lunedì 9 dicembre 2019

Tempi da lupi

di Giulio Volpi e Nardino Cesaretti






La strada attraversava a mezza costa quella zona di montagna e seguiva, adattandosi alla morfologia del terreno, lo stesso percorso di allora.
Curve molto strette e scomode costringevano spesso a rallentare e guidare con attenzione, solo qualche breve rettilineo permetteva un minimo di rilassamento consentendo l’osservazione del paesaggio, bello e selvaggio.
Il fondo stradale era asfaltato, unica differenza da quel lontano periodo quando c’era ancora la guerra ed il passaggio dei mezzi militari sollevava una polvere così fitta da impedire quasi completamente la vista.
Il fiume rimaneva sulla sinistra e scorreva molto più in basso rispetto al livello della carreggiata, quasi in fondo a un dirupo, e lei riusciva a scorgerlo solo in quei rari e brevi tratti dove la fitta vegetazione si interrompeva.
Cercava di riconoscere quei luoghi individuando qualche punto di riferimento: il paese ormai doveva essere vicino.
Di là dal fiume, in cima al colle più alto, le sembrò per un attimo di scorgere la vecchia torre seminascosta tra gli alberi, ma la presenza di alcune case che non ricordava ci fossero in quel tempo le fece perdere di nuovo l’orientamento finché, giunta in prossimità di un bivio, gli apparve il mulino.
Riconobbe quel posto: la strada bianca che partiva sulla destra era quella che portava ai Casali.
La vecchia costruzione, ormai in disuso e abbandonata, era ancora riconoscibile nonostante i fitti cespugli di rovo l’avvolgessero quasi completamente.
La grande ruota, costruita parte in legno e parte in ferro, era ancora visibile e così pure, una decina di metri più in là, ciò che rimaneva della saracinesca per il passaggio dell’acqua che veniva aperta solo quando si doveva macinare.
Dall’altra parte della strada, la fontana.
Brandelli di ricordi le affollarono d’improvviso la mente: quante volte era scesa fin lì per andare a prendere l’acqua! La casa dove abitava era lontana e questa incombenza toccava quasi sempre a lei.
La vasca era ancora quella: scavata sulla stessa roccia da cui sgorgava l’acqua, accompagnata allora da un coppo rovesciato, sostituito adesso da un meno romantico tubo di ferro con relativo rubinetto a farfalla.
Non poté fare a meno di fermare la macchina sullo spiazzo antistante anche se, poco distante, seduto su una grossa di pietra, c’era un tizio col cappello calato sugli occhi, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la sigaretta accesa tra le dita della mano abbandonata.
Sembrava mezzo addormentato.
Ai suoi piedi era accovacciato un grosso cane bianco con delle macchie grigie.
“C’è un albergo da queste parti?” domandò.
L’uomo alzò la testa di scatto; aveva la barba lunga e portava un paio di occhiali molto scuri.
Forse è cieco, pensò.
Lui se li aggiustò come per cercare di vederci meglio restando per un attimo imbambolato.
Subito dopo gettò la cicca a terra e la spense col tacco della scarpa.
“Può andare al Leon D’Oro” disse con voce interrotta da qualche colpo di tosse. “Lo trova poco più avanti… lungo la strada.”
“Non è di qui vero?” aggiunse poi mentre la donna si avvicinava alla sorgente.
“No, vengo da Roma” rispose frettolosamente Nella, e si mise a riempire una bottiglia di plastica dopo aver bevuto alcuni sorsi dal palmo della mano.
“È buona vero?  Questa è la fonte più vecchia della zona. Una volta, tanti anni fa, venivano tutti qui a prendere l’acqua, e qualcuno viene ancora, anche se adesso ci arriva direttamente a casa.”
Lei lo ringraziò e salutò risalendo in macchina.
Avrebbe scambiato volentieri qualche altra parola con quel tipo singolare ma preferì affrettarsi: era molto stanca dopo quel lungo viaggio. 

Estratto dal romanzo "Tempi da lupi" di Giulio Volpi e Nardino Cesaretti, Midgard Editrice 2019




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