sabato 17 febbraio 2024

Intervista a Matteo Salvatti

 





Buongiorno Matteo, come nasce questa tua nuova opera?

Ero a casa di Francesco Alberoni, era anziano, lucido ma sfibrato. Parlava in modo didascalico, accademico. Aveva saputo di me e voleva scrivessi sul suo nuovo magazine. Fu quasi un ordine: «Perché non hai mai parlato dell’amore? Scrivi un libro!» Io, dal più grande studioso al mondo di quel sentimento non potevo che prendere direttive, ma accantonai il progetto dedicandomi ad altri volumi di giornalismo di costume, il mio settore. Dopo la sua morte lo considerai un atto dovuto, qualcosa cui non potevo sottrarmi. Ho così realizzato un testo si rivolge a tutti perché l’amore tocca tutti, ogni età, ogni strato sociale, ogni persona, personaggio e personalità. Io non ne avevo mai scritto perché, come la vita, che o la si vive o la si scrive, io pensavo fosse un ambito da vivere (nel mio caso con eretismo psichico costante) poco incline ad essere esportato o condiviso.

 

Quali sono le tematiche più importanti del libro?

La teoria espressa in questo testo non l’avevo mai trovata e nemmeno mai applicata concretamente tra la gente che ho esaminato per comporlo, forse perché si è sempre partiti dal presupposto (anche con una overdose di ipocrisia) che l’amore sia l’ultimo baluardo di sacralità, un tabernacolo di innamoramento prima e buoni sentimenti poi dinanzi al quale prostrarsi silenti. Ma è del tutto evidente che l’intelligenza artificiale, la cosificazione dei corpi, la visione strumentale di ogni azione troppe volte in atto ci porterà a vivere quello probabilmente in forma embrionale e inconscia sta già accadendo e che io, mettendo i baffi alla Gioconda, ho voluto in qualche modo anticipare sottoforma di iperbole. L’innovazione è aver anche solo sussurrato che il re è nudo.



Qual è il tuo rapporto con la scrittura? Cosa significa per te?

Scrivere significa per me, in questo caso in particolare, vivere altre vite. Vite oltre la mia. Se da un lato mi è piaciuto mettere qualcosa di me in ogni personaggio (una battuta, un fraseggiare, un cinismo, una fobia) d’altro lato io cerco sempre di provare compassione per ogni attore in scena, il che significa immedesimarsi nel suo punto di vista, nei suoi punti di debolezza, nelle proprie fragilità, per cercare di presentarle al lettore/spettatore nella loro versione di ferite verso se stesso prima che verso gli altri. Non ho inscenato setting che presuppongano tifoserie, perché poi si cade nell’a-priori per cui “se la realtà non collima con l’idea che mi son fatto, beh, tanto peggio per la realtà, io l’idea non la cambio”. Se poi parteggiassi per qualcuno farei il suo male, lo renderei insopportabile, ad ogni modo esposto al giudizio, e nessuno sarebbe più capace di accompagnarlo, quindi di accoglierlo e infine dunque di capirlo. E a quel punto avrei fallito.




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