con l’amore della moglie Bianca e l’amicizia di Matteuccia.
Nel gennaio 1430 Niccolò si trasferì nella casa, che si era costruito nella radura, vicino a Montecastello di Vibio, insieme ai suoi amici animali e i suoi averi. 

Estratto dal volume “La macchina del Diavolo" di Oscar Bigarini, Midgard Editrice. 


Ordinabile anche su IBS, Mondadoristore, Amazon, nelle librerie Feltrinelli e nelle librerie indipendenti.








Nessun commento:

Posta un commento